martedì 27 settembre 2011

L'INGINOCCHIARSI aiuta il nostro spirito


L'INGINOCCHIARSI aiuta il nostro spirito a 
a pregare con più umiltà, fiducia e devozione.



Un nostro attento lettore (e paziente, che legge ancora Famiglia Cristiana) ci segnala e invia questo articolo di don Silvano Sirboni intitolato “Quando si sta in piedi a Messa?” apparso sul n. 35, Anno LXXXI del 28 agosto 2011, pag. 11 di Famiglia Cristiana.

Si tratta della rubrica “Chiedi al teologo” in cui i lettori pongono domande, a cui teologi e liturgisti, più o meno competente, più o meno faziosi, danno risposta.
Questa volta una lettrice domandava "Quali sono i momenti in cui si deve stare in piedi a Messa?".Don Silvano si cimenta in una dotta argomentazione che ha dell'incredibile (in difetto). Nel rispondere, il liturgista si produce in tutta una serie di frasi (arcinote, arcibanali e a nostro dire, arcibizzarre ) che già nell'incipit fanno saltare sulla sedia per poi far cadere direttamente in terra se si scorre nel prosieguo del testo. In rosso, infratestuali, alcuni nostri commenti, che non siamo stati in grado di non inserire.

"La difficoltà di partecipare attivamente econsapevolmente alla Messa, soprattutto a causa della lingua, costrinse in passato ad "assistervi" sovrapponendo ad essa devozioni private [molto più pie, devote e partecipate di certi atteggiamenti annoiati e distratti di molti fedeli contemporanei durante le Messe di oggi] e assumento l'attengiamento più consono a questo tipo di preghiera, cioè in ginocchio [già, perché infatti il fedele che "per caso" si recava in chiesa la domenica alle 10.00, forse non sapendo cos'altro fare, faceva ragionamenti del seguente tenore: "Tò ma guarda, son in una chiesa, e stranamente si sta celebrando una Messa -di cui, io cattolico, non so proprio nulla-! Allora vediamo un po' in che posizione potrei mettermi... ma sì, dai, mettiamoci in ginocchio, sì, va"] quando invece l'originario atteggiamento dell'assemblea nella preghiera liturgica è in piedi. Infatti [tenetevi forte, perchè qui arriva la solita solfa] attraverso il Battesimo i cristiani sono diventati figli nel Figlio e come tali stanno in piedi davanti al Padre [ma stare in ginocchio, difronte al compiersi del Sacrificio che lo stesso Figlio offre allo stesso Padre è così strano?]Eccettuati alcuni momenti in cui i fedeli stanno seduti o possono mettersi in ginocchio [si noti dice "possono"] nel rispetto di una prassi secolare [assurdo!! il rispetto dello stare inginocchiati sarebbe tributato alla prassi, e non al mistero sublime che si realizz sull'altare, alla Divina presenza di tutta la SS.ma Trinità nelle sacre specie, al sacrificio Eucaristico di Redenzione!!! Le vecchiette che ancora nonostante i dolori artosici si mettono in ginocchio, lo fanno solo per "abitudine" o antica usanza]durante le orazioni presidenziali [che orrendo termine!!] stanno in piedi poichè il sacerdote che presiede [e ridaiie!] non fa che prestare la sua voce al soggetto celebrante che è l'assemblea [qui il buon don Silvano è in odore di eresia, visto che omette di specificare che il vero, unico, indispensabile e solo "celebrante" è il Sacerdote-ministro, in persona Christi, mentre i fedeli non godono del "sacerdozio ministeriale!]corpo sacramentale di Cristo [qui forse l'eresia c'è veramente. Io sapevo che il corpo sacramentale di Cristo fossero solo e veramente l'Ostia e il Vino Consacrati. La Chiesa, o l'assemblea, sono, caso mai, il "corpo mistico" di Cristo. E c'è una bella differenza!!!!! ] "Insomma la risposta di don Silvano è po' confuso e ingannevole. E l'autore sa di esserlo, perchè pur citando la preghiera "Pregate fratelli..." non continua la frase che, forse unica traccia dell'essenza vera della Messa Cattolica, indica il ruolo del sacerdote, la natura e lo scopo della stessa: "e sorelle, affinchè il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio Padre Onnipotente" - E maggior mente omette la risposta, a cui allude solo di sfuggita: "Il Signore riceva dalla TUE MANI questo sacrificio a lode e gloria del suo santo nome, per il bene nostro e per tutta la Sua Santa Chiesa."




AMDG et BVM

"Dimissioni del Papa?... Preghiamo che Dio ce lo conservi a lungo"


di Antonio Socci - da Libero del 25 settembre 2011

Per ora è una voce (un’ipotesi personale di Joseph Ratzinger) e spero che non diventi mai una notizia. Ma poiché circola nelle più importanti stanze del Vaticano merita molta attenzione.
In breve: il Papa non scarta la possibilità di dimettersi allo scoccare dei suoi 85 anni, ovvero nell’aprile del prossimo anno.
Che Ratzinger ritenga possibile questa scelta è noto almeno dal 2002, quando si dovette studiare l’eventualità con l’aggravarsi della malattia di Giovanni Paolo II.
Ma Ratzinger è tornato sull’argomento anche da Papa. Nel libro intervista “Luce del mondo”, uscito nel 2010, interpellato dal giornalista Peter Seewald, ha dichiarato: “Quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, psicologicamente e mentalmente di svolgere l’incarico affidatogli, allora ha il diritto ed in alcune circostanze anche il dovere di dimettersi”.
Oggi papa Benedetto sembra veramente in forma, eppure si pone il problema della sua età e delle sue energie: “a volte sono preoccupato” ha confidato a Seewald “e mi chiedo se riuscirò a reggere il tutto anche solo dal punto di vista fisico”.
Con l’enorme mole di lavoro che sta facendo per la Chiesa e l’immenso carico di responsabilità spirituale che porta, il Papa ha affermato nel 2010 di sentire tutto il peso dei suoi 83 anni: “confido nel fatto che il buon Dio mi dà la forza di cui ho bisogno per fare quello che è necessario. Però mi accorgo anche che le forze vanno diminuendo”.
Egli sa di essere “ai limiti dell’umanamente possibile a quell’età”.
E’ in questo contesto che è nata in lui l’ipotesi (per ora solo un’ipotesi) di cogliere il passaggio degli 85 anni per passare la mano. Tuttavia lui stesso aveva dichiarato un problema morale.
A Seewald infatti – che l’aveva interpellato durante la terribile tempesta legata allo scandalo della pedofilia – il papa aveva spiegato:“Quando il pericolo è grande non si può scappare. Ecco perché questo sicuramente non è il momento di dimettersi. E’ proprio in momenti come questo che bisogna resistere e superare la situazione difficile. Ci si può dimettere in un momento di serenità, o quando semplicemente non ce la si fa più. Ma non si può scappare proprio nel momento del pericolo e dire. ‘se ne occupi un altro’ ”.
Oggi quella terribile tempesta, che Benedetto XVI ha definito “la peggiore persecuzione”, ormai sembra sia stata superata dalla Chiesa proprio grazie alla guida limpida e santa di questo pontefice che ha saputo chiedere perdono e insegnare umanità e umiltà (a Malta, un rappresentante delle vittime di abusi, Joseph Magro, dopo l’incontro col Santo Padre, ha dichiarato: “Il Papa ha pianto insieme a me, pur non avendo alcuna colpa per ciò che mi è accaduto”).
Tuttavia il momento della Chiesa è sempre duro e c’è un accanimento particolare proprio nei confronti di questo pontefice. Il filosofo ebreo francese Bernard Henri Lévy ha denunciato che tutte le volte in cui si parla di Papa Ratzinger “la discussione è dominata da pregiudizi, da insincerità fino alla più completa disinformazione”.
Quanto più si conosce questo uomo di Dio come un padre mite, sapiente, umano, tanto più sembra scatenarsi la corsa a demonizzarlo o umiliarlo.
Basta scorrere le cronache delle ultime settimane: il 13 settembre c’è chi addirittura vuole trascinarlo davanti al tribunale dell’Aja con la surreale accusa di “crimini contro l’umanità”, intanto dalla Germania arrivavano voci ostili al viaggio pontificio, il 20 settembre Umberto Eco lancia la sua ridicola bocciatura del papa come teologo sostenendo che perfino “uno studente della scuola dell’obbligo” argomenterebbe meglio di lui.
In questi giorni in Germania è stato accolto da varie manifestazioni ostili e secondo un sondaggio due terzi dei cattolici tedeschi (allo sbando per decenni di guida progressista della chiesa teutonica) hanno definito “per niente o poco importante” per sé la visita del Papa.
Mentre cento parlamentari si sono assentati polemicamente quando lui doveva parlare al Bundestag.
Tanta intolleranza e tanti pregiudizi risultano ancor più immotivati vista l’ammirazione generale che poi ha suscitato il discorso del Pontefice al parlamento tedesco (è sempre così: anche con il viaggio in Gran Bretagna i gelidi inglesi finirono con l’innamorarsi di questo Pontefice sapiente e umile).
Giuliano Ferrara – che è uomo colto e consapevole – dopo il discorso al Bundestag ha manifestato il suo entusiasmo, ha pubblicato per intero il testo sul “Foglio”, ha aggiunto un suo filosofico commento dove si è definito “ratzingeriano” e – pur da non credente – è arrivato ad affermare: “Solo un Papa ci può salvare”.
Ferrara che negli ultimi tempi (secondo me sbagliando) temeva che il grande papa Ratzinger (“il nostro amato Papa”) si fosse impaurito (per le virulente reazioni) dopo il discorso di Ratisbona e che lo vedeva “immerso nelle acque della sola fede”, da dove il Pontefice “invitava a pregare e a espiare le colpe personali e della chiesa”, dedito alla ricostruzione interiore della fede dei cristiani, ha ritrovato colui che considera l’unico vero, grande leader dell’umanità in questo frangente storico:“nello splendido discorso tenuto al Bundestag, il Parlamento della sua patria” ha scritto Ferrara, “è riemerso in chiara, mite e fulgidissima luce – la luce dell’intelligenza e della ragione – quel formidabile professor Ratzinger che fu eletto alla guida della chiesa di Roma su una piattaforma di lotta intellettuale ed etica alla deriva relativista e nichilista dell’occidente moderno. Che solo un Papa può salvare. Benedetto ha sorpreso tutti. Niente afflato pastorale minimalista, niente catechesi ordinaria, e invece un energico, nitido e straordinario richiamo alla sostanza di ciò che è politico, pubblico, e alla questione filosofico-giuridica di come si possa fare la cosa giusta, condurre una vita giusta, reggere governi e stati giusti, fare leggi giuste in un mondo che non dipende più dalla tradizione, dall’autorevolezza intrinseca della fede, ma dalla democrazia maggioritaria”.
E’ stata – aggiunge Ferrara – “una grande lezione filosofica, storica e teologica sui fondamenti, anzi sulla fondazione politica, della nostra cultura e della nostra idea di libertà, di umanità, di natura e di ragione. I giganti usano parole semplici e concetti alla portata di tutti, non sono esoterici, parlano al centro forte e realista dell’intelligenza umana. E così ha fatto il Papa (…). Non è un discorso intercettabile dalle polemiche e dai sofismi. Se siamo liberi, se siamo in un mondo laico, se siamo padroni del nostro destino è perché siamo cristiani. Il cristianesimo non ha imposto come legge la Rivelazione, non è la sharia, non è uno spazio mitico per litigiosi dei. Alla base dei diritti umani, delle conquiste dell’Illuminismo, dell’idea stessa moderna di coscienza, sta la scelta cristiana e cattolica in favore del diritto di natura e della legge di ragione”.
Ferrara lo spiega benissimo. Ma è davanti agli occhi di tutti la grandezza e l’umiltà di quest’uomo di Dio, che voleva lavorare per il Regno di Dio con lo studio e i libri, che non voleva essere nominato vescovo, né prefetto dell’ex S. Uffizio, che da lì aveva provato due volte a dimettersi e che – mentre lo stavano eleggendo Papa, nella Sistina – pregava così: “Signore, non farmi questo”.
Il popolo cristiano – come mostrano i due milioni di giovani accorsi a Madrid in agosto – sa che questo Papa arriva al cuore e all’intelligenza come nessun altro e le menti più limpide della cultura laica sanno che oggi Benedetto XVI è il solo faro dell’umanità in un frangente molto buio. Tutti speriamo che non ci abbandoni nella tempesta, che non lasci mai il suo ministero di padre di tutti.
Perché non tutti i papi sono uguali. San Vincenzo di Lérins diceva che “Dio alcuni papi li dona, altri li tollera, altri ancora li infligge”. Benedetto XVI è un dono a cui non possiamo rinunciare.

Antonio Socci

fonte: lo Straniero - il blog di Antonio Socci

Da BLOG.MESSAINLATINO.IT
AMDG et BVM

Santi martiri Cosma e Damiano fratelli

 Benedizioni a tutti i devoti  di questi Santi Medici, 
come anche a tutti i medici del mondo
"Noi ci fidiamo di Voi, Santi Cosma e Damiano. Non abbandonateci!"




In Egea il natale dei santi Martiri Cosma e Damiano fratelli, i quali, nella persecuzione di Diocleziano (AD 287), dopo aver superato per divina virtù molti tormenti, catene e prigioni, sommersioni nel mare e nel fuoco, croci, lapidazione e saette, furono decapitati; con essi furono poi martirizzati, come si dice, anche tre fratelli germani, cioè Antimo, Leonzio ed Euprepio.

A Parigi similmente il natale di san Vincenzo de' Paoli, Sacerdote e Confessore, Fondatore della Congregazione dei Preti della Missione e delle Figlie della Carità, uomo apostolico e padre dei poveri; il quale dal Sommo Pontefice Leone decimoterzo fu costituito celeste Patrono presso Dio di tutte le Associazioni di carità, esistenti in tutto l'orbe cattolico e dal medesimo Santo in qualunque modo derivanti. La sua festa però si celebra ai diciannove di Luglio.

Un contadino dopo aver falciato il grano si addormentò nel campo a bocca aperta, ed ecco che un serpente gli entrò per la bocca nello stomaco. Svegliatosi, il contadino tornò a casa senza sentir alcun male; ma verso sera fu preso da fortissimi dolori onde cominciò ad invocare fra i lamenti il nome dei santi Cosma e Damiano. Dipoi si recò nella loro chiesa: qui si addormentò e la serpe gli uscì dallo stomaco, così come vi era entrata. (Legenda Aurea, di Jacopo da Varagine, pg 650)


AMDG et BVM

sabato 24 settembre 2011

A SAN GIOVANNI ROTONDO IN UN MOSAICO PADRE PIO VIENE RAFFIGURATO MENTRE BENEDICE L'UNITA'



A SAN GIOVANNI ROTONDO IN UN MOSAICO PADRE PIO VIENE RAFFIGURATO MENTRE BENEDICE L'UNITA'
Ricordiamo che il giornale comunista alla morte di Stalin titolò: ''Gloria eterna all'uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell'umanità''
di Antonio Socci

Sono milioni ogni anno i pellegrini che si recano a San Giovanni Rotondo. E negli ultimi tempi si trovano davanti a sorprese che lasciano sconcertati, nel nuovo edificio di Renzo Piano dove è stato portato il corpo di san Pio.

Per esempio i mosaici (che a me non piacciono) realizzati da Marko Rupnik proprio per il sepolcro del Padre. In tutto il ciclo delle raffigurazioni c'è una testata giornalistica italiana che viene mostrata e di conseguenza viene – per così dire – pubblicizzata.
Una sola: "l'Unità". E'davvero molto sorprendente perché nel mosaico si vede padre Pio che addirittura benedice una tizia che ha in mano appunto "l'organo del Partito comunista italiano".
Il messaggio inequivocabile è quello di una benedizione alla stessa "Unità" e all'appartenenza comunista.
O comunque di una sua irrilevanza agli occhi di padre Pio. La didascalia – come vedremo – fornisce proprio questa interpretazione.

Bisogna tenere presente cosa era l'Unità e cosa era il Pci di Togliatti e Stalin ai tempi di padre Pio.
Sulle pagine del giornale comunista ovviamente venivano magnificate quelle dittature dell'Est che martirizzavano la Chiesa. E venivano propalate le tipiche menzogne del comunismo internazionale.
Quando, nel 1953, morì Stalin, uno dei più sanguinari carnefici della storia umana, l'Unità titolò così, a tutta prima pagina: "Stalin è morto. Gloria eterna all'uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell'umanità. Onore al grande Stalin!".


L'editoriale dell'Unità era il testo del Comitato centrale del Partito comunista dell'Unione sovietica. Vi si leggeva: "Il nome immortale di Stalin vivrà per sempre nel cuore del popolo sovietico e dell'umanità amante del progresso. Evviva la grande e invincibile dottrina di Marx, Engels, Lenin e Stalin! Evviva il grande Partito Comunista dell'Unione Sovietica!".
Poi veniva riportato la servile sviolinata di Togliatti, nel 1949, per il compleanno del feroce tiranno. Padre Pio conosceva bene l'orrore e le stomachevoli menzogne del comunismo che aveva imposto l'ateismo di stato con stragi e regimi di terrore.
E' ben noto che per lui l'adesione al Pci non era un'idea politica da discutere, ma un peccato mortale da confessare davanti a Dio e di cui pentirsi e ravvedersi. Senza se e senza ma.
Come ricordava quel comunista di Cerignola che andò a confessarsi dal padre, nel dopoguerra, e quando terminò l'elenco dei suoi peccati si sentì dire: "E quella tessera che tieni qui, non ti dice niente?".
Lui rispose: "Oh, Padre è per il lavoro". "E il lavoro te l'hanno dato? Hai tradito il Signore tuo Dio e ti sei messo tra i suoi nemici", tuonò il padre.
Ancora più movimentato fu il caso di un comunista di Prato, l'esplosivo Giovanni Bardazzi che padre Pio nel 1949 cacciò via dal confessionale e che – per ripicca – andò a un'udienza di Pio XII cominciando a strillare che padre Pio l'aveva cacciato.
Giovanni Bardazzi divenne poi uno dei figli più ardenti di padre Pio e non solo rinnegò la sua militanza comunista, ma andò a cantarle chiare ai suoi ex compagni e poi per anni e anni, ogni settimana, convogliò tanti di loro, un fiume di persone, a San Giovanni Rotondo.
Si può dire che padre Pio sia stato il più straordinario convertitore di militanti comunisti dell'Italia del dopoguerra, perché aveva capito benissimo quello che fior di intellettuali cattolici e laici non capirono: che cioè non era una faccenda politica, ma che si trattava di essere con Gesù Cristo o contro di lui. E il comunismo era ferocemente contro Cristo. Perciò anche contro l'uomo.


Fra le storie di conversione di militanti comunisti, la più sorprendente fu forse quella del medico francese Michel Boyer, un famoso eroe della Resistenza francese.

Una della più commoventi fu quella di Italia Betti, la "pasionaria" dell'Emilia. Durante l'occupazione nazifascista fu membro del CLN di Bologna e la si ricorda, il giorno della liberazione, entrare a Bologna, alla testa delle truppe partigiane, con una bandiera rossa in pugno.
Nel dopoguerra, alla guida di una moto, diffondeva nelle campagne il verbo del partito con grande zelo. 

L'incontro con padre Pio, nel 1949, capovolge la sua vita.
Nel dicembre lascia Bologna per andare a vivere a San Giovanni Rotondo suscitando grande clamore tra i compagni che cercarono di dissuaderla
.
Considerando tutti questi episodi quell'immagine con "l'Unità" al centro risulta del tutto fuorviante.
Ho dunque telefonato a un'importante personalità di San Giovanni Rotondo, che ha voce in capitolo, per capire il motivo di quel mosaico e mi sono sentito rispondere proprio questo: "ma è un'immagine che vuole ricordare le tante conversioni di comunisti avvenute tramite padre Pio, come quella di Italia Betti".
Sì, ho obiettato, ma in quel mosaico "l'Unità" non giace a terra, come segno di un passato ripudiato e di una conversione, ma sta fra le mani della persona che viene benedetta dal Padre, come una militanza mai abbandonata e legittimata.

Inoltre sotto il mosaico c'è questa incredibile didascalia: "Padre Pio benedice le donne e gli uomini di cultura. Il padre spirituale sa accogliere senza pregiudizi tutti quelli che a lui si rivolgono".

Non si parla di "conversione". Anzi, si attribuisce al Padre una "mancanza di pregiudizi" per dare ad intendere che a lui il credo marxista e la militanza comunista non facevano alcun problema.
Il mio interlocutore è parso sorpreso e ha detto che quella didascalia andrà corretta. Non so se sarà corretta, ma di certo non è un incidente. Riflette tutta una mentalità che è esattamente agli antipodi di quella di padre Pio.
Una mentalità per cui è proibito usare sia la parola "comunismo" che la parola "conversione". Sostituiti da "dialogo" e "senza pregiudizi".

Lo dimostrano due mosaici lì vicino. 

Nel primo, a fianco di quello descritto, si vede padre Pio che in bilocazione va a trovare il cardinale Mindszenty carcerato. La didascalia recita: "San Pio porta il pane e il vino al cardinal Mindszenty prigioniero".
Prigioniero di chi? Dell'anonima sequestri? No. Il primate fu incarcerato dal regime comunista ungherese, ma ovviamente lì non c'è scritto. E ben pochi pellegrini lo ricordano.

L'altro mosaico è il quadro della vita di san Francesco che vorrebbe essere il corrispettivo dell'immagine di padre Pio con la militante comunista: Francesco che durante la crociata va dal Sultano per convertirlo alla fede cristiana.
Convertire non è un verbo "politically correct". Che san Francesco e padre Pio vivessero letteralmente per salvare anime, quindi per annunciare Cristo a tutti (compresi musulmani, comunisti o massoni) e quindi per convertire tutti a Gesù Cristo, nella mentalità clericale corrente (espressa da Rupnik) sembra assolutamente un tabù. Indicibile.

Infatti nel sito internet del Centro Aletti, di cui è direttore proprio il pittore Rupnik, nella riproduzione dei suoi mosaici, sopra l'immagine di Francesco dal Sultano, si legge questa considerazione: "San Francesco, da uomo libero, non agisce secondo i pregiudizi e affascina persino il sultano con la sua predicazione. E, come dice san Bonaventura, è tornato in Italia triste non perché non abbia convertito il sultano, ma perché questi lo ha persino difeso e Francesco non è potuto diventare martire".
Dove san Bonaventura lo abbia scritto non è dato sapere. In realtà nella "Legenda Maior" di Bonaventura, al capitolo IX, dove si racconta l'episodio, si legge che Francesco chiede al Sultano "con il tuo popolo di convertirti a Cristo" e di "abbandonare la legge di Maometto per la fede di Cristo".
E' lì per questo e lo ripete al Sultano, pronto a subirne ogni conseguenza. San Francesco, come padre Pio, non era "politically correct".

E' noto che a Maglie c'è la discussa statua di Aldo Moro con l'Unità sotto il braccio. Ma che in una chiesa, nel sepolcro di un santo, si rappresenti padre Pio che benedice la militante con l'Unità in mano è decisamente troppo.
Fonte: Libero, 11/09/2011
Pubblicato su BASTABUGIE n.210

AMDG et BVM

venerdì 23 settembre 2011

Biografia di Don Guido Bortoluzzi



Un’infanzia difficile

Il 7 ottobre del 1907 veniva alla luce a Puos d’Alpago, poco lontano 
dal lago di S. Croce in provincia di Belluno, nel nord del Veneto, il piccolo 
Guido, terzogenito di Osvaldo Bortoluzzi che, dopo essere rimasto vedovo con la nascita del primo figlio, aveva sposato in seconde nozze Ancilla 
Mocellin. Entrambi i genitori erano maestri elementari. 


Dal primo matrimonio il padre aveva avuto Giuseppe, otto anni più 
grande di Guido, che morì ancora adolescente.

Dalla seconda moglie ebbe altri tre figli: prima Gino, nato nel 1906, poi 
Guido, nato nel 1907 e infine Giulio, nato nel 1910. 


La vita di Guido è stata segnata fin dai primi momenti da difficoltà: la 
madre non aveva latte e a quei tempi il latte artificiale non c’era ancora.

La nonna paterna Caterina si diede da fare e trovò a 7 km di distanza una 
buona contadina che aveva appena perduto il suo bambino ed era disposta a 
prendere a balia il piccolo. Aveva latte buono e tanto amore materno. 
Così nonna Caterina mise il neonato in una gerla di vimini e s’incamminò a piedi su per la montagna. Tra le braccia della balia Guido succhierà, 
insieme al latte, amore e cure. Sarà questo uno dei rari periodi di serenità 
della sua infanzia. 
Ad un anno, un mese e un giorno la balia lo riporterà a casa ancora con 
la gerla dalla quale il piccino, lungo la strada, faceva eco alle preghiere che 
la donna recitava a voce alta rispondendo ad ogni litania: “Oa po nobis”. 


Dopo poco la famiglia si trasferì a Farra d’Alpago dove con un mutuo i 
genitori avevano comprato una piccola e vecchia casa. 
L’ambiente era freddo in tutti i sensi. Fra i genitori non c’era armonia. 
La madre ‘siora Ancilla’, o semplicemente ‘la maestra’, come tutti la chiamavano, era brava, energica e temuta insegnante, ma dura e parziale con 
marito e figli. 
Il marito, appassionato cacciatore, si rifugiava sempre più spesso nelle 
battute di caccia pur di stare lontano da casa. Sovente si fermava a dormire 
nei cascinali, incurante del maltempo. Fu così che s’ammalò di tubercolosi, 
malattia che lo portò alla morte nel 1911 poco dopo la nascita del quarto 
figlio. 
Uomo impulsivo, collerico, scontento, era la sofferenza della vecchia nonna Caterina che non riuscì con le sue premure a farlo riaccostare ai 
Sacramenti neanche quand’egli si trovò in fin di vita. Lo ottenne il piccolo 
Guido.



Si legge in una pagina autobiografica: 


Quella santa donna carismatica che fu mia nonna paterna mi predisse 
fin da quando avevo quasi quattro anni che da grande sarei stato prete e 
sarei stato contento di sapere che il papà prima di morire aveva fatto pace 
con Dio. Era gravemente malato e aveva espresso il desiderio di vedere i 
suoi tre figlioletti prima di morire. 
Abitavamo a 8 km di distanza e ci andammo in carrozza. Non potevamo 
baciarlo in faccia perché c’era pericolo di TBC.

La mamma si fermò da lui in camera; noi, piccoli, fummo invitati dalla 
nonna a rimanere fuori, nel corridoio. 
Qui la nonna chiamò vicino a sè il 
più grande, di 5 anni. Voleva incaricarlo di una missione, ma egli scappò 
via. Chiamò me e disse: 


– Hai visto il papà com’è patito! Morirà presto e non lo vedrai più. – E 
piangeva. – Poveri piccoli! Ha patito tanto, sai, e patirà ancora di più dopo 
morto perché ha detto tante e tante bestemmie. Ma tu vuoi bene al tuo papà, 
vero? Tu puoi salvarlo dai patimenti dell’inferno dopo la morte. – 


E mi spiegò in breve cos’è l’inferno. 
– Va dentro e digli che chiami il prete e che faccia pace con Dio. – 


Entrai e dissi: 
– Papà, ti voglio bene; non voglio che tu vada a patire anche all’inferno. – 
– Reazione violenta: – È stata quella stupida di tua nonna a dirti queste 
cose? – E giù ingiurie e bestemmie. Scappai fuori e dissi alla nonna: 
– È cattivo, non torno da lui. – 
Lei invece mi convinse a ritornare. Mi promise che avrebbe pregato lo 
Spirito Santo e la Madonna perché gli facessero capire l’importanza e l’urgenza del messaggio. Mentre mi scostavo da lei disse: 
– Povero innocente, perché sei così piccolo non ti crederà. Ma ti seguo 
con la preghiera. –
Arrivato al capezzale del malato, dissi subito: 
– Papà, tu non mi credi perché sono piccolo, ma io so, sai, quello che 
dico. Quando sarò grande sarò prete e sarò contento di sapere che, prima 
di morire, hai fatto pace con Dio. –
– Io sono sempre in pace con Dio. –
– Eh no, papà. Ti ho sentito dire bestemmie e parolacce alla nonna. – 
Da quanto è che gli insegni la lezione? – chiese alla mamma.
– Non gli ho mai parlato di queste cose. –




Erano circa due anni che egli viveva dai nonni e ignorava i miei progressi nel parlare. Egli mi guardò fisso per alcuni istanti, poi disse: 
– Vieni qua, che ti dò un bacio. – 
Nonna e mamma intervennero: – No! È troppo pericoloso! –
– Lasciatemi quest’ultima soddisfazione prima di morire. – 


Devo dire che mentre parlavo col papà la nonna usciva in molte esclamazioni: 
– Caro da Dio! È lo Spirito Santo che gli fa dire queste cose. Ascoltalo 
figlio mio, è tuo sangue. –


Un anno dopo la nonna venne a trovarci a Farra. Si mostrò buona con me. 
– Tu hai salvato tuo padre – disse – e salverai ancora molte anime. –


La nonna in quell’occasione gli portò un giochino. Quando partì, la 
mamma prese il gioco per darlo a Giulio, il più piccolo, che lo ruppe subito. 
Dopo la morte della nonna Guido non ebbe più nemmeno il soldino che 
ella donava ai nipotini nelle feste. 


Orfano di padre e con la morte della nonna, la sua vita divenne ancor 
più triste. La madre aveva per lui un astio incontrollabile e una predilezione 
speciale per il piccolo Giulio che era il più bello ed il più gracilino dei quattro maschi. Guido invece era un bambino forte, che cresceva bene. Forse 
per questo a tavola, nella povera cucina, doveva sedersi sempre nel posto 
più esposto agli spifferi che entravano dalle fessure della finestra. Negli 
inverni freddi l’aria gelida che gli arrivava dritta alle spalle diventava un 
tormento. 
Fino alla quinta elementare non ebbe neppure un letto normale e fu costretto a dormire raggomitolato in un lettino con le sponde che gli impedivano di allungare le gambe. 


Come i suoi fratelli, doveva andare a turno a prendere l’acqua alla fontana, portare al primo piano la legna e fare ogni genere di servizi, come quello 
di salire a prendere il latte alla malga Pèterle che distava più d’un’ora di 
cammino, dove in estate alpeggiavano le mucche della valle.

Scrive don Guido: “Ebbi un’infanzia e una fanciullezza senza i giochi e 
gli spassi di quell’età per dover accudire alle faccende di casa, ma con la 
gioia di andare in chiesa alle funzioni e a cantare”. 




La sua precoce vocazione 
diventa una promessa 


Fu appunto durante una di queste escursioni per andare a prendere il 
latte quando, all’età di dieci anni, gli accadde un fatto che rafforzò la sua 
decisione di offrire tutto se stesso alla Madonna e al Signore e diventare 
prete: la Madonna lo aveva miracolosamente salvato dal pericolo di cadere 
in un precipizio. 


Riprendo un’altra pagina autobiografica.

Ero arrivato alle Casere Pèterle, in cima alla valle Runàl, a prendere il 
solito latte da Giovanna Mira quando mancava poco più di un’ora al tramonto. In breve il sole fu oscurato dalle nubi e cominciò a piovere. 
Nella  speranza che cessasse, mi fermai. Ma, visto che continuava, mi decisi di 
ripartire. Mi diedero una vecchia giacca per coprirmi le spalle. 
Calzavo un paio di scarpette di pezza. Dovevo risparmiare le ‘dàlmade'
dai danni dei ciottoli che coprivano la strada ripida, ma i danni li 
sentivano le mie caviglie. 
Mi sconsigliarono di prendere la scorciatoia per i prati del Col Salèr ai 
Lastrìn, ma, giunto al bivio coi piedi dolenti, preferii eventuali scivolate sul 
prato ai sassi che mi rotolavano sotto i piedi. 
Si fece buio presto e non sapevo a che punto dovevo girare a sinistra per 
ritornare sulla strada. La pioggia sempre più fitta ad ogni nuovo lampo e 
tuono faceva scorrere l’acqua sotto i miei piedi. 
Lunghi scivoloni mi avevano portato troppo a destra dove sotto c’era il 
burrone profondo e il torrente che rumoreggiava minaccioso. Ad ogni scivolone mi adagiavo sul fianco per aderire di più al suolo ripido e per poter 
piantare le dita della mano libera sul terreno e così trattenermi. 
Con l’altra tenevo il manico del vaso del latte che era da cinque litri, ma 
ne conteneva uno soltanto, non avendone trovato uno più piccolo. 
Un terrore inesprimibile mi invase quando mi sentii scivolare per una 
decina di metri fin dove sentivo direttamente il fragore del torrente sottostante. Mi adagiai supino annaspando intorno senza trovare alcun appiglio. L’acqua piovana scorreva sotto la mia schiena. La vecchia giacca che 
mi era stata data era inzuppata e pesante e mi era sfuggita dalle spalle. 
Terrorizzato invocai la Madonna. In cima alla valle c’è Irighe col suo 
Santuario, mèta di pellegrinaggi. A Lei rinnovai il mio proposito di consacrarmi al Signore. 



Non osavo muovermi perché ogni piccolo movimento mi faceva scivolare. 
Mi vedevo con la fantasia ormai morto sfracellato laggiù e immaginavo 
come il dì seguente mi avrebbero cercato e raccolto in pezzi. 
Invocavo un po’ di luce, urlando fortemente. 
Proprio sopra di me guizzarono successivamente tre lampi e vidi la mia 
posizione. 
Riuscii a raccogliere la giacca, ma non il berretto nuovo al quale ero 
affezionato per la piccola aquila dorata che era stata cucita sul davanti. 
Fatti alcuni passi prudenti verso la strada, mi ritrovai di fronte ad un 
profondo crepaccio. Non potevo saltarlo e non trovavo, nel buio, il modo di 
aggirarlo. Disperato urlai ancora: 
Madonna Santissima, 
aiutatemi ancora. Fate che 
trovi la via d’uscita.
Fui molto contento di vedere ancora un lampo e poi 
un secondo. Così riuscii a 
portarmi in salvo. 
Il berretto fu trovato, su 
mie indicazioni, da mio fratello maggiore il giorno seguente, in cui toccava a lui, 
di turno, recarsi alle Casere 
Pèterle, a prendere il solito 
litro di latte. 


La visione dell’apparizione della Madonna ai tre pastorelli a Fatima,
il 13 ottobre 1917,  avuta da don Guido a 10 anni

Di lì a poco ci fu un altro episodio che vagamente si ricollega a quello 
precedente per via di quel famoso berretto e che ricorderà da adulto con 
molta commozione in un altro brano autobiografico.


C’è un rapporto misterioso tra una visione che ho avuto il 13 ottobre 
1917 all’età di dieci anni e il fatto straordinario accaduto lo stesso giorno 
a Fatima in Portogallo. 
Quel giorno mi trovavo a giocare a nascondino con un amico in una 
stalla vuota di animali, presso casa mia. Egli mi tolse il berretto, lo gettò 
sul selciato e vi buttò sopra una bracciata di foglie secche tolte da un grande mucchio addossato alla parete, sfidandomi di trovarlo entro lo spazio di 
un’Ave Maria. 
– Adesso trova il tuo berretto – disse. 
– Lo troverò – risposi – a costo di passare le foglie ad una manciata 
alla volta. – 
Trovato il berretto, toccò a me nasconderlo. A turno egli si voltò dalla 
parte opposta, mentre nascondevo il berretto sotto un mucchio più grande 
di foglie. Il gioco continuò con sfida alterna. Ad un nuovo turno mio, il berretto si trovò sotto un mucchio di foglie alto quanto la mia statura.

La campana suonò l’Ave Maria di mezzodì e l’amico scappò via. 
Introducendo il braccio tra il fogliame, non riuscivo più a pescare nel 
fondo il berretto come le altre volte. Non si trovava più al centro della base 
del cumulo. Dovetti adattarmi a prendere una bracciata alla volta di quelle 
foglie e riportarle nel mucchio grande. Quel berretto, comprato qualche 
mese prima per me, mi aveva recato una grande gioia quando mi venne 
regalato da mamma. Portava sul davanti, sopra il frontino, un’aquila di 
metallo dorato con le ali aperte, ma era stato ridotto ad un cencio durante 
il furioso temporale di qualche giorno prima, quando lo perdetti in montagna e rischiai di perdere insieme anche la vita. 


Faticai quel mezzodì del 13 ottobre a trovare il berretto nascosto per 
gioco e intanto meditavo sul terrore di quella sera, delle mie grida di aiuto 
alla Madonna, sul miracolo dei lampi che mi salvarono, e sulla mia promessa... 


Quando ritrovai il berretto, ebbi d’improvviso la visione che la Madonna 
stava apparendo a dei bambini grandi più o meno come me e vidi che stava 
compiendo un miracolo




Temendo d’esser creduto un visionario, tenni il segreto per me. In casa 
chiesi a mamma se era successo qualcosa di importante nel mondo. Andò a 
prendere il giornale. Nulla. Il dì seguente mi disse che tutti i giornali parlavano di Fatima e dei tre fanciulli. 
Molte volte, guardando quel berretto che ancora conservo, penso a 
quella visione...




Nel frattempo era venuta la guerra e con essa la fame. 


Dopo che l’affezionatissima nonna era morta, i due figli più piccoli, 
Guido e Giulio, vennero mandati a Tambre d’Alpago, paese di origine dei 
genitori, da uno zio che faceva il contadino, perché lo aiutassero in campagna e nella stalla in cambio di un piatto sicuro. Giulio fu riportato a casa 
dopo poco tempo perché era sempre in lacrime per la nostalgia. Guido invece rimase lì, salvo brevi intervalli, per quasi tre anni, ben voluto e ben 
nutrito. Tornò a casa più forte e più sano. 


 La visione fu solo visiva, non uditiva. Ciò che il piccolo Guido vide fu l’apparizione della 
Madonna ai tre pastorelli e il miracolo del sole che in quello stesso giorno a Fatima prese 
a girare davanti a migliaia di persone. Una curiosità: don Guido è nato nel 1907, lo stesso 
anno di Sr. Lucia di Fatima.


 Il ricordo della visione del 13 ottobre del 1917 fece pensare a don Guido, una volta concluse le rivelazioni, che ci fosse una relazione fra queste e il terzo segreto di Fatima, visto che 
la Madonna li aveva in qualche modo associati.


Nemmeno questa lunga assenza fu sufficiente a fargli recuperare l’affetto della madre che in quel periodo aveva visto solo tre volte nonostante la 
sua casa distasse appena 8 km da quella dello zio: forse assomigliava troppo 
a sua nonna Caterina che lei non sopportava.

Il Cappellano di Farra lo notò per la sua bontà e correttezza e, benché 
appena dodicenne, gli affidò l’incarico di catechista ad una trentina di compagni in vista della Prima Comunione. Gli impartì anche i primi elementi 
di latino. 


Di lì “...l’invito del parroco ad entrare in Seminario, poi la Cresima, 
l’abbraccio del Vescovo Cattarossi, gli studi...”.



Nel 1920 partì per Feltre, dove il Seminario aveva solo le classi inferiori. 
Furono anni duri, in cui patì il freddo e la fame. Vi furono reclami da parte di seminaristi e genitori e, dopo successivi controlli della Curia Vescovile 
di Belluno, le cose andarono meglio.



Nel Seminario di Feltre ebbe le prime due predizioni riguardanti le future “rivelazioni che avrebbe ricevuto da anziano dal Signore sulla Genesi 
Biblica”. 


La terza la ebbe nel Seminario di Belluno e l’ultima quando già era 
Cappellano a Dont, piccolo paesino della Val Zoldana. 


Prima però accadde un fatto strano che lasciò perplesso don Guido: 
“Padre Anselmo e Padre Emidio, francescani venuti da lontano, dopo 
aver predicato una grande missione al mio paese nel 1921, vennero a cercarmi al Santuario di San Vittore, vicino a Feltre, dove mi trovavo a passeggio con i miei compagni di Seminario, e insistettero perché andassi con 
loro per farmi frate”. 
Proposero al giovane Guido una borsa di studio che comprendeva l’intera retta per tutti gli anni del Seminario: vitto, alloggio, libri, tasse scolastiche e la promessa della consacrazione anticipata di un anno rispetto alla 
data prevista dai corsi regolari e quindi la possibilità di celebrare la Messa 
dodici mesi prima. Insistettero a lungo e con tanta benevolenza. 
Guido, allora quattordicenne, ne fu entusiasta perché provava una grande fiducia per questi Padri.


 Tornato in Seminario, corse nello studio del 
Rettore per comunicargli la notizia. Ma questi gli disse in modo perentorio 
che, se anche fosse uscito solo per prova, non avrebbe più rimesso piede 
nel Seminario di Feltre. Gli ricordò i grandi sforzi economici fatti dalla sua 
famiglia e la riconoscenza che egli doveva ai suoi parenti e ai Superiori e si 
fece promettere che avrebbe declinato l’invito. 


Guido passò un giorno e una notte in grande angoscia, combattuto dal 
desiderio di seguire i padri francescani e la promessa fatta al Rettore e finì 
per rinunciare. “Dissi ai Frati che la loro divisa non mi piaceva e che la 
decisione era troppo impegnativa”. 


Ripensando a quest’episodio non riusciva a capire come mai fossero 
venuti da così lontano per fare solo a lui questa proposta, dal momento che 
nel Seminario e nella sua stessa classe c’erano alunni molto più intelligenti 
e preparati di lui. Infatti, nei suoi studi non brillava per profitto. Per questo 
non si spiegava come qualcuno potesse aver interesse a lui. 


Più tardi pensò che il motivo di tanta insistenza dei due Frati fosse dovuto alla loro conoscenza di cose future che prudentemente non avevano 
voluto rivelare. Con l’età gli rimase il rimpianto e il dubbio che quell’opportunità gliel’avesse mandata il Signore. 




L’anno seguente accadde un fatto ancor più singolare: da alcune parole 
profetiche di un santo Sacerdote venne a sapere che Dio lo aveva scelto 
come strumento per spiegare all’umanità alcuni passi oscuri della Bibbia.

Sentiamo quanto egli stesso scrive. 


1922: prima predizione, di San Giovanni Calabrìa
del progetto di Dio su don Guido 


Nel 1922, mentre ero in Seminario a Feltre, ebbi una predizione di don 
Giovanni Calabria. 
Accadde questo fatto: con i miei compagni di classe ritornavamo dal 
cortile alla sala di studio attigua alla stanza del Rettore. Il Rettore era davanti alla sua porta e parlava con un Sacerdote forestiero. 
Appena entrati, ci raggiunse lasciando l’uscio aperto e disse che quel 
Sacerdote era don Giovanni Calabria, fondatore della Casa dei Buoni 
Fanciulli di Verona, un carismatico come don Bosco, e che, guardandoci 
entrare, gli aveva detto che uno di noi, diventato anziano, avrebbe scritto 
un libro molto importante e che avrebbe dovuto scriverlo presto. Solo io, 
fra i dodici compagni, chiesi: 
–  Lo saprà quell’uno di noi, l’interessato, che il suo libro è 
molto importante? – 
Dal corridoio mi giunse la voce di don Calabria: 
– Sì, lo saprà. È proprio lui. – 
–  Su quale argomento? – replicai. 
–  Vado a domandarglielo – rispose il Rettore. 
Il Rettore uscì e parlò con don Calabria. Rientrato disse che l’interessato 
lo avrebbe saputo e che riguardava la Bibbia, la Genesi biblica. Poi chiese: 
–  Chi ha fatto quella domanda? –


 [NB: S. Giovanni Calabria, figura profetica e grande carismatico della prima metà del XX 
secolo (1873-1954), fonda nel 1907 a Verona la ‘Casa dei Buoni Fanciulli’ per accogliere i giovani in difficoltà, nel 1910 fonda l’ordine delle “Povere Serve alla Divina 
Provvidenza” e infine un ospedale e una casa di riposo. È stato chiamato ‘il Profeta del 
Volto del Padre’ per la sua totale fiducia e abbandono in Dio come Padre buono. La sua 
Opera infatti è interamente affidata alla Provvidenza, mettendo in pratica l’insegnamento 
del Vangelo. Riteneva urgente irradiare il Vangelo in tutto il mondo per affermare il primato del Regno di Cristo e difendere il patrimonio religioso e culturale della Chiesa dei primi 
secoli. Figura estremamente attiva nella Chiesa, è stato beatificato nel 1988 e canonizzato 
il 18 aprile 1999.] 


Tacqui nel timore di aver commesso un’impertinenza. Ripetè l’interrogazione. Un compagno disse il mio nome. C’era un mio omonimo. Uno 
m’indicò col dito. Egli mi guardò, poi guardò tra i banchi il mio omonimo 
che era il più bravo della classe. E poiché dell’altro don Giovanni Calabria 
aveva predetto che avrebbe cambiato strada, disse: 
– Ho capito. So io quale dei due. – Quello divenne il beniamino; io, 
secondo il Rettore, ero quello che avrebbe cambiato strada. Accadde il contrario. 
Il Rettore pagò d’allora in poi per ‘l’omonimo’ la retta di tasca sua. E poiché don Calabria aveva predetto che ‘l’altro’ sarebbe uscito dal Seminario, 
il chierico Guido fu trattato in seguito con molta freddezza e sufficienza. 




1928: seconda predizione, di padre Matteo Crawley


[NB:  Padre Matteo Crawley-Boewey (1875-1960), di origine peruviana, ma residente in Cile, 
apparteneva alla Congregazione dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria. Grande carismatico con 
doni di profezia, comprese, meditando le rivelazioni di santa Margherita Maria Alacoque, 
che ogni uomo e ogni nazione nasce sotto il dominio del ‘Principe di questo mondo’ e che 
solo la piena adesione e consacrazione a Cristo di tutte le famiglie e di tutte le istituzioni può 
ridare la libertà spirituale e fisica alla società. Per contrastare gli errori dei tempi moderni e 
l’ateismo dilagante, dedicò tutte le sue energie ad estendere la devozione e la consacrazione di tutte le famiglie e di tutte le nazioni cattoliche ai Sacri Cuori di Gesù e di Maria con 
l’obiettivo di portare il cristianesimo con vasto carattere sociale a tutti i popoli della terra 
per conseguire la pace a livello mondiale. La sua iniziativa godette l’appoggio di papa Pio 
X, del suo successore Benedetto XV e in particolare di Pio XI che durante il suo pontificato 
istituì la festa di Cristo Re con l’enciclica ‘Quas primas’ nel 1925. P. Matteo Crawley rimase 
famoso anche per la sua iniziativa dell’Ora Santa, un’ora mensile di adorazione notturna 
nelle famiglie, in riparazione agli oltraggi alla Regalità di Nostro Signor Gesù Cristo. Morì 
in concetto di santità ed è in corso la sua causa di beatificazione.]



Finito il ginnasio a Feltre, il giovane Guido si trasferì, con altri 
Seminaristi della provincia, al Seminario di Belluno dove vi erano solo le 
classi superiori. 


Passarono gli anni e Guido crebbe meditando sempre le parole di don 
Calabria nel suo cuore. 
Leggiamo ancora quello che accadde poi: 


Nel 1928, all’inizio del secondo anno di teologia, Padre Matteo Crawley 
tenne un ritiro per tutti i chierici e predisse a ciascuno, senza nominarlo ma 
fissandolo negli occhi, il suo avvenire. 


Fra gli altri ricordo che disse di uno, intelligente e buono, che sarebbe 
salito ai più alti gradi della gerarchia ecclesiastica. Dai brevi connotati, 
molti capirono, compreso egli stesso, che si riferiva ad Albino Luciani che 
allora faceva la prima o la seconda liceo. Poi, dopo una breve pausa, soggiunse: “Ooooh..! Ahimè..! Ma durerà poco!”.

Guardò anche me e disse, fissandomi negli occhi, che uno di noi avrebbe 
ricevuto una rivelazione sui punti oscuri della Genesi Biblica. Descrisse in 
breve la mia vita dicendomi che avrei avuto molto da soffrire, anche per 
l’incomprensione dei miei confratelli e dei miei Superiori. 
Non avevo più dubbi: il Signore, malgrado le mie molte insufficienze, mi 
guidava al Suo scopo. 


Padre Matteo Crawley gli preannunciò anche che avrebbe subìto un furto. A quale furto si riferisse non lo seppe mai. Solo in vecchiaia pensò che 
si fosse trattato del dizionario dei toponimi che egli aveva composto con 
grande fatica e che gli fu sottratto dalla sua casa di Farra. 


Però questo vago annuncio gli diede fin da allora non poca inquietudine. 
Per questo divenne un tantino sospettoso e diffidente con il prossimo. 
Il suo voler sapere sempre il come e il perché delle cose, aveva dato al giovane Guido fama di contestatore e per gli insegnanti era un alunno scomodo. 


In un esame, presieduto dal Vescovo Cattarossi, si presentò la solita situazione di prevenzione dell’esaminatore che, posta la domanda al giovane 
Guido, cominciò a parlare senza dargli la possibilità di aprir bocca, nonostante egli cercasse con la mano di interromperlo per esporre egli stesso. 
Il professore fece per accomiatarlo e propose un voto sufficiente, ma 
basso. 
Il Vescovo intervenne: 
– Ora voglio sentire lui, gli faccia un’altra domanda. –
E Guido, libero questa volta di parlare, espose bene e diffusamente l’argomento. Il Vescovo propose un nove. Fecero media, e gli venne dato otto. 
Guido ne fu molto incoraggiato perché comprese d’essere stimato dal 
suo Vescovo. 




1932: terza predizione, di mons. Gaetano Masi


[NB: Mons.Masi, nato a Vallesella di Cadore nel 1870, si laureò in filosofia e teologia a Bologna e in "utroque iure" a Roma.
Nel 1895 divenne insegnante di dogmatica al seminario di Belluno. Rimosso 
dalla sua cattedra da Pio X per le sue idee moderniste espresse sul settimanale cattolico ‘La 
Domenica’ di cui era direttore, si trasferì prima a Monaco di Baviera, poi a Vienna alle dipendenze dell’ ‘Opera Bonomelli’ per dedicarsi all’assistenza spirituale degli emigrati. Nel 
1913 venne richiamato a Belluno dal vescovo Cattarossi che lo designò l’anno successivo 
vicario generale della diocesi. Nel 1919 gli venne assegnata la cattedra di dogmatica, catechetica e teologia pastorale nel seminario di Belluno alla quale rinunciò dopo un decennio 
per dedicarsi totalmente alla direzione spirituale dei seminaristi, fra i quali il chierico Guido. 
La sua spiritualità verteva principalmente sulla  ‘Consecratio Mundi’ a Cristo Re. Il suo 
motto era: “Fatevi santi senza riserve! Buttate via il pessimismo e abbiate fiducia nella liberazione globale! Cristo infatti non ha solo salvato le anime, ma anche i corpi, riconsacrando 
in radice tutte le realtà terrestri”. Morì improvvisamente come un santo nel 1936. Non vi è 
dubbio che Mons. Masi ebbe un ruolo importante nella formazione di don Guido.]

Vi fu tuttavia fra i suoi Superiori chi lo considerava e 
lo vedeva con gli occhi del Signore. 


Nel gennaio del 1932, mentre erano in corso gli Esercizi spirituali agli 
ordinandi Sacerdoti, mons. Gaetano Masi, Padre spirituale dei seminaristi, 
concluse con questa espressione: 
E quando il Signore si degnerà manifestare a uno di voi – guardando diritto al chierico Guido – il mistero del peccato originale, ringraziateLo, perché solo per mezzo della conoscenza della vera essenza del 
peccato originale potranno essere compresi il mistero e l’economia della 
Redenzione. –


La consapevolezza della sua missione maturava così, lentamente, nel 
suo animo, nella riservatezza, modestia e umiltà, col cuore pieno d’attesa e 
di riconoscente abbandono nella serena disposizione di accettare la Volontà 
di Dio tutta intera.

Ma i dolori non gli furono risparmiati neanche il giorno della sua 
Consacrazione, il 31 gennaio 1932, giorno che egli attendeva con molta 
emozione insieme ad altri sei consacrandi.

Era felice e compreso della grandezza di quanto stava compiendosi. 
Arrivò il suo turno e il Rettore disse al Vescovo Cattarossi: 
– Ecco il contestatore! – 
Il Vescovo, che lo stimava, ne fu palesemente addolorato. 
Il giovane Guido gli disse sottovoce: 
– Non si rattristi! – 
Il Vescovo capì e gli sorrise.

Quella festa che doveva esser un tripudio di gioia fu invece sciupata dalla tristezza. Tuttavia in cuor suo era certo, certissimo, della sua vocazione, 
consapevole già allora che stava portando la croce con Gesù. 


Il 2 febbraio del 1932 celebrò la sua prima Messa. Questa data fu ricordata da lui negli anni come la più importante della sua vita e ad ogni 
anniversario era preso da grande commozione.

Don Guido Sacerdote 


Don Guido fu subito mandato cappellano a Fusine, frazione di Zoldo 
Alto in provincia di Belluno, dove rimase fino al 1934 quando fu nominato 
Parroco a Dont, frazione di Forno di Zoldo, a pochi chilometri di distanza 
dalla sede precedente.

Vi rimase dieci anni, dando tutto se stesso ai suoi parrocchiani e al restauro della chiesa che aveva urgente bisogno di un tetto nuovo e di altri 
interventi di manutenzione. 


Quarta predizione, di Teresa Neumann


Don Guido ebbe anche un altro incontro significativo che può aggiungersi alle predizioni avute in Seminario: fu la visita di Teresa Neumann che 
venne appositamente dalla Germania fino a Dont per conoscerlo




Egli ne aveva già sentito parlare, ed aveva anche acquistato un paio di 
libri che parlavano di lei. Ma quando ella si presentò alla porta della sua 
canonica, a piedi, vestita con modestia e con un fazzoletto in testa, lì per lì 
non la riconobbe. 
Infatti, al suo saluto in tedesco, don Guido le chiese, sempre in tedesco, 
chi fosse e come mai fosse arrivata fin lassù. 
Ella si presentò e soggiunse che “desiderava conoscere l’uomo sul quale 
Dio aveva grandi progetti di Misericordia”. Certamente Teresa Neumann 
alludeva all’intera umanità. Don Guido invece pensò che la Misericordia 
fosse rivolta a lui e, sentendosi gran peccatore, rispose: 
– Preferirei non provocare la Sua Giustizia. – 
Ella sorrise e gli disse: 
– Quando il Signore le parlerà scriva tutto, proprio tutto! Il Signore le 
vuole molto bene. – E, dopo una breve pausa, aggiunse: 
– Lei avrà molto da soffrire. –


 [NB: Teresa Neumann di Konnersreuth (1898-1962), è riconosciuta come la grande mistica stimmatizzata bavarese del XX secolo. Contadina di nascita, rimase cieca e paralitica per un 
incidente poco più che ventenne e venne miracolata nel 1927 per intercessione di S. Teresa 
di Lisieux. Per 36 anni, fino alla sua morte, visse di sola Eucaristia, senza mai toccare né 
cibo, né acqua. Ogni settimana riviveva la Passione di Cristo perdendo, il venerdì, quattro 
chili di peso per riacquistarli la domenica senza toccare cibo. Fu oggetto di studio per molti 
medici. Parlava, pur senza istruzione, in greco, latino e aramaico. Tenne un’affettuosa corrispondenza con Padre Pio da Pietrelcina. Morì in concetto di santità. È in corso la sua causa 
di beatificazione.]



 La data è incerta perché nei suoi appunti non è precisata. Di certo si sa solo che fu tra il 
1934 e il 1945, anni in cui don Guido fu parroco a Dont.


Egli le offrì da mangiare. Teresa declinò l’invito: non volle nemmeno un 
uovo a bere. A quel tempo ella viveva unicamente d’Eucarestia, ma non lo 
disse. Gli chiese solo un posto per la notte. Don Guido, però, volendo obbedire al Vescovo che aveva emanato una circolare nella quale si ordinava 
di non ospitare nessuno nelle canoniche per la notte, specialmente donne, 
le disse che non poteva e la invitò a proseguire per altri 3 o 4 km dove il 
Parroco di Fusine poteva ospitarla in una piccola foresteria distaccata dalla 
canonica. Ella vi andò e vi pernottò.

Il mattino seguente accadde un fatto strano. Don Guido stava celebrando 
la S. Messa. Poco prima della Comunione, mentre diceva “Agnus Dei qui 
tollis peccata mundi...”, la Particola che teneva tra le dita improvvisamente 
scomparve. 
Lui e le donne della prima fila la cercarono ovunque, inutilmente. 
Tutti furono testimoni di quella sparizione e nessuno capì. 
L’indomani don Guido incontrò il parroco di Fusine presso cui era stata 
ospite Teresa Neumann e gli chiese se era venuta da lui una donna. Egli 
rispose di sì ed aggiunse che non gli era piaciuta perché gli aveva fatto dei 
rimproveri. Disse anche che, durante la Messa, le aveva chiesto se volesse 
fare la Comunione ed ella gli aveva risposto che l’aveva già fatta. 
Il Parroco di Fusine aggiunse d’averla guardata commiserandola poiché 
non si era mossa di lì. Don Guido però capì. 


Si dice che Teresa Neumann non sia mai uscita dal Reich. Che fosse 
venuta a Dont in bilocazione? Don Guido non seppe dare una risposta a 
questo interrogativo.



Don Guido, Curato a Casso
(in provincia di Pordenone, ma nella diocesi di Belluno)


Nel 1945 fu mandato Curato a Casso, un paesino che si trova sopra 
la diga del Vajont, ai confini della provincia di Belluno con quella di 
Pordenone, cioè tra il Veneto e il Friuli Venezia Giulia. 


Al tempo della Repubblica Veneta, Casso era stato per secoli un luogo 
di confino, un bagno penale della Serenissima, dove venivano mandati i detenuti politici e comuni, le prostitute, gli indesiderabili di ogni provenienza 
e gli ex-galeotti dàlmati che non potevano più esser impiegati come rematori sulle galere. I confinati non potevano uscire dal limite territoriale ben 
picchettato e sorvegliato dai soldati della Repubblica. Dentro questi limiti 
potevano fare ciò che volevano, anche giustizia personale. 
Gente difficile, dunque, di un paese povero, poverissimo, dove si allevavano i cinghiali al posto dei maiali, dove le case non erano intonacate, 
dove talvolta famiglie di due o tre generazioni vivevano in un’unica stanza 
e dove poteva accadere che ragazzine di dodici anni partorissero figli illegittimi, talvolta frutto di incesti.

In questo contesto don Guido ebbe molto da lavorare e ovviamente gli 
fu opposta molta resistenza. La sua sincerità dal pulpito gli procurò non 
pochi nemici. Molti furono gli attentati alla sua vita, ma nessuno riuscì. Ne 
ricordo uno.

In una notte piuttosto buia gli fu teso un tranello. Fu invitato ad uscire 
dalla canonica col falso pretesto di un’Estrema Unzione. Ignaro del pericolo che lo attendeva, si avviò passando per un vicolo stretto tra un alto muro 
e una casa. All’improvviso vide un’ombra scura e minacciosa sul muro. 
Fece un passo indietro e una figura alta, forte, pesante, balzò giù con un 
impeto tale che sbattè la testa con un botto sordo contro la casa. L’attentatore 
cadde svenuto e rimase in coma per alcuni giorni. Il destinatario dell’impatto doveva essere don Guido. 
L’indomani la gente scrutava il Curato incredula e sorpresa chiedendosi quale stella mai lo avesse protetto. Segno che era stata una piccola 
congiura. 
Durante la sua esistenza don Guido subì ventitrè attentati, in ognuno 
dei quali rischiò di perdere la vita. Da questo si può capire quanto grande 
fosse il progetto che Dio aveva su di lui e quanto lo amasse per dargli tanta 
protezione. 


La parrocchia, per quanto turbolenta, era piccola, per cui a don Guido 
restava molto tempo per studiare. Risparmiando in ogni spesa, cominciò 
ad acquistare libri e pubblicazioni che parlavano della comparsa dell’uomo 
sulla Terra e delle scoperte scientifiche riguardo all’evoluzione. Dedicava 
tutto il tempo libero alle sue ricerche. 




1945: la visione della catastrofe del Vajont, 
che avverrà nel 1963

Nel primo anno del suo ministero a Casso egli ebbe un sogno profetico. 
Vide, con 18 anni d’anticipo, l’enorme frana staccarsi dal monte Toc, 
invadere il bacino del lago del Vajont e l’acqua tracimare con forza oltre 
la diga e incanalarsi spaventosamente per la stretta e ripida valle che porta 
a Longarone. Vide la massa d’acqua scendere precipitosamente a zig-zag 
verso il paese e spazzare via case, strade, piazze, chiesa, municipio, cimitero... quindi l’enorme distesa piatta e gialla di limo ricoprire ogni cosa 
appiattendo tutto. Vide i morti e quelli che stavano per morire mentre annaspavano disperatamente fra gli spasimi cercando di salvarsi. Ne riconobbe 
molti, fra i quali anche l’Arciprete di Longarone mons. Bortolo Làrese e il 
suo cappellano e parente don Lorenzo Làrese. 


Sconvolto, cercò di responsabilizzare i paesi interessati inviando ai rispettivi sindaci e parroci lettere circostanziate. Descrisse perfino la linea di 
demarcazione tra le case che sarebbero state travolte e quelle che sarebbero 
rimaste illese. Ma, a quell’epoca, la diga e il lago del Vajont non c’erano ancora e, dunque, non fu preso seriamente. Tutti ne risero, ma molti di costoro 
persero la vita diciott’anni dopo.

Incominciava così per don Guido il calvario di essere considerato un 
personaggio strano.

Don Guido però non rivelò nelle sue lettere e nei suoi appunti la descrizione di una scena che, nella medesima visione, precedeva la catastrofe e che 
mi raccontò a viva voce. 
Vide snodarsi lungo le vie di Longarone una processione formata da alcuni giovinastri che portavano infilati su bastoni i genitali 37
di bovini raccolti al macello comunale intonando frasi blasfeme e irripetibili 
sull’aria delle Litanie Lauretane: “Santa..., ora pro nobis” con evidente atteggiamento di scherno. Dedusse che l’episodio avvenne qualche ora prima 
della caduta della frana dalla luce del tramonto della scena che vide. 
Il fatto che il Signore abbia fatto vedere a don Guido la catastrofe in stretta 
sequenza logica con quella infelice e blasfema processione ci spinge a credere che fra i due eventi ci fosse un nesso per far capire a noi uomini come un 
nostro comportamento irrispettoso possa alienarci la protezione di Dio. 
Dio non castiga: Dio, quando viene respinto, solamente si astiene dalla 
Sua protezione nel rispetto della libertà che ha dato all’uomo. 


Don Guido tuttavia ripeteva: 
“È improprio chiamarlo castigo di Dio perché Dio non è vendicativo. 
Non è Dio che manda i castighi, anche se questo è il termine che usa la 
Bibbia per far intendere che tra due fatti c’è un nesso di causa-effetto. Il 
castigo ce lo diamo noi stessi perché è la naturale conseguenza dell’allontanamento dalla protezione di Dio. Purtroppo in questi casi vengono coinvolti degli innocenti. Ma la colpa non è di Dio. Anzi, stiamone certi, Dio è 
vicino alle vittime innocenti e spiritualmente le sostiene. 


Dio ha a cuore la 
salvezza di tutti, quella eterna. Inoltre, la parte più pesante della sofferenza, specialmente quella degli innocenti, la porta Lui stesso. Certo è che se 
il Signore mal sopporta che Lo si bestemmi, non permette che s’insulti la 
Vergine Immacolata!”. 




Ovviamente il cedimento del Monte Toc era già in corso da mesi. È 
chiaro che non si può attribuire a Dio l’improvviso franamento perché è un 
fatto naturale. 
La protezione di Dio non evita le calamità naturali, ma può evitare che 
si assommino gli errori umani e, in particolare, che le persone arrivino alla 
conclusione della loro vita impreparate.

Al tempo della sciagura del Vajont, avvenuta nella tarda serata del 9 
ottobre del 1963, don Guido da dieci anni era partito da Casso ed erano 
passati diciott’anni dalla visione. Molti avevano dimenticato la sua profezia 
ed erano andati incontro alla morte.





La celebrazione della S. Messa con San Pio da Pietrelcina 




Partito da Casso nel lontano 1953, si ritirò a Farra per due anni accanto 
alla mamma anziana e malata che nel frattempo era rimasta sola perché 
l’altro figlio, Giulio, si era sposato. 


Fu durante questo periodo che si recò a San Giovanni Rotondo per incontrare Padre Pio. 
Al suo arrivo provò dapprima una delusione: il Frate, che ormai da anni 
attirava in quel luogo numerosi pellegrini, lo fece attendere per quattro 
giorni prima di riceverlo.

Quando ormai era deciso a rinunciare all’incontro e a ritornarsene a casa, 
fu avvicinato spontaneamente da Padre Pio che lo invitò per l’indomani a 
celebrare insieme a lui la S. Messa. 
Non fu una concelebrazione come la conosciamo ai giorni nostri per cui 
i Sacerdoti concelebrano sullo stesso altare. Padre Pio invitò don Guido a 
celebrare su di un altare laterale, seguendo però all’unisono gli stessi atti e 
le stesse preghiere. 
Durante la Messa, che durò più di due ore, Padre Pio si rivolse più volte 
a don Guido con tono robusto dicendogli: 
Vada più piano, vada più piano! – 
Non era infatti nello stile di don Guido avere lunghe pause, nonostante 
celebrasse sempre la S. Messa con calma e grande devozione. Tornò a casa 
più sereno. 




I luoghi nei quali sono avvenute le rivelazioni 


Dopo questi due anni di aspettativa, nel 1955 venne mandato Parroco 
a Chies d’Alpago, un altro paesino della provincia di Belluno, in alto e all’estremo limite del bellissimo anfiteatro della Valle d’Alpago ai cui piedi, 
in riva al lago di S. Croce, c’era Farra e a Farra la sua casa paterna dove abitava ancora la sua vecchia madre, sempre più anziana e malata, che morirà 
nel gennaio del 1970. Spesso, nella bella stagione, vi scendeva in bicicletta 
o in corriera. 
Mai ebbe un mezzo di trasporto proprio né una perpetua. 


Ogni suo risparmio era per la chiesa o per i suoi libri di studio. 
Rimase Parroco di Chies d’Alpago per più di vent’anni, fino al 1976. 
Fu durante la sua permanenza a Chies d’Alpago che don Guido ebbe quasi 
tutte le rivelazioni, sia sotto forma di ‘locuzioni interiori’, che di ‘sogni 
profetici’ e di ‘visioni in stato di veglia’. 
Solo la rivelazione del ‘peccato originale’ l’ebbe nella casa paterna a 
Farra d’Alpago.

* Intanto andava nascendo in lui la convinzione di essere indegno agli 
occhi del Signore dal momento che quanto gli era stato predetto in gioventù 
non si era ancora avverato.

Ma i tempi del Signore non sono i nostri... Ed ecco che all’improvviso, 
quando le innumerevoli mortificazioni avevano temprato il suo animo e la 
sua fede, il Signore arrivò al Suo appuntamento.



Tutte le otto rivelazioni avvennero fra il 1968 e il 1974.

Per tutta la vita, prima delle rivelazioni, egli si era tormentato nel tentativo di risolvere razionalmente i quesiti esistenziali dell’uomo, come la 
presenza del dolore che la Bibbia considerava una colpa ereditata dal peccato originale. 
“Ma, com’è possibile ereditare una colpa? – si chiedeva don Guido. – Si 
possono ereditare solo le conseguenze di una colpa. Ma quale poteva essere questa colpa per lasciare delle conseguenze anche fisiche sull’uomo?”


Egli sentiva che c’era, al di là di questi interrogativi, un vuoto di conoscenza perché se Dio è Giustizia, oltre che Misericordia infinita, il principio 
dell’eredità della colpa è inaccettabile. Si diceva convinto che quando l’uomo non capisce l’operato del Signore è perché non conosce completamente 
i fatti che la Provvidenza, per carità, ha celato nel mistero. Don Guido, 
nella sua totale fiducia in Dio, mai aveva dubitato della Sua Misericordia, 
e neppure della Sua Parola depositata nella Bibbia e soleva ripetere le parole di Isaia (55, 10-11): “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e 
non vi ritornano senza aver irrorato la terra, senza averla fecondata e fatta 
germogliare perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà 
della Parola uscita dalla bocca di Dio: non tornerà a Lui senza effetto, senza 
aver operato ciò che Egli desidera e senza avere compiuto ciò per cui l’ha 
mandata”.


                                               ***

Con don Guido si apre un periodo nuovo nel rapporto dell’umanità con 
Dio, nel quale Dio vuole essere anzitutto conosciuto per essere amato in 
modo consapevole non solo col cuore ma anche con un’adesione completa 
della mente.
                                                 *** 
Il Signore rassicura don Guido, preoccupato di non saper essere un testimone fedele: – TI AIUTERÒ A RICORDARE E A CAPIRE. – 
Ciò significa che l’azione dello Spirito Santo non si esaurisce col primo 
tentativo di don Guido di mettere per iscritto quanto ha appreso. 


Non è una semplice trascrizione che Dio vuole, ma uno sforzo a ragionare e a ricollegare con la logica quanto sta imparando sotto la Sua paterna 
guida. Infatti, certe comprensioni sono avvenute per gradi e alcune solo 
quando il Signore gli fa rivivere questo o quell’episodio, la prima volta 
incompreso, commentandolo.

Don Guido fa una prima ed una seconda relazione al suo Vescovo, ma 
senza alcun esito. 


Fra il 1976 e il 1977, don Guido viene mandato per diversi mesi a Pieve 
di Cadore. È un periodo grigio perché nessuno dei suoi confratelli, neanche 
l’Arciprete di Pieve, è disposto ad ascoltarlo. 


Nel 1977 viene inviato Parroco a Vìnigo, un paesino della valle del 
Boite che scende da Cortina, situato su una balza lungo le pendici d’un’ampia conca verde. 
È la sua fortuna: una premura della Provvidenza!

Questo villaggio di poche ‘anime’ non richiede un grande lavoro, per cui 
gli rimane molto tempo per la preghiera e per gli studi. La canonica è una 
grande e solida casa, ben esposta al sole, che domina dall’alto un panorama 
splendido. 
Questo è il momento più importante delle sue riflessioni. 
Può finalmente dedicarsi al riordino dei suoi scritti e alla stesura definitiva del suo manoscritto. 
I profondi concetti vengono maturati sotto la guida costante della 
Sapienza.

È un decennio relativamente sereno e grandemente fruttuoso. 


L’incontro con il Patriarca Albino luciani, 
il futuro Papa Giovanni Paolo I


Don Guido aveva capito che il riconoscimento delle rivelazioni, seguendo la via gerarchica, gli era precluso. 
Nel frattempo mons. Albino Luciani, suo ex-compagno di Seminario e 
già Vescovo di Vittorio Veneto, era stato nominato Patriarca di Venezia, per 
cui era diventato suo Superiore e Superiore anche del suo Vescovo.

Veramente affranto per tanta chiusura e dopo tante esitazioni per rispetto 
al suo Vescovo, don Guido decise di scrivere al Patriarca che, come sappiamo, aveva condiviso con lui le predizioni, fatte ad entrambi da Padre 
Matteo Crawley nel lontano 1928, in cui al giovane Albino era stato predetto che “sarebbe salito ai più alti gradi della gerarchia ecclesiastica” e 
al chierico Guido che “da anziano il Signore gli avrebbe rivelato i passi 
oscuri della Genesi Biblica”. Così don Guido gli raccontò, con una breve 
relazione, le rivelazioni avute dal Signore. 
Gli spiegò tra l’altro che “Dio fu Padre e Madre per il primo Uomo” 
non solo spiritualmente ma anche fisicamente, perché creò nel seno di una 
femmina preumana sia il gamete maschile, e così Dio gli fu Padre, sia il 
gamete femminile, e così Dio gli fu Madre, formando la cellula germinativa del primo Uomo; mentre, per la creazione della prima Donna, Dio le fu 
solo Madre, poiché le fu padre l’Uomo stesso generando, ‘in similitudine 
naturae’, nel sonno, come dice la Bibbia. 


Il particolare legame che univa don Guido al Patriarca, poiché per entrambi quelle predizioni si erano realizzate, gli dava la certezza di essere 
creduto. 
Il Patriarca infatti gli rispose affettuosamente. Tuttavia lo invitò al riserbo poiché, fin tanto che tali rivelazioni non fossero state approvate dalle 
competenti autorità ecclesiastiche, ossia dal suo Vescovo, esse mantenevano il carattere di rivelazioni private. 




Intanto il Patriarca Luciani 


cominciò a dire pubblicamente che “Dio per l’uomo è Padre e Madre”.

Questo intervento poteva essere interpretato come un benevolo e intelligente incoraggiamento al Vescovo di Belluno. Il Patriarca Luciani era infatti molto rispettoso dei ruoli altrui. Ciò nonostante, il Vescovo rimase sulle 
sue posizioni.

Passò ancora qualche tempo finché don Guido s’incontrò con il Patriarca 
Luciani a Vittorio Veneto dove questi era venuto a guidare un ritiro spirituale di un solo giorno invitato dalla sua affezionata vecchia Diocesi. Alla fine 
del ritiro, il Patriarca lo avvicinò e lo pregò di trattenersi per parlargli. Ma 
l’ora era tarda e don Guido, preoccupato di non perdere il treno utile per la 
coincidenza con l’ultima corriera, gli rispose che sarebbe tornato presto per 
poter parlare con più calma e corse via.

Intanto il Patriarca fu eletto Papa e non ebbe più l’occasione di rincontrare don Guido. Tuttavia nel suo discorso introduttivo al Soglio Pontificio 
non esitò a ripetere che “Dio è, per l’uomo, Padre e Madre”, affermazione 
che diede a molti motivo di riflessione.

Probabilmente il compito di Papa Giovanni Paolo I nei confronti di don 
Guido e delle rivelazioni da lui ricevute era solo quello di avergli creduto e di testimoniare che le predizioni fatte da Padre Matteo Crawley nel 
Seminario di Belluno in quel lontano 1928 si erano avverate per entrambi e 
di accreditarlo come profeta.

Gli anni della vecchiaia



Il dolore per la scomparsa di Papa Luciani, che aveva dimostrato amicizia e apertura verso di lui, fu per don Guido un’ulteriore prova dolorosa. La 
solitudine spirituale gli diventava sempre più pesante. 


Nell’inverno del 1985, durante le festività dei Santi, a Vìnigo scivolò sul 
ghiaccio e, per non cadere, si afferrò ad una palizzata. 
Lo strattone fu forte e si lussò la spalla destra. Fu una grossa pena morale e fisica il non poter più usare la mano per scrivere con disinvoltura.

Dopo un paio di mesi trascorsi all’ospedale di Cortina, si trasferì a 
Belluno in una piccola e modesta mansarda prestatagli dai padri del P.I.M.E. 
(Pontificio Istituto Missioni Estere) a poca distanza dalla Casa del Clero. 
La sua vecchia casa di Farra, priva di impianto di riscaldamento, non era 
idonea ad ospitare un anziano solo.

Fu nella cappella della Casa del Clero che ebbi l’occasione di conoscerlo.
Nel gennaio del 1987, don Guido trovò alloggio nella Casa di Riposo di 
Meano, una frazione di S. Giustina a pochi chilometri da Belluno. 


Don Guido, sebbene già ultraottantenne, manteneva tutta la sua vivacità 
fisica e intellettuale. Il Signore gli aveva promesso una mente limpida, buona vista e buon udito per tutta la vita e così fu. Quegli occhi, che si erano 
tanto affaticati sui libri, con un paio di occhiali gli consentirono di leggere 
fino alla fine. Anche il suo udito rimase perfetto.

Il suo pensiero era sempre rivolto a come poter ottenere il PLACET della 
Santa Sede. Don Calabria aveva predetto tanti anni prima che il messaggio 
era “urgente” e don Guido si sentiva responsabile di tanto ritardo. Poiché la 
via gerarchica fino a quel momento si era dimostrata impercorribile, andava progettando d’informare direttamente il Cardinale Ratzinger. 
Sfiduciato, 
finì poi per desistere pensando che la S. Sede, senza un parere favorevole 
del Vescovo competente, non l’avrebbe nemmeno preso in considerazione.

Accanto all’intima gioia di esser stato fatto partecipe della conoscenza 
di quelli che erano stati i misteri della Genesi e del più ampio e profondo 
valore della Redenzione, don Guido sperimentava la Passione intima di 
Gesù. 


Nella sua vita si ripetevano inimmaginabili umiliazioni. La sufficienza che molti suoi confratelli non si curavano di nascondere gli diventava 
sempre più pesante. Il marchio di una fama di ‘visionario’ era il suo pane 
quotidiano.

Tuttavia don Guido non perse mai la fiducia nella Provvidenza. Continuava 
a coltivare una profonda serenità d’animo per la certezza che il Signore 
avrebbe portato a compimento il Suo progetto. Appena poteva raccogliersi in 
preghiera o sui suoi libri esprimeva gioia dagli occhi. Aveva l’entusiasmo di 
un giovane, certo che in un modo o in un altro tutti avrebbero conosciuto la 
verità e avrebbero così compreso la grande Misericordia di Dio.



Le rivelazioni non andarono perdute 
con la sua morte



Un giorno, sentendo che le forze gli andavano calando e che non gli 
restava ormai molto tempo da vivere, don Guido mi disse: 
– Desidero lasciare a lei l’eredità materiale dei miei scritti e di quel 
che rimane della mia biblioteca di Farra. Metta il manoscritto e tutti i miei 
quaderni al sicuro perché, se dovessi mancare, tutte le mie cose verrebbero 
gettate da chi non ne capisce il valore. – 
– Si, ...ma ci sono molti Sacerdoti più vicini a lei di me. – 
– È vero, ma qui sono tutti prevenuti e, fra quelli che hanno accolto 
queste rivelazioni, nessuno ha mostrato un interesse autentico. Io desidero 
che ottengano l’approvazione del Vescovo di questa Diocesi, perciò non 
desidero che escano da questa Chiesa diocesana che il Signore ha scelto 
per questa rivelazione. – Poi, dopo una breve pausa, soggiunse: 
– Desidero anche che lei porti avanti il mio lavoro, riordinandolo e 
togliendovi tutte le ripetizioni. – 


– Ma don Guido, lei sa bene che non sono all’altezza! – 
– Dio non cerca le persone più colte o più intelligenti: Dio cerca le 
persone che sono sinceramente motivate a fare la Sua volontà. La conosco 
ormai da tanto tempo, abbiamo parlato tanto insieme e lei è la persona di 
cui ho più fiducia. – 


– La ringrazio della sua stima, ma una cosa è parlare di queste cose, 
un’altra cosa è riordinare i suoi scritti. Questo presume una certa discrezionalità e per togliere le ripetizioni, come lei vuole, bisogna fare delle scelte. 
Lei capisce che questo lavoro richiede troppa responsabilità. – 


– Lei lavori con serenità e proceda come meglio crede: io le sarò sempre 
vicino e l’aiuterò. – Poi, per mettermi in guardia da inevitabili tentazioni di 
autocompiacimento, dopo un’altra breve pausa aggiunse: 
– Non creda però che questo compito sia privo di croci. Da un lato c’è 
la gioia perché Dio ci ha fatto partecipi dei suoi progetti; dall’altro deve 
avere fin da ora la consapevolezza che lei erediterà le mie sofferenze, le 
incomprensioni degli amici più cari, le delusioni e perfino le derisioni, le 
ostilità, o la noncuranza dei Superiori. Sono umiliazioni pungentissime, ma 
diventano superabili solo se lei non si aspetta gratificazioni, salvo quella 
d’aver fatto il possibile per amore della Verità e per amore di Dio. Se la 
sente?– 
– Se è così, allora va bene – risposi.

Con estrema commozione di entrambi, mi fece inginocchiare ai suoi 
piedi e, posandomi le mani sulla testa, formulò una lunghissima preghiera 
in latino invocando su di me lo Spirito Santo, preghiera di cui io capii il 
senso solo a grandi linee. Mi stava dando, assieme alla sua benedizione, 
un vero e proprio mandato, come un’investitura, a riordinare quanto aveva 
scritto nei suoi appunti e nei suoi Quaderni. Sentii quella preghiera come un 
segno di fiducia, ma provai anche in quell’istante tutto il peso dell’enorme 
responsabilità che comportava. 


Vedendomi emozionata, don Guido non esitò ad incoraggiarmi con 
amore paterno e continuò:

– Quando avrà finito questo lavoro vada dal Vicario generale. È mio 
amico. Mi ha aiutato lui a stendere il mio testamento. Ho lasciato alla 
Curia tutti i miei risparmi e le disposizioni per la pubblicazione di questo 
manoscritto. Li ho messi da parte in tanti anni di economie per questo scopo. E adesso cominci a portar via queste cose e a prenderne conoscenza. Ci 
sono in mezzo tante carte da buttar via. Faccia uno spoglio a casa sua. Qui 
non c’è lo spazio. E si ricordi che proverà tanta solitudine, perché nessuno 
che si accinga a lavorare per il Signore ne è risparmiato. – 




La malattia e la morte 




Verso la fine degli anni ’80 don Guido cominciava a manifestare un 
progressivo decadimento fisico. Erano i primi sintomi di un tumore che si 
sarebbe manifestato apertamente due anni più tardi. 
Il male apparve improvvisamente e in tutta la sua gravità ai primi di 
luglio del 1991 quando il chirurgo diagnosticò un tumore intestinale. Fu 
operato dopo una settimana e di lì a pochi giorni dovette esser rioperato. I 
dolori erano molto forti. 
Quando si fu sufficientemente ripreso, fu riportato alla Casa di Riposo 
di Meano. Poi il suo declino fu rapido, ma la sua mente rimase vigile fino 
alla fine. 


Un giorno, mentre giocherellava con una specie di piaga secca sul dorso 
della mano che sembrava un grosso neo grigiastro a forma di pisello, mi 
disse: 


Vede, questo è un ricordo di quella notte in cui ebbi la visione della 
creazione dell’universo. È stata una scintilla uscita dal quadro visivo a 
lasciarmi quest’ustione. Non fa male, ed è lì solo per rinnovarmi il ricordo. 
Il Signore volle lasciarmi un segno perché, al mattino, non dubitassi pensando che quanto avevo visto fosse frutto della mia immaginazione. – 




Poco prima di morire, dopo quasi vent’anni, questa crosta grigia se ne 
andò del tutto lasciando solo un tenue rossore. 


L’8 ottobre, il giorno dopo il suo 84° compleanno, Maria, la Mamma che 
lo aveva condotto nel ‘viaggio più lungo a ritroso nello spazio e nel tempo’, 
come lui lo chiamava, lo volle con Sé. Erano le sette di sera. 
Eravamo presenti il Vicario generale mons. Pietro Bez, la Madre Superiora della Casa 
di Riposo ed io. 


L’indomani la salma, dal volto sereno e disteso, era composta nella bara. 
Vestito di bianco, nei suoi paramenti sacerdotali, aveva l’austerità di un 
patriarca, un aspetto regale pur nella semplicità. Gli anziani della Casa di 
riposo vennero alla spicciolata a dargli l’ultimo saluto. Tutti erano stati confortati dalle sue buone parole. 


La Santa Messa funebre fu accompagnata da bellissimi canti di voci 
bianche. La sua bara, per un disguido dei necrofori che stranamente all’occorrenza erano spariti, fu portata fuori dalla Chiesa a spalla dai Sacerdoti 
più giovani, in camice bianco, quasi che il Signore avesse voluto riservargli 
quell’onore che molti confratelli non gli avevano riconosciuto.

Sul marmo veronese della sua semplice tomba si leggono queste belle e 
assai appropriate parole: 


“CANTERÒ IN ETERNO
LE TUE LODI, O DIO,
SIGNORE DELL’ UNIVERSO”.






Alcune date Biografiche:


1907  (7 ottobre) La nascita
(festa della Madonna del Rosario)
1907-1920  L’infanzia e l’adolescenza
1917 (13 ottobre) Ha la visione dell’apparizione della Madonna  
ai pastorelli di Fatima e del miracolo del sole
1920-1932  I suoi studi in Seminario
1922  Prima predizione, di don Calabria, che preannunzia questa  
rivelazione
1928 Seconda predizione, di Padre Crawley
1932 Terza predizione, di mons. Masi 
1932-1934  Cappellano a Fusine (BL)
1934-1945  Parroco a Dont (BL)
1944 Probabile data della quarta predizione, di Teresa Neumann 
1945-1953 Curato a Casso (BL) 
1945  Ha la visione della catastrofe del Vajont che si verificherà  
nel 1963
1953-1955 Periodo di aspettativa a Farra d’Alpago nella casa paterna
1955 Incontro con Padre Pio
1955-1976 Parroco a Chies d’Alpago (BL)


1968 I rivelazione: ‘Il segno di Caino’ (ricevuta nella canonica  
di Chies d’Alpago)
1970  II rivelazione: ‘Il peccato originale’  (ricevuta nella sua  
casa di Farra d’Alpago)  
Vita di don guido Bertoluzzi50 Genesi Biblica
1970 III rivelazione: ‘La morte di Abele’
(ricevuta nella canonica di Chies d’Alpago) 
1970 IV rivelazione: ‘Sono uomini’
(ricevuta nella canonica di Chies d’Alpago) 
1972 V rivelazione: ‘La creazione dall’Alfa all’Omega’
(ricevuta nella canonica di Chies d’Alpago) 
     I parte: ‘Il Capostipite’
    II parte: ‘La creazione del cosmo’ 
    III parte: ‘La nascita della Prima Donna: l’Omega’ 
1974 VI rivelazione: ‘L’ultimo pasto di Abele’
(ricevuta nella canonica di Chies d’Alpago) 
1974 VII rivelazione: ‘La sera del dì della morte di Abele’
(ricevuta nella canonica di Chies d’Alpago) 
1974 VIII rivelazione: ‘L’ultimo colloquio’ con il Signore
(ricevuta nella canonica di Chies d’Alpago)


1976-1977 Cappellano a Pieve di Cadore: la sua solitudine
1977-1986 Parroco a Vìnigo: dove approfondisce lo studio della genetica e della geofisica. Incontro con il Patriarca di Venezia 
Albino Luciani, futuro Papa Giovanni Paolo I 

1986-1987 In pensione a Belluno
1987-1991 In Casa di Riposo a Meano, nel comune di S. Giustina (BL)
1991 (8 ottobre) La morte 


Da: genesibiblica.eu
AMDG et BVM