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martedì 17 maggio 2022

«CADDE EBREO SI RIALZÒ CRISTIANO»

ALFONSO RATISBONNE

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Alfonso Ratisbonne, nato a Strasburgo nel 1814 da una famiglia di ricchi banchieri ebrei (il padre era presidente del Concistoro ebraico di Strasburgo), era cresciuto in un clima di odio anticristiano, acuito dalla conversione al cattolicesimo del fratello maggiore Teodoro (6). Fidanzato con una cugina, per migliorare il suo malfermo stato di salute aveva deciso di intraprendere un lungo viaggio che dalla Francia, attraverso la Costa Azzurra, l’Italia, Malta, l’Egeo, avrebbe dovuto condurlo a Costantinopoli. Capitò a Roma, per un breve soggiorno fuori programma, il giorno dell’Epifania del 1842. Tra le persone che vi incontrò fu un amico d’infanzia, il barone Gustavo de Buissières, protestante pietista. Il fratello di questi, Teodoro, nel corso di un’animata discussione religiosa, sfidò Ratisbonne a portare una medaglia con l’effigie dell’Immacolata, come era apparsa quattro anni prima a santa Caterina Labouré, e a recitare, o almeno a trascrivere il «Memorare, piissima Virgo Maria… », l’antica preghiera mariana tradizionalmente attribuita a san Bernardo. Ratisbonne, per mostrare la sua superiorità sulle «superstizioni» cattoliche, accettò ridendo la sfida. «Ora eccomi cattolico, apostolico, romano», commentò sarcasticamente, mentre cingeva al collo la medaglietta. Nei giorni successivi, mentre l’ebreo alsaziano continuava la sua vita di scettico gaudente, il Buissières si diede a pregare intensamente per la sua conversione, raccomandandolo inoltre alle orazioni di alcuni amici. Tra questi era il conte Augusto de La Ferronays, già ministro di Carlo X, che morì però improvvisamente il 17 gennaio. Un imprevisto aveva intanto costretto il Ratisbonne a rinviare la sua partenza da Roma. Si giunse così al 20 gennaio 1842, una giornata di cui vale la pena seguire la descrizione lasciataci dallo stesso Ratisbonne (7).

IL 20 GENNAIO 1842

«Il giovedì 20 gennaio, dopo aver fatto colazione all’albergo e aver imbucato le mie lettere alla posta, mi recai a casa del mio amico Gustavo, il pietista, che era tornato dalla caccia, escursione che lo aveva tenuto lontano per alcuni giorni.

«Si stupiva molto di ritrovarmi a Roma. Gliene spiegai il motivo: avevo voglia di vedere il papa. “Ma andrò via senza vederlo, – gli dissi, – giacché non ha assistito alle cerimonie della Cattedra di San Pietro, dove mi avevano fatto sperare che ci sarebbe stato”.

«Gustavo mi consolò ironicamente, parlandomi di un’altra cerimonia davvero curiosa che doveva svolgersi, credo, a Santa Maria Maggiore. Si trattava della benedizione degli animali. E su tutto questo, gara di freddure e lazzi del tipo che si può immaginare tra un ebreo e un protestante.

«Parlammo di caccia, di piaceri, dei divertimenti del carnevale, della brillante serata che il duca Torlonia aveva dato il giorno prima. Né ci si poteva dimenticare delle feste del mio matrimonio: invitai de Lotzbeck, che mi promise di partecipare.

«Se in quell’istante (era mezzogiorno) un terzo interlocutore mi si fosse avvicinato, e mi avesse detto: “Alfonso, fra un quarto d’ora adorerai Gesù Cristo, tuo Dio tuo Salvatore, sarai prosternato in una povera chiesa, ti batterai il petto dinanzi a un sacerdote, in un convento di Gesuiti dove trascorrerai il carnevale per prepararti al battesimo, pronto ad immolarti per la fede cattolica; e rinuncerai al mondo, alle sue pompe, ai suoi piaceri, alla tua fortuna, alle tue speranze, al tuo avvenire; e, se sarà necessario, rinuncerai anche alla tua fidanzata, all’affetto della tua famiglia, alla stima dei tuoi amici, all’attaccamento degli ebrei … e non aspirerai più che a seguire Gesù Cristo e a portare la sua croce fino alla morte!…”. Dico che se qualche profeta mi avesse fatto una predizione simile, avrei giudicato solo un uomo più insensato di lui: l’uomo che avesse creduto possibile una simile follia! Eppure, èproprio questa follia che costituisce oggi la mia sapienza e la mia felicità.

«Uscendo dal caffè, mi imbatto nella carrozza di Teodoro de Buissières. Si ferma, e sono invitato a salire per un tratto di passeggiata. Il tempo era splendido, e accettai con piacere. Ma de Buissières mi chiese la cortesia di fermarsi pochi minuti alla chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, che si trovava quasi di fianco a noi, per un affare che doveva sbrigare; mi suggerì di aspettarlo in carrozza; io preferii scendere, per vedere la chiesa. Vi si facevano dei preparativi per un funerale e mi informai del defunto che doveva ricevere le estreme onoranze. De Buissières mi rispose: È un mio amico, il conte de La Ferronays; la sua morte improvvisa – aggiunse – è la causa di quella tristezza che avrete notata in me da due giorni”.

«Non conoscevo de La Ferronays; non lo avevo mai visto, e non provavo altra impressione che quella d’una pena alquanto vaga che sempre si prova alla notizia d’una morte improvvisa. De Buissières mi lasciò per andare a prenotare una tribuna destinata alla famiglia del defunto. “Non vi impazientite, – mi disse entrando nel chiostro, – sarà questione di due minuti …”.

«CADDE EBREO SI RIALZÒ CRISTIANO»

«La chiesa di Sant’Andrea è piccola, povera e deserta; … credo di essere stato quasi solo; … nessuna opera d’arte attirava la mia attenzione. Camminavo, meccanicamente, con lo sguardo in giro, senza soffermarmi su nessun pensiero; mi ricordo soltanto di un cane nero che saltellava e balzava dinanzi a me… Non appena scomparso il cane, la chiesa intera disparve, non vidi più nulla … o piuttosto, Dio mio, vidi una sola cosa!

«Come potrei parlarne? Oh! no, la parola umana non deve tentare d’esprimere l’inesprimibile; ogni descrizione, per quanto sublime possa essere, non sarebbe che una profanazione dell’ineffabile verità. Ero là, prosternato, bagnato nelle mie lacrime, col cuore fuori di me stesso, quando de Buissières mi richiamò alla vita.

«Non potevo rispondere alle sue domande precipitose; ma presi la medaglia che avevo al petto e baciai con effusione l’immagine della Vergine, raggiante di grazia … Oh!, era davvero Lei!

«Non sapevo dove mi trovavo; non sapevo se ero Alfonso o un altro; sentivo un così totale mutamento, che mi credevo un altro me stesso … Tentavo di ritrovarmi e non mi ritrovavo … La gioia più ardente si sprigionava dal fondo della mia anima; non potei parlare; non volli rivelare nulla; sentivo in me qualcosa di solenne e di sacro che mi fece chiamare un sacerdote … Vi fui condotto, e solo dopo avuto l’ordine positivo ne parlai, per quanto mi era possibile, in ginocchio e col cuore tremante.

«Le mie prime parole furono di riconoscenza per de La Ferronays e per l’Arciconfraternita della Madonna delle Vittorie. Sapevo con certezza che de La Ferronays aveva pregato per me; ma non saprei dire come lo seppi, così come non potrei fare un resoconto delle verità di cui avevo acquisito la fede e la conoscenza. Tutto ciò che posso dire è che al momento del fatto la benda mi cadde dagli occhi; non una sola, ma tutta la moltitudine di bende che mi avevano avvolto, scomparvero una dopo l’altra rapidamente, come la neve e il fango e il ghiaccio sotto l’azione di un sole cocente.

«Uscivo da una tomba, da un abisso di tenebre, ed ero vivo, perfettamente vivo … Ma piangevo! Vedevo nel fondo dell’abisso le miserie estreme dalle quali ero stato strappato da una misericordia infinita; rabbrividivo alla vista di tutte le mie iniquità, ed ero stupito, intenerito, sprofondato in ammirazione e riconoscenza … Pensavo a mio fratello con una indicibile gioia; ma alle lacrime d’amore si univano lacrime di compassione. Oh! quanti discendono tranquillamente in questo abisso con gli occhi chiusi dall’orgoglio o dalla spensieratezza! Vi discendono, s’inabissano vivi nelle orribili tenebre! E la mia famiglia, la mia fidanzata, le mie povere sorelle! Oh! straziante ansietà! Penso a voi, voi che io amo! A voi dono le prime preghiere … Non alzerete voi gli occhi verso il Salvatore del mondo, il cui sangue ha cancellato il peccato originale? Oh, che l’impronta di questa macchia è orribile! Rende completamente irriconoscibile la creatura fatta a immagine di Dio.

«Mi si domanda come appresi queste verità, poiché è accertato che non ho mai aperto un libro di religione, non ho mai letto una pagina della Bibbia, e che il dogma del peccato originale, totalmente dimenticato o negato dagli Ebrei dei nostri giorni, non aveva mai occupato un istante il mio pensiero; dubito anche di averne sentito il nome. Come sono arrivato dunque a questa conoscenza? Non saprei dirlo.

«Tutto ciò che so, è che entrando in chiesa ignoravo tutto; uscendone, vedevo chiaro. Non posso spiegare questo cambiamento che con l’immagine di un uomo il quale si risvegliasse da un sonno profondo, o con quella di un cieco nato che vedesse la luce tutto d’un colpo; vede, ma non può definire la luce che lo illumina e nella quale contempla gli oggetti della sua ammirazione».

L’APOSTOLATO TRA GLI EBREI

Avuta notizia del miracolo, Papa Gregorio XVI ordinò al suo cardinale vicario Costantino Patrizi di istruire immediatamente un processo canonico. Questo si svolse in 17 sessioni, dal 17 febbraio al 1º aprile dello stesso anno 1842, con la severa procedura propria dei tribunali ecclesiastici. Al termine deliberò «che constava pienamente la verità dell’insigne miracolo operato da D.O.M. per intercessione della B. Maria Vergine, cioè l’istantanea e perfetta conversione di Alfonso Maria Ratisbonne dall’Ebraismo».

Lo stesso cardinale Patrizi aveva solennemente battezzato Ratisbonne, col nuovo nome di Alfonso Maria, il 31 gennaio 1842 nella chiesa del Gesù. Sacerdote nel 1847, Ratisbonne appartenne per qualche tempo alla Compagnia di Gesù che lasciò, con il permesso di Pio IX, per entrare nella Congregazione delle Figlie e dei Missionari di Nostra Signora di Sion fondata dal fratello. Come il fratello Teodoro, anche Alfonso Maria Ratisbonne volle infatti dedicare la propria vita all’apostolato tra gli ebrei. Nel 1855 partì per Gerusalemme, dove riuscì ad acquistare le rovine del Pretorio di Pilato, su cui fondò il Santuario dell’«Ecce Homo». A Gerusalemme rimase fino alla morte, il 6 maggio del 1884 (8).

La notizia del miracolo si sparse intanto rapidamente in tutta la Cristianità. Essa infiammò la pietà popolare nei confronti della Medaglia miracolosa di Rue du Bac e contribuì ad affrettare la proclamazione del dogma dell’Immacolata.

Tra i santi e i servi di Dio che pregarono nella cappella dell’apparizione, basti ricordare i nomi di san Giovanni Bosco, santa Teresa di Lisieux, il beato Massimiliano Kolbe. Fu il 20 gennaio 1917, 75esimo anniversario dell’apparizione, che quest’ultimo, nell’ascoltare la rievocazione della conversione di Ratisbonne, concepì l’istituzione della sua Milizia dell’Immacolata, col fine di «cercare la conversione dei peccatori, eretici, scismatici, giudei. ecc. e specialmente dei massoni; e la santificazione di tutti sotto il patrocinio ex e mediante la B.V.M. Immacolata» (9).

VERSO IL REGNO DI MARIA

A Rue du Bac, a La Salette, a Lourdes, a Fátima, la Madonna scelse anime innocenti per trasmettere i suoi messaggi al mondo. A Roma la Madonna apparve a un peccatore, a un cuore indurito dall’orgoglio, a un nemico della Chiesa. Ebreo di origine, rivoluzionario di mentalità, Ratisbonne sembra prefigurare il mondo moderno, incredulo, duro di cuore, ostinato nei suoi errori. Eppure basta l’apparizione della Madonna, un suo gesto, perché Ratisbonne cada in ginocchio e comprenda istantaneamente, secondo quanto egli stesso dichiarò, nella sua esposizione al processo canonico, «l’orrore del suo stato, la deformità del peccato, la bellezza della Religione Cattolica». La sua conversione è perfetta e istantanea come quella di san Paolo: le tenebre dell’incredulità e del giudaismo sono improvvisamente squarciate, dal fulgore della verità. La Madonna «viva, grande, maestosa, bellissima, misericordiosa» manifesta i suoi attributi tradizionali di Regina e di Madre: la potenza e la misericordia. Ma la Madonna esige, per intervenire, la collaborazione degli uomini: la Medaglia miracolosa, il Memorare, le preghiere insistenti del barone de Buissières e del conte de La Ferronays, forse per un impercettibile gesto di buona volontà da parte di Ratisbonne, sono gli elementi da non trascurare nel grande quadro di questa conversione.

Nulla è impossibile alla Madonna, regale dispensatrice di grazie, quando essa è pregata da cuori ardenti e devoti. «Quando gli uomini decidono di collaborare con la grazia di Dio, allora nella storia accadono cose meravigliose: la conversione dell’Impero romano, la formazione del Medio evo, la riconquista della Spagna a partire da Covadonga, sono tutti avvenimenti di questo tipo, che accadono come frutto delle grandi resurrezioni dell’anima, di cui anche i popoli sono suscettibili» (10).

Di fronte al flagello del comunismo ateo che minaccia oggi l’umanità, preghiamo dunque la Madonna perché voglia manifestare ancora una volta la sua potenza e la sua misericordia: allo stesso modo in cui convertì l’ebreo Ratisbonne e regnò nel suo cuore, conceda ai nostri giorni la conversione del mondo, l’instaurazione del Suo regno, il trionfo della Chiesa sulla Rivoluzione.

ROBERTO DE MATTEI


Note:  ...

(6) Théodore-Marie Ratisbonne (Strasburgo 1802-Parigi 1884) era stato battezzato nel 1827 e collaborava con mons. Dufriche-Desgenettes presso la chiesa parigina di Nostra Signora delle Vittorie, uno dei più vivi centri spirituali di Parigi.

(7) Si tratta di una lettera che Alfonso Ratisbonne scrisse dal collegio di Juilly, il 20 gennaio 1842, a mons. Dufriche-Desgenettes. Abbiamo parzialmente attinto, integrandole, alla traduzione italiana riportata nell’opuscolo La Madonna del miracolo, a cura della Postulazione Generale dei Minimi, Roma 1971 e al testo riportato in JEAN GUITTON, La Vergine a Rue du Bac, trad. it., Edizioni Paoline, Roma 1977.

Charles-Eléonore Dufriche-Desgenettes (Almson 1778-Parigi 1860), fondatore dell’Arciconfraternita di Nostra Signora delle Vittorie, aveva fatto della sua chiesa il centro propulsore della diffusione della Medaglia miracolosa. Nel 1825 era stato tra coloro che più si erano battuti per la consacrazione a Reims di Carlo X (cfr. MARC BLOCH, I re taumaturghi, tr. it., Einaudi 1973, p. 313).

(8) «Si inginocchiò su quelle rovine e pregò; gli pareva di udire ancora l’eco di quella condanna, e del grido esecrando dei padri suoi: “Crucifige Eum!”. “Non ho mai dimenticato – diceva – ciò che provai davanti alle rovine del tribunale di Ponzio Pilato”. Colà era risuonato il grido: “Il Sangue di Lui cada su di noi e sui nostri figli”. “Cada, sì, – pensava Alfonso – ma cada non in maledizione, bensì in rigenerazione, come era caduto su di lui il 20 gennaio in S. Andrea delle Fratte». Cfr. p. ANTONIO BELLANTONIO, op. cit., p. 153.

(9) Fu all’altare dell’apparizione che il 29 aprile 1918 Massimiliano Kolbe volle celebrare la sua prima messa. Padre Ricciardi ha trascritto, nella traduzione italiana, questo particolare, dal registro personale delle intenzioni: «Altare del miracolo, Chiesa di Sant’Andrea delle Fratte: per la conversione di p. Petkow [Gran Maestro della Massoneria polacca], degli scismatici, degli acattolici, dei massoni ecc. » Cfr. p. ANTONIO RICCIARDI, Beato Massimiliano Maria Kolbe OFM, Edizioni agiografiche, a cura della Postulazione generale dell’Ordine dei Frati Minori conventuali, Roma 1971, p. 57.

(10) PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3ª ed. it., Cristianità, Piacenza 1977, p. 152. 

venerdì 10 maggio 2019

Julien Green

Per spiegare ai preti la vocazione, Ratzinger parlava loro della conversione di Julien Green 

L’Osservatore Romano pubblica una giovanile riflessione del papa Benedetto XVI. «Andai a casa: non ero un altro, no, ero finalmente ridiventato me stesso»

Oggi sull’Osservatore Romano è stato pubblicato un articolo a firma Joseph Ratzinger e intitolato “E Julien Green ridiventò se stesso”. Il testo è tratto dal XII volume dell’opera omnia del papa emerito, in libreria in questi giorni con il titolo Annunciatori della Parola e Servitori della vostra gioia. teologia e spiritualità del Sacramento dell’Ordine (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2013, pagine 982, euro 55). L’opera, curata dall’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, raccoglie studi scientifici, meditazioni e omelie – dal 1954 al 2002 – sul servizio episcopale, sacerdotale e diaconale. L’Osservatore Romano ha anticipato i brani di due omelie: una tenuta nel 1978 nella celebrazione per il settantesimo compleanno del vescovo Ernst Tewes, e l’altra pronunciata nel 1955 in occasione della prima messa di un sacerdote suo amico.
Julien Green (1900 – 1998), scrittore e drammaturgo statunitense omosessuale, si convertì dal protestantesimo al cattolicesimo nel 1916.
Casualmente in questi giorni ho letto il racconto che il grande scrittore francese Julien Green fa della sua conversione. Scrive che nel periodo tra le due guerre egli viveva proprio come vive un uomo di oggi: si permetteva tutto quello che voleva, era incatenato ai piaceri contrari a Dio così che, da un lato, ne aveva bisogno per rendersi la vita sopportabile, ma, dall’altro, trovava insopportabile proprio quella stessa vita. Cerca vie d’uscita, allaccia rapporti. Va dal grande teologo Henri Bremond, ma la conversazione resta sul piano accademico, sottigliezze teoriche che non lo aiutano.
Instaura un rapporto con i due grandi filosofi, i coniugi Jacques e Raîssa Maritain. Raîssa Maritain gli indica un domenicano polacco. Lui lo incontra e gli descrive ancora questa sua vita lacerata. Il sacerdote gli dice: «E Lei, è d’accordo a vivere così?». «No, naturalmente no!», risponde. «Dunque vuole vivere in modo diverso; è pentito?». «Sì!» fa Green. E poi accade qualcosa di inaspettato. Il sacerdote gli dice: «Si inginocchi! Ego te absolvo a peccatis tuis — ti assolvo». Scrive Julien Green: «Allora mi accorsi che in fondo avevo sempre atteso questo momento, avevo sempre atteso qualcuno che mi dicesse: inginocchiati, ti assolvo. Andai a casa: non ero un altro, no, ero finalmente ridiventato me stesso».
Se siamo onesti, se riflettiamo su questa vicenda in profondità, vediamo che in ultima analisi questa attesa è in ognuno di noi, che il nostro intimo grida che vi sia qualcuno che dica: «Inginocchiati! Ego te absolvo!».
Un famoso teologo protestante qualche tempo fa ha detto: oggi bisognerebbe raccontare la parabola del figliol prodigo in modo nuovo, come parabola del padre perduto. E in effetti, lo smarrimento di questo figlio consiste proprio nel fatto che ha smarrito il padre, che non lo vuole più vedere. Ma questo figliol prodigo siamo noi. La sua difficoltà è la difficoltà del nostro tempo che si vanta di essere una società senza padre. Seguendo Freud, abbiamo creduto che il padre fosse l’incubo del “Super Io”, colui che limita la nostra libertà, e che ce ne dobbiamo liberare. E ora che questo è accaduto riconosciamo che, facendo così, ci siamo emancipati dall’amore e abbiamo amputato da noi stessi quello che ci fa vivere.
Ma allo stesso tempo emerge così di nuovo quello che vi è di più profondo nel ministero episcopale e sacerdotale: poter rappresentare il Padre, il vero Padre di noi tutti, del quale abbiamo bisogno per poter vivere come uomini. Il sacerdote può renderlo presente dando la sua pace, la sua grazia, la parola trasformatrice dell’assoluzione.
Un secondo compito del ministero sacerdotale, con questo strettamente intrecciato, viene in luce quando Paolo nel versetto successivo dice: «Siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza». Prendiamolo come esame di coscienza. Certo, siamo molto ricchi di parola e di conoscenza. Ma siamo veramente ricchi della Parola che è conoscenza e che ci guida in mezzo a tanti discorsi inutili? Oppure è proprio di questa che siamo divenuti estremamente poveri?
Torniamo ancora una volta a Julien Green. Egli racconta come, sin dalla fanciullezza, sua madre, anglicana, lo avesse letteralmente immerso nella Sacra Scrittura. Era ovvio per lui sapere a memoria tutti e centocinquanta i Salmi. La Scrittura era l’atmosfera della sua vita. E dice: «Mia madre mi insegnò a comprenderla come libro d’amore. E mi permeò profondamente dell’idea che, da un capo all’altro della Scrittura, fosse unicamente l’amore a parlare. E tutto il mio essere non voleva nient’altro che amare». Ecco, alla fine non può perdersi un uomo che ha ricevuto delle basi così.
E noi? Non dobbiamo forse iniziare in modo del tutto nuovo a dare spazio a questa Parola, nella quale da un capo all’altro ci avvolge l’amore, farne l’atmosfera delle nostre case e della nostra vita quotidiana? Non è assolutamente una garanzia che nella vita tutto andrà a gonfie vele. Ma è un’ultima forza portante che sempre di nuovo ci ricondurrà a casa, che ci renderà ricchi di vera conoscenza.
Infine un terzo punto. Paolo dice di essere grato per il fatto che «nessun dono di grazia più vi manca». Sentendo queste parole è quasi come se vedessi davanti a me il volto di san Paolo che sorride con una sottile, lieve ironia. Infatti, alcune pagine dopo, punta l’indice contro i Corinzi perché sono addirittura assetati di carismi. Egli non ritira quella frase, non è adulazione. No, non manca loro alcun carisma, alcun dono di grazia. E tuttavia essi rischiano di essere scriteriati, perché importa loro solo il particolare, perché ognuno vuole sopraffare l’altro e perché così non è più evidente che tutti i carismi, tutti i doni hanno un unico fine: introdurci all’amore ed edificare così l’organismo vivo di Gesù Cristo.
Ma mi viene in mente anche san Filippo Neri (…), quel santo che con il suo inesauribile umorismo e con la sua fede smisurata fece della Roma della seconda metà del XVI secolo una città nella quale la luce di Gesù Cristo era di nuovo posta sul candelabro e poteva di nuovo essere criterio per i cristiani.
Egli raccoglieva dei giovani che con lui leggevano la Scrittura, si immergevano nei tesori della storia della Chiesa e per i quali era ovvio che chi si abbeverava di questa parola, dopo la dovesse distribuire andando fra i malati nel vicino ospedale di Santo Spirito, dai sofferenti e dai poveri di Roma.
A questa scuola dei carismi sono cresciuti uomini eccellenti come Cesare Baronio — il grande storico della Chiesa — e tanti altri uomini nei quali furono risvegliati dei doni e nei quali, senza alcun ministero o chiamata particolare, divenne viva la forza della Parola di Dio. Questa Parola prese quegli uomini al proprio servizio e tutto venne a raccogliersi, sempre e comunque, attorno a quel centro che si chiama amore, fede, speranza.

Graham Greene

Storie di conversione: Graham Greene

di Giulia Galeotti
Il 13 luglio 1965 Paolo VI riceve in udienza privata lo scrittore inglese Graham Greene (1904-1991). L’incontro ha un duplice spessore:  da un lato v’è l’uomo di fede, cresciuto e maturato nel proprio cammino di conversione, che viene accolto dal suo Pontefice; dall’altro, l’autore di un romanzo incappato nelle maglie del Sant’Uffizio e l’illuminato ministro di Dio che, oltre un decennio prima, aveva saputo cogliere il valore e il profondo significato dell’opera. 
A tu per tu nella calda estate romana, si parlò, infatti, anche de Il potere e la gloria (1940):  all’inglese che gli ricordava la condanna ricevuta, sorridendo Montini rispose:  “Mister Greene, certe parti del suo romanzo non possono non offendere alcuni cattolici, ma lei non dovrebbe attribuire alcuna importanza a questo”.

Nato a Berkhamstead nel Hertfordshire e compiuti gli studi al Balliol College di Oxford, Green lavorò inizialmente come giornalista (al “Nottingham Journal”, al “Times” e infine allo “Spectator”). Quindi, fu alle dipendenze del Ministero degli esteri, ricoprendo il ruolo che tanto spazio avrà in molti dei suoi romanzi:  fu una spia al servizio di sua maestà. Soprattutto, però, in questi anni, si era già verificato l’evento decisivo della sua vita, ricco di implicazioni sulla sua produzione letteraria:  la conversione al cattolicesimo. Il tramite fu una donna. Lavorando al “Nottingham Journal”, infatti, Greene aveva avviato una fitta corrispondenza con Viviene Dayrell-Browning, a sua volta convertitasi al cattolicesimo. L’incontro porterà nel febbraio del 1926 al battesimo di Greene e, l’anno dopo, al loro matrimonio.

È del 1938 il primo romanzo del ciclo cattolico (La roccia di Brighton), ciclo che da subito si delinea nei suoi inconfondibili tratti:  l’imprinting protestante e una certa tristezza puritana si combinano con la luce del cattolicesimo. Se il protagonista dei suoi romanzi è l’uomo moderno corrotto, cacciato e disperato, preda dell’ansia e della paura, circondato e braccato dal male, la presenza di Dio, amorevole e salvifica, è comunque una certezza. “Sono uno scrittore al quale è capitato di essere cattolico”, ripeteva Greene:  sono gli incontri e le esperienze della vita, le delusioni, le speranze, i desideri realizzati e quelli che si perdono per la via, a condire le pagine della sua letteratura, a dipingere sulla carta intrecci che sono, al contempo, molto più profondi e carichi di speranza di quanto non sia immediatamente percepibile.

Uno dei tratti distintivi del suo essere cattolico è ravvisabile nell’atteggiamento di grande compassione che Greene nutre verso la debolezza e la fragilità degli uomini. Il suo messaggio è stato perfettamente colto da Charles Moeller, autore della monumentale Letteratura moderna e cristianesimo:  “L’opera di Greene altro non è che un commento alla parola divina:  non giudicate. Non giudicate il mondo che vi sembra abbandonato da Dio:  esso è abitato da Dio. Non giudicate l’umanità che in apparenza ha ucciso Dio:  essa è salvata da Dio. Non giudicate la sconfitta di Dio, calpestato nelle sue istituzioni che vengono abbandonate al demonio, deriso nella debolezza dei sacramenti:  la potenza e la gloria di Dio vi sono presenti”. Come dice Scobie ne Il nocciolo della questione (1948), “Per essere veramente umano, tu devi bere il tuo calice fino alla feccia. Se una volta sei fortunato, e un’altra volta codardo, il calice ti vien presentato una terza”.

È esattamente quanto fa il protagonista de Il potere e la gloria, il prete che nel Messico insanguinato dalla rivoluzione, tenta di sfuggire alle autorità che perseguitano, fucilando o costringendo alle nozze i ministri di Dio. Questa figura è l’autentico capolavoro di Greene:  il prete, infatti, è un peccatore (“era un cattivo prete, lo sapeva. La gente aveva un nomignolo per quelli come lui:  preti spugna”). Lentamente ma inesorabilmente, il peccato arrugginisce e corrode la sua vita. “Non era che l’ennesima resa. Gli anni alle sue spalle erano disseminati di analoghe capitolazioni (…). La sua vita quotidiana si era riempita di crepe, come una piaga, e la dimenticanza si infiltrava nelle fessure spazzando via questo e quell’altro”. Del resto, quando già abbiamo appreso del suo alcolismo e dell’esistenza di una figlia concepita in una sera in cui era ubriaco, scopriamo quello che è in realtà il suo vero peccato:  l’orgoglio.
Dio sembra assente in questo romanzo (come in tutto il mondo raccontato da Green). Lo Stato tenta di estirparlo, il comportamento dei suoi ministri fa di tutto per bestemmiarlo, Dio, infine, sembra sopraffatto dalla superstizione, dall’ignoranza e dalla cattiveria. Eppure, le pagine traboccano della presenza di Dio. “Era per quel mondo che Cristo era morto; quanto più male si vedeva e si sentiva in giro, tanto più grande era la gloria circonfusa attorno alla sua morte. È troppo facile morire per le cose buone o belle, per la patria, i figli, la civiltà… ma ci voleva un Dio, per morire per gli indifferenti e i corrotti”.
Qualche giorno prima di essere giustiziato, il prete spiega al tenente che l’ha catturato la grande differenza tra i rivoluzionari atei e la rivoluzione della fede. Nelle prime i rivoluzionari debbono necessariamente essere buoni, mentre “anche se tutti i preti fossero come me, ubriaconi, vigliacchi, avidi, questo non cambierebbe nulla, perché essi potranno sempre dare Dio agli uomini”. Il prete spugna, del resto, non è braccato solo dalla polizia, ma anche dalla sua coscienza, da Dio:  come ha scritto Paul Rostenne, il suo destino diventa così una vocazione. Proprio in quest’ottica, anch’egli è un testimone dell’esistenza e dell’amore di Dio. Nell’imminenza dell’esecuzione, non ha paura né della dannazione eterna, né del dolore fisico:  “Provava solo un’immensa delusione di doversi presentare a Dio a mani vuote, senza un’opera da offrire. Gli pareva, in quel momento, che sarebbe stato così facile essere un santo. Sarebbero bastati un po’ di autodisciplina e un po’ di coraggio. Si sentiva come chi, per pochi secondi, avesse mancato l’appuntamento con la felicità. Adesso sapeva che, alla fine, una sola cosa conta veramente:  essere santi”. Il potere e la gloria manifesta la forza soprannaturale del paradosso cristiano. Avere fede è credere che Dio non tace, che Dio non abbandona i suoi figli. Per questo, il peccato peggiore, “il peccato imperdonabile”, è la disperazione.

In La fine dell’avventura (1951) Greene racconta una storia di conversione. Una bomba cade sopra la casa in cui si trovano l’adultera Sara Miller e il suo amante. Quando la donna, che è stata battezzata ma non lo sa, scopre l’uomo sepolto dalle macerie e lo crede morto, fa una cosa inspiegabile:  inginocchiatasi, implora Dio, quel Dio che non conosce e al quale non crede, di salvare l’amante, impegnandosi in cambio a non vederlo mai più. Ebbene, qualche minuto dopo, scopre che in realtà Maurice è vivo. Sebbene non voglia mantener fede a quella promessa, non rivedrà più l’uomo. Per questo Sara si ritrova a odiare quel Dio, al quale continua a essere sicura di non credere, che le sta sottraendo la sua felicità. Ma proprio odiandolo perché l’ha presa alla lettera, la donna capisce che in realtà crede in Lui “perché non si può odiare dell’aria”, (similmente accadrà a Maurice, dopo la morte di Sara). Come i due amanti, così fa anche il mondo.
In diverse forme e con variopinte sfumature Graham Greene ci suggerisce che la conversione è un processo costante. Convertirsi è attraversare e riattraversare il mondo, le sue crudeltà, i suoi silenzi e le fitte tenebre, in un continuo colloquio con Dio.
su L’Osservatore Romano del 29-30 agosto 2008
AMDG et DVM

giovedì 27 aprile 2017

Sursum corda!

In alto i cuori!

11. L’11ma opera fatta dal nostro Salvatore e Signore Gesù Cristo in questo mondo fu che dopo aver digiunato nel deserto cominciò a predicare e proclamare ad alta voce: Convertitevi, perché è vicino il Regno dei Cieli! (Mt. 4, 17). 

Prima del digiuno non si manifestò, ma volle fare penitenza di nascosto e in occulto nel deserto. Lasciato poi il deserto, istruiva le genti dicendo: “Fate penitenza” e indicava loro qual vita dovevano vivere e insegnava loro come potessero evitare i peccati. 

E facendo questo ricorreva villaggi, città e castelli. E come con parole insegnava la sua santa dottrina, così anche la mostrava con le sue opere. Perciò il libro degli Atti degli Apostoli (At. 1, 1) dice: Ciò che Gesù fece ed insegnò fin dal principio.

      Buona gente [nel manoscritto: bona gent], grande sarebbe la benignità del re di Aragona se egli medesimo percorresse l’intero suo Regno ed egli stesso nelle piazze pubblicasse e raccomandasse la sua legge e i suoi ordinamenti. 
Bene, proprio così ha fatto  Gesù, Re dei Re e Signore dei signori, lodando potentemente la sua legge, e nel caso non trovasse un pulpito adatto niente lo fermava ma usava qualunque podio o scala delle piazze e di là esponeva la sua legge; se all’inizio non aveva tanta reputazione tra giudei e farisei perché si fermassero ad ascoltare le sue prediche, dopo però, perché la sua fama crebbe tanto, volevano toglierlo di mezzo.

      Questo lo ripresenta il sacerdote quando dice ad alta voce il Prefazio: “In alto i cuori!”. Per mostrare che così come Gesù Cristo parlava con la bocca e insegnava con l’esempio, ugualmente anche il sacerdote, dicendo il Prefazio, tiene o deve tenere le mani alzate e non abbassate, per così mostrare ch’egli, che predica la parola di Dio, deve con l’esempio e i fatti  dimostrare quelle parole che annunzia e proclama. 

Perciò san Paolo attribuendo a Gesù Cristo tutto questo diceva: Non oserei infatti parlare di ciò che Cristo non avesse operato per mezzo mio per condurre i pagani all’obbedienza, con parole e opere, con la potenza di segni e di prodigi, con la potenza dello Spirito Santo (Rm. 15, 18-19).  Così ogni predicatore, ecc.
JHS
MARIA!

giovedì 16 febbraio 2017

Oggi Io Sono felice

24 maggio 2011 – Se trovate difficoltà a pregare



Mia amatissima figlia, oggi Io Sono felice di tutto il lavoro che è stato fatto per impartire la Mia Santissima Parola al mondo attraverso la tua Opera. 
Non devi mai pensare di non fare abbastanza, a causa della quantità di persone che rifiutano questi Messaggi, poiché quei Miei figli che adesso non accettano la Mia Parola, lo faranno con il tempo. In seguito, essi avranno fame della Mia Voce.
Ora rimani concentrata su di Me. 
Non lasciarti fuorviare da coloro che gettano il disprezzo su questi Messaggi. 
Non sentirti mai scoraggiata, poiché coloro che adesso stanno ascoltando la Mia Parola, stanno infatti diffondendo la Verità agli altri, a causa del loro amore per Me.
La conversione è una difficile sfida, in un mondo così cieco alla Verità della vita eterna. 
La perseveranza è necessaria, poiché con l’aiuto dello Spirito Santo, il cui Potere viene ormai sentito ovunque nel mondo, i Miei figli alla fine ritorneranno a Me, anche se non tutti. 
Coloro che preferiscono le finte comodità che gli vengono offerte mediante l’ingannatore, troveranno infatti molto difficile rifiutare la vita che conducono. 
Pregate adesso per tutti i vostri familiari e amici, in modo che durante l’Avvertimento, possiate unirvi tutti attraverso il vostro amore per Me; infatti, se accetterete questo evento, considerandolo quale vostro percorso verso la libertà, sarete ricompensati con la Mia grande Misericordia.
La preghiera non è facile
La preghiera non è facile per molti dei Miei figli che trovano la recita delle preghiere lunga, ripetitiva e un po’ noiosa. Se questo è il modo in cui pregate e vi state sforzando, allora basta sedersi tranquillamente e comunicare con Me in silenzio. 
Riflettete semplicemente circa la Mia Vita sulla Terra. Rammentate a voi stessi il tempo che Io vi trascorsi e le lezioni d’amore che diedi a tutti voi; questo è sufficiente. Tranquillizzate la vostra mente, ed Io Mi siederò con voi in contemplazione. 
Io cammino con ognuno di voi. Io Sono presente ogni minuto del giorno, non importa quello che state facendo. 
Io non Sono mai lontano. 
Ricordate che Io Sono il vostro bastone nella vita. Appoggiatevi su di Me. Chiedete il Mio sostegno con sincerità ed Io ascolterò la vostra chiamata. 
Non rifiuto mai le vostre richieste, se esse sono secondo la Mia Santa Volontà. 
Tuttavia, quando chiedete dei favori che sono stati concepiti per diffondere gli eccessi mondani, sappiate che Io non ve li concederò mai; infatti non potrei mai darvi dei doni che Io so essere un male per la vostra anima. I Miei Doni vengono dati affinché Io possa portarvi più vicini al Mio Cuore, poiché quando ciò accade voi non avete bisogno di nient’altro.
Il vostro amorevole e devoto Salvatore
Gesù Cristo
AMDG et BVM

sabato 26 novembre 2016

NATALE SI AVVICINA: ATTENZIONE: Naturalismo e conversione. - Purificare la Chiesa senza la Messa cattolica è una tragica illusione


.........Stiamo attenti a non ricadere, anche desiderando la santità, nel Naturalismo: non ci saranno conversione e santità possibili se ci appoggeremo al solo nostro sforzo; occorre partire dagli strumenti della grazia che sono i sacramenti, accompagnati dall'unica dottrina di verità comunicata dalla Rivelazione.

Non ci sarà santità possibile, continuiamo a ripeterlo, se non ai piedi del Calvario dove Cristo ci santifica.

 Non ci sarà purificazione possibile per la Chiesa, per te e per tutti, se non ai piedi del Calvario di oggi, che è l'altare dove è celebrato il Divino Sacrificio.

 La battaglia per la Messa tradizionale, che continuiamo a compiere, si inserisce in questo principio della grazia che, unica, salverà le anime.

 Voler purificare la Chiesa senza la Messa cattolica è una tragica illusione.

 Purificare la Chiesa senza tornare alla Messa di sempre, la Messa che ha fatto i santi, la Messa che non rincorre affannosamente la modernità, equivale all’errore di un nuovo Pelagianesimo, che produrrà cadaveri dove dovevano sorgere anime salvate dalla conversione.

 Che il Natale di Cristo faccia sorgere un popolo di umili che, riconoscendosi peccatori, si abbeverano alla grazia di Cristo.
 Faccia sorgere questo popolo per la pace di tutti; Pastori e gregge rinascano alla grotta di Betlemme, che è già Calvario, che è già il luogo della grazia che salva.

 Pastori e gregge rinascano nella Messa della tradizione, che parla con purezza della grazia che salva; e che dà le condizioni perché questa grazia produca i suoi frutti di santità.

 Allora sarà la Riforma, quella vera.


AVE MARIA PURISSIMA

Quello che lui era io sono, e quello che egli è io sarò!



San Silvestro Guzzolini Abate
Osimo, 1177 - 26 novembre 1267
Nato nel 1177 da nobile famiglia di Osimo, nelle Marche, Silvestro Guzzolini divenne prete dopo aver studiato Diritto a Bologna e Teologia a Padova. Canonico della cattedrale osimana, a 50 anni si ritirò in una grotta presso Frasassi. Arrivarono parecchi compagni e adottò la regola di san Benedetto. Nacquero così i Benedettini Silvestrini. Nel 1231 Silvestro fondò il monastero di Montefano (Fabriano). Prima di morire, nel 1267, ne fondò altri 11 con 119 monaci. (Avvenire)
Etimologia: Silvestro = abitatore delle selve, uomo dei boschi, selvaggio, dal latino
Martirologio Romano: Presso Fabriano nelle Marche, san Silvestro Gozzolini, abate, che, presa coscienza della grande vanità del mondo davanti al sepolcro aperto di un amico da poco defunto, si ritirò in un eremo e, dopo aver cambiato varie sedi per meglio isolarsi dagli uomini, fondò infine in un luogo appartato presso Montefano la Congregazione dei Silvestrini sotto la regola di san Benedetto.

1177 - S.Silvestro, della nobile famiglia Guzzolini, nacque ad Osimo (AN), da Gislerio, giureconsulto, e da Bianca Ghisleri di Jesi. La famiglia era di simpatie ghibelline, favorevoli all’Imperatore del Sacro Romano Impero.

1197 - A circa vent’anni parte per Bologna, inviatovi dal padre per apprendere il diritto e diventare avvocato. Studia giurisprudenza e vi riesce bene, ma dentro sente il vuoto, perché le leggi umane, dichiara il suo primo biografo, il Venerabile Andrea, non lo accendono per le cose di Dio. Passa all’Università di Padova per lo studio della teologia: non seguiva i vizi dell’età giovanile e non si lasciava andare a discorsi vani, pericolosi o disonesti.

1208 - Ritorna ad Osimo con la Laurea in Teologia piuttosto che in Diritto: il padre monta su tutte le furie e non gli perdona la scelta arbitraria; l’ira del genitore non si placa e gli rifiuta lo sguardo e la parola sperando di vederlo "rinsavire". Resiste Silvestro per diversi anni, e di questo suo stato viene informato il Vescovo di Osimo.

1217 - Viene ordinato Sacerdote dal Vescovo di Osimo e gli viene conferito il beneficio canonico della Cattedrale. Fu nei primi anni del suo sacerdozio, che forte degli studi fatti a Bologna, difese virilmente i diritti della sua Cattedrale, lesi dai signorotti locali.

1227 - A cinquant’anni, meditando sulla vanità delle ambizioni umane presso la tomba di un illustre parente, deceduto poc’anzi, già in preda alla decomposizione del sepolcro, riflette: Io sono quello che lui era: quello che lui è io lo sarò. Gli ritorna in mente il detto evangelico: Chi vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Decide così di ritirarsi dal mondo, desideroso di piacere soltanto a Dio. Il comportamento del suo Vescovo, più militaresco che pastorale, lo confermò nel suo proposito. Si rifugia in una grotta dell’appennino marchigiano, chiamata Grotta Fucile, già covo di briganti, non lontano dalle famose grotte di Frasassi nel comune di Genga.
Qui, attesta il Biografo, Silvestro: si dedicava intensamente ai digiuni e alla preghiera, progredendo ogni giorno nella virtù.

1228 - Due legati pontifici, i domenicani Fra Riccardo e Fra Bonaparte, in visita al clero delle Marche, incontrano il penitente Silvestro e, riscontrandone la forte spiritualità, lo consigliano di cercarsi un compagno per non rimanere solo nell’eremo. Glielo mandano loro stessi: è Filippo, il primo discepolo.
Opta per la Regola di S. Benedetto, come guida per il suo monachesimo e riceve l’abito dell’Abate di un monastero vicino, tal Pietro Magone. Affluiscono altri discepoli, desiderosi di mettersi alla sua scuola di perfezione cristiana. La grotta divenne troppo angusta, il luogo troppo arido per sostentare i Monaci.

1230 - Dopo estesa ricerca di un posto solitario più accogliente, Silvestro approda sul Montefano, vicino Fabriano. Qui lo raggiunge, proveniente da Paterno, località poco distante, il giovane Giovanni, anch’egli reduce dagli studi interrotti a Bologna; verrà soprannominato dal bastone per l’appoggio da lui usato a sostegno della zoppia contratta in quella città. Fu il ritratto della santità del Padre Silvestro. Il suo corpo riposa nella chiesa di San Benedetto in Fabriano, meta di pellegrinaggi.

1231 - Fonda il Monastero di Montefano conglobante Fonte Vebrici che sorgeva in un avvallamento del monte (m.850).
Nel corso di questa costruzione avvennero i miracoli della trave allungata e del masso inamovibile reso leggero e trasportabile. Silvestro era chiamato spessissimo dai canonici di San Venanzo (Fabriano) a proporre al popolo la Parola di Dio. Era egregio predicatore e dottore.

1231-1248 - Cominciò a costruire monasteri, caratterizzati tutti da povertà, solitudine, lectio divina e predicazione al popolo.
27 giugno 1248 - E’ la data del Privilegio di Conferma ottenuto da Papa Innocenzo IV, in risposta a critici malevoli che l’avevano accusato di aver istituito un nuovo ordine ed abito contravvenendo a quanto disposto dal Conc. Lateranense IV (1215). La Bolla Pontificia menziona 4 monasteri: Montefano, Grotta Fucile, S. Marco di Ripalta e S. Bonfilio di Cingoli dove scrisse la vita del santo omonimo, monaco e Vescovo di Foligno, vissuto tra l’XI e il XII secolo: ivi sono contenuti gli ideali monastici del nostro Santo.

1248-1267 - Sono anni si espansione e di fioritura di santità: S. Silvestro fonda 12 monasteri con 119 monaci che egli radunò per il Servizio Divino, non desiderando le relazioni con i secolari, ma scegliendo piuttosto luoghi solitari e disabitati….
Il Santo Uomo – riferisce il biografo – aveva disposto il monastero come un giardino in una terra solitaria ed inaccessibile. Vedendovi riprodotti i fiori dei novizi, piantati gli alberi dei proficienti e ben fondate le piantagioni dei perfetti, godeva dell’abbondanza dei frutti delle virtù e s’immergeva nella contemplazione della divinità… i vecchi dimenticando l’età, partecipavano agli uffici notturni con giovanile prontezza. I giovani, tenendo a freno l’esuberanza giovanile, prendevano parte al culto divino con senile serietà.
A ben 12 discepoli viene riconosciuto il titolo di Beato. Primeggiano, tra questi, il Beato Giovanni dal Bastone e il Beato Ugo degli Atti, di Serra S. Quirico (AN).
26 Novembre 1267 - Si chiude l’operosa esistenza di San Silvestro, dotato di spirito profetico ed operatore di prodigi, pronto ormai per la Patria Beata. Si contano ben 17 miracoli operati durante la sua vita e 10 dopo la sua morte.
Fu adorno di singolarissimo privilegio, unico nell’agiografia cristiana: la Comunione ricevuta per le mani Venerande della Vergine Santissima: O figlio Silvestro, vuoi ricevere il Corpo di mio Figlio, il Signore Gesù Cristo, che vergine ho concepito, vergine ho dato alla luce e sempre vergine rimasi anche dopo il mirabile parto?

BIOGRAFIA

GIOVANE NOBILE
Nel 1200 aveva 23 anni circa (San Francesco ne aveva solo 13). Egli è nato ad Osimo, una cittadina sulle colline marchigiane, non lontano dal mare Adriatico. Era un giovane elegante, nobile di casato e di sentimenti. Ghislerio, suo padre, era un perito in diritto civile, e sognava un avvenire di gloria umana per suo figlio. Per questo, terminati gli studi ad Osimo, lo mandò a studiare a Bologna e poi a Padova. Solo i figli di papà potevano permettersi tanto, a quei tempi.
Il giovane Silvestro obbedì, ma in seguito, avendo sete dell'acqua della Sapienza di Dio, volle frequentare i corsi di teologia per lo studio della Sacra Scrittura. E nel colloquio intimo con il suo Signore Egli maturò, sempre più, la vocazione allo stato religioso.
Terminati gli studi, tornò a casa e confidò ai suoi il desiderio di consacrarsi a Dio. Ma trovò l'ostacolo insormontabile di suo padre, che, per lunghi 10 anni segregò suo figlio e non gli rivolse più la parola.

NELLA COMUNITA' DEI CANONICI
Alla fine Silvestro, forse appoggiato anche dalla sua mamma, Bianca, la spuntò ed entrò nella Comunità religiosa dei Canonici nella Chiesa di Osimo. Ebbe anche un beneficio dal Vescovo per poter vivere, dato che suo padre lo aveva diseredato. Il giovane canonico ardeva di zelo per il Signore. Egli trovava la sua forza nella preghiera, fatta col cuore, e nella meditazione della Parola di Dio. Predicava con fede ed era radicale nell'osservanza del Santo Vangelo. Per questo era amabile e caro a Dio e al popolo.
Un giorno dovette riprendere il suo Vescovo, che non conduceva una vita proprio esemplare. Il Vescovo non digerì bene la cosa, e Silvestro si ritrovò solo, come quando si trovò prigioniero nella sua casa natale. Ma non si scoraggiò. S'infiammò ancora di più nell'amore di Gesù Cristo. E fu allora che gli nacque in petto il desiderio di lasciare proprio tutto e starsene solo con Dio.

DURANTE UN FUNERALE…

La spinta a fare questo passo ardito l'ebbe un giorno quando, durante un funerale di un nobile, volle guardare dentro la fossa comune. Là dentro vide in faccia lo sfacelo della morte… Silvestro inorridì e poi rifletté: «Quello che lui era io sono, e quello che egli è io sarò». Nel cuore gli risuonavano anche le parole di Gesù: «Chi vuol venire dietro a Me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua (Mt 16, 24)».

IN UNA GROTTA, SOLO CON DIO 

Silvestro decise di abbandonare tutto e di ritirarsi in solitudine. Si confidò con Andrea, suo amico, che con il suo cavallo lo accompagnò verso i monti. Poi Silvestro proseguì da solo e fece esperienza eremitica in diverse grotte. Ma, più volte, in visione, Egli vide il luogo, che Dio stesso gli indicava. Allora s'inoltrò fino alla Gola della Rossa, e arrivò a ad una grotta, detta di «Grottafucile». E disse: «Qui sarà il mio riposo, qui abiterò (Sal 131, 14)». Là l'Uomo di Dio iniziò una vita eremitica di stretta osservanza: preghiera, digiuno e penitenza. A volte si cibava di sole erbe crude. Lo Spirito del Signore gli infiammava sempre più il cuore di divino Amore e lo ricolmava anche dei suoi doni carismatici.
Silvestro ormai non viveva più secondo la carne e il mondo. Egli era come rinato, era diventato una 'creatura nuova'. E viveva finalmente appagato dentro l'anima e felice nel compiere la Santa Volontà di Dio. Per tre anni si fermò, solo con il suo Dio, in questo luogo santo. Là «Egli aspirava quotidianamente, con tutto il pensiero e il desiderio, alla dolcezza delle cose del cielo». Venne come trasformato, e non solo dentro l'anima. Egli ormai sembrava un Mosè redivivo sul monte santo di Dio. La bellezza della sua anima rifulgeva anche sul suo volto angelico.

MONACO BENEDETTINO
Un giorno l'Uomo di Dio venne scoperto da alcuni uomini del signore di Castelletta. Da allora la gente, incominciò ad andare a lui per chiedere preghiera e consiglio spirituale. Egli tutti ascoltava e incoraggiava nella via di Dio, come è scritto: «Contemplata, aliis tradere». E cioè: quello che il monaco ottiene dalla Sapienza nella contemplazione delle cose di Dio lo annuncia, per edificazione, ai fratelli.
E c'era anche chi chiedeva, con insistenza, di rimanere in quel luogo di pace per condividere quella magnifica esperienza di vita spirituale. Frate Silvestro dovette ormai decidersi e organizzare una Comunità religiosa. Ma con quale regola, e con quale abito? Pregò molto per questo e, mentre pregava, vennero a lui alcuni Santi dal cielo. Uno dopo l'altro, gentilmente lo invitavano ad accettare la loro Regola e il loro abito. Ma Egli chinava il capo e rimaneva in silenzio.
Allora gli si presentò un venerando Vecchio, attorniato da alcuni monaci, che lo esortò, con insistenza, ad accettare la sua Regola e il suo abito. Era San Benedetto. Silvestro esultò nel suo spirito, e pieno di gioia, rispose: «Ti ringrazio, reverendo Padre, io indegno tuo servo, perché sei venuto a visitarmi proprio quando avevo il cuore in ansia. Farò come Tu mi suggerisci». Poi il Santo Eremita andò da un monaco della zona, di nome Pietro e a da lui fu rivestito dell'abito monastico. Infine, avendo acquistato un libro della Regola monastica, Egli fondò il primo piccolo Eremo, con vita cenobitica, in quel luogo santificato dalla sua presenza, e lo dedicò alla Beata Vergine Maria, che Lui amava chiamare «Regina di Misericordia».
Il Venerabile Andrea, suo biografo, ci ha voluto tramandare anche i lineamenti caratteristici del nostro Santo: «Era di aspetto gradevole, casto di corpo, affabile nel colloquio, conosciuto per la prudenza e la temperanza, ardente di amore, sollecito nella pazienza, saldo nell' umiltà e nella stabilità. In breve, fioriva davanti al Signore con ogni genere di virtù».

SUL MONTE FANO

A Grottafucile si stava bene insieme, nell'amore fraterno, nelle veglie di preghiera, nei digiuni e penitenze. Ma San Silvestro risentiva dentro la nostalgia per la vita eremitica, e perciò, salutati i fratelli, s'incamminò solo, tra i monti, e si diresse verso Fabriano. Salì fin sul monte Fano e si fermò su un piccolo ripiano, vicino al una sorgente. E' la fonte Vembrici. Il posto era incantevole. Là il Santo volle costruirsi una capanna, addossata al monte. Ed era felice con Dio. Tutto immerso nella natura lussureggiante e nella preghiera, fatta col cuore, passava il tempo nella pace della pura contemplazione delle cose di Dio.
Ma ecco che alcune persone, un giorno, Lo scoprirono mentre, seduto accanto alla sorgente, si stava sfamando con un pane d'orzo. Gli faceva compagnia un lupo. Il Santo spiegò loro il fatto, anche perché si erano impauriti: « Da quando mi trovo in questo posto solitario il lupo sorveglia la mia celletta, come custode fedelissimo. In ogni momento mi obbedisce: evita ciò che gli viene proibito e fa puntualmente quanto gli viene comandato». E, all'ordine del Santo, il lupo si allontanò subito docilmente.
«Infatti, prosegue il suo biografo, dal momento che la sua anima era perfettamente soggetta al Creatore, non trascurando nessun comandamento divino, sembrava che avesse ottenuto l'antico dominio, concesso al primo uomo, sopra tutte le creature irragionevoli». Questo è, indubbiamente, un chiaro segno che l'Uomo di Dio aveva raggiunto la grazia dell'innocenza originale.

L'EREMO DI SAN SILVESTRO
Il Santo Uomo »spandeva profumo di umiltà e mansuetudine (Ef 4,2)» e la fama di Lui si era ormai divulgata in tutta la valle dell'Esino ed oltre. Alcuni cittadini di Fabriano, dopo aver toccato con mano il fascino delle sue virtù, decisero di donargli il ripiano intorno alla sorgente di fonte Vembrici, dove lui dimorava nella pace.
E la gente accorreva, sempre più numerosa, da frate Silvestro per chiedere preghiere, benedizione e consigli spirituali. Incominciarono anche a fiorire le vocazioni alla vita monastica e allora Egli decise di costruire anche là un Eremo, dopo quello di Santa Maria in Grotta «Fucile». L'Oratorio lo volle dedicare a San Benedetto.
E l'acqua della sorgente che, da oltre sette secoli, continua a scorrere ancora oggi dall' Oratorio, è un vero segno profetico, secondo come è scritto: «Sgorgheranno da Lui fiumi d'acqua viva (Gv 7,38 )».
Il Venerabile biografo, quasi con stupore, ci tiene a ricalcare ancora, e per noi del terzo millennio, i lineamenti del nostro Santo per tramandarceli intatti: «Egli era di aspetto angelico, pieno di fede, risplendente di sapienza, benevolo nell'ospitalità, generoso nell'aiuto materiale, attento alla predicazione, sollecito nel guardare i fratelli, assiduo nella santa meditazione, pietoso visitatore degli infermi, consolatore degli afflitti». E più avanti: «Egli non accarezzava i vizi dei sudditi…, era paziente con i persecutori, misericordioso con i poveri e i deboli. Nel suo atteggiamento non avresti potuto trovare traccia di arroganza, di superbia o di vanagloria». Certo ormai, assieme a San Paolo Egli poteva, in tutta verità, ripetere: »Non sono più io che vivo, ma è Cristo, che vive in me (Gal 2,20 )». E non c'è male anche per chi vuole seguire sul serio le sue orme. Sono le stesse orme di Gesù Cristo e di San Benedetto.
L'Eremo era piccolo, povero, disadorno e lontano dall'abitato. Era proprio come lo voleva il Santo Abate. Era un chiaro ritorno alla vita monastica originale, come ai tempi di San Benedetto. Era una riforma alla vita benedettina. Frate Silvestro non amava le grandi costruzioni, ma voleva l'essenziale per i suoi monaci in uno spirito di povertà e semplicità evangelica, che è caratteristica propria dei silvestrini, fin dal loro nascere.

LA GIORNATA DEL MONACO
I monaci, poveri e gioiosi, indossavano una veste ruvida e non conoscevano la varietà di cibo. Si alzavano anche di notte per lodare e benedire il Signore. Più volte al giorno si ritrovavano nel piccolo Oratorio per cantare Salmi e Cantici al Signore e per ascoltare e meditare le divine letture.
«Durante il giorno c'era chi si occupava delle sacre letture, chi era immerso nelle preghiera, c'era chi piangeva i propri peccati e chi gioiva nelle lodi di Dio. Questo vegliava, quello digiunava e quasi ci si contendeva l'un l'altro gli impegni di pietà. Di notte si alzavano per lodare il Creatore. Di sera, al mattino e a mezzogiorno narravano e annunziavano la sua lode e mettevano la massima cura nel culto divino». San Silvestro seguiva con amore i suoi figli spirituali, dando loro testimonianza, nella crescita armoniosa della perfezione cristiana.

I SUOI PRIMI DISCEPOLI
«Un figlio saggio è gloria del padre (Pro 10,1; 15,20)», perciò San Silvestro si compiaceva dei suoi figli spirituali, che vivevano nella stretta osservanza benedettina nei dodici Eremi, che egli volle costruire per loro. Il suo primo discepolo è il Beato Filippo da Recanati e, dopo di lui, vennero altri, prima nel piccolo Eremo di Santa Maria a Grottafucile, poi nell'Eremo sul Monte Fano, e infine, negli altri Eremi.
Tra i suoi discepoli due spiccheranno per fama di santità e prodigi: Il Beato Giovanni dal Bastone, che sarà poi il Padre Confessore della Comunità. La sua tomba è a Fabriano nella Chiesa di san Benedetto e viene festeggiato il 24 marzo. E poi il Beato Ugo Degli Atti, che veniva da Serra San Quirico. Egli era giovane e ardeva di amore e di zelo per il Signore. Anche la su apredicazione era avvalorata da prodigi e, un giorno, fece sorgere, all'istante, acqua fresca per alcuni operai assetati. Da quella sorgente scorre ancora acqua a Sassoferrato dove riposa il suo corpo. Viene festeggiato con grande solennità il 26 luglio.
Un altro monaco, che spiccava in santità e prodigi è il Beato Simone, frate analfabeta, cieco ad un occhio e questuante. L'agiografo racconta che, una volta, San Silvestro, leggendo la Bibbia, s'imbatté in un passo difficile del profeta Geremia. E, non riuscendo a capirlo come desiderava, nella sua umiltà, decise di ricorrere proprio a fra Simone, che stava nel monastero di Ripalta. A fra Simone sembrò quasi che il Santo Fondatore si prendesse gioco di lui e gli disse: «Ma siete voi sacerdoti che dovete insegnare le cose sante e istruire gli altri, non io, che sono mezzo cieco e illetterato!». Il santo gli rispose: «Fra Simone, figlio mio, ti ho chiesto questo non per prendermi gioco di te, ma perché illumini il mio intelletto circa il detto passo della Scrittura». Allora, ammirando la grande umiltà del suo Abate, fra Simone nascose il volto tra le mani, pregò e poi dette la risposta di sapienza nello Spirito Santo.
Un giorno fra Simone, che andava di paese in paese per la questua, lodava e benediceva il Signore, tutto spensierato e felice di contemplare la creazione ed ammirarne l'armonia. Si era a primavera e, passando egli per un viottolo di campagna, scorse un ciliegio in fiore… A tale spettacolo si mise in ginocchio, e con gli occhi rivolti al cielo, pregò con ardore il Signore. Poi, mentre si alzava in piedi, per riprendere il cammino, il ciliegio, tutto carico dei suoi fiori bianchi, abbassò fino a terra, per riverenza, i rami fioriti, fino a toccare i piedi del santo monaco. Egli arrossì, nella sua umiltà, … e sperava proprio di essere solo, invece erano molti quelli che ammirarono un tale fatto straordinario, senza che lui se ne accorgesse, e ne parlarono a tutti. E' proprio vero che quando l'uomo è in armonia con Dio, la natura si rasserena e gioisce perché egli è stato eletto dal Creatore per 'soggiogare e dominare' la terra (Gen 1,28).

IL BRUTTO GUASTAFESTE
Il demonio era furibondo! E tentava senza pietà l'uno o l'altro dei poveri monaci nelle distrazioni durante la preghiera, nella gola a refettorio, nella castità nel letto, nell'ozio. Ma ne riusciva sempre scornato. E, una notte, arrabbiato com'era, incominciò a dar colpi alla porta dell'Eremo, svegliando tutti. Smise solo quando arrivò il Santo, che lo rimproverò aspramente: «Vergognati, perverso spirito, tu che ti innalzavi fino alle stelle (Is 14,13)! Stanco dell'impeto dei tuoi assalti, capisci una buona volta che nell'ultimo giorno rimarrai pienamente sconfitto e privato del Sommo Bene. Ti inganni molto e ti illudi, giacché il genere di armi di cui ti riprometti vittoria, contribuisce alla nostra corona. Ritirati subito, impudente, e affrettati a recarti nel luogo dei tuoi tormenti».
Il maligno si allontanò, facendo un fracasso indiavolato giù per i dirupi del monte, che sembrò scuotersi dalle fondamenta e andare in rovina e distruzione.

Un altro giorno i fratelli volevano portare all'interno dell'Oratorio un masso che servisse da pietra dell'Altare. Accorsero tutti per smuoverlo e vennero anche degli operai per aiutare, ma tutto fu vano perché il diavolo vi si era seduto sopra. Intervenne il Santo e appena tracciò un segno di croce, il sasso divenne leggero.

LA REGINA DELLA MISERICORDIA
Il demonio volle riaffacciarsi per fargliela pagare a quel sant'uomo. E una notte, verso le ore 2,00, mentre il Santo, come sempre, scendeva verso l'Oratorio per la preghiera notturna, il maligno lo fece inciampare ed Egli precipitò con il capo all'ingiù. Era proprio mal ridotto, perdeva sangue e si sentiva morire. Chiamò aiuto, ma nessuno Lo sentì per la violenza del vento e per la pioggia a dirotto. Allora San Silvestro, 'rivolgendosi alla Regina della Misericordia, la Beata Vergine Maria, a cui si era completamente affidato, con insistenti grida interiori, La pregava di non permettere che fosse privato così all'improvviso della vita corporale''. All'improvviso Ella gli si presentò e gli praticò delle salutari unzioni, e le ferite si rimarginarono all'istante. Poi prese il suo corpicciolo tra le sue braccia materne e in un attimo lo trasportò nella sua cella, guarito.

UN PRIVILEGIO TUTTO SPECIALE
Silvestro, crescendo sempre più nella devozione alla Vergine Santissima, si accendeva sempre più intensamente nell'amore vero di Lei. Ed Ella, tutta Misericordiosa, lo volle arricchire di un dono tutto speciale. Una notte, mentre Egli si trovava solo a pregare, in un'estasi improvvisa, si trovò spiritualmente dentro la grotta di Betlemme dove la gloriosa Vergine diede alla luce il Salvatore del mondo. Subito dopo si trovò in una chiesa, davanti all'altare. E mentre là pregava con il cuore, alla destra dell'altare apparve la Regina della Misericordia, il cui splendore superava quello del sole. Ella, con volto lieto e con parole suadenti, gli disse: «O figlio Silvestro, vuoi ricevere il Corpo del mio Figlio, il Signore Gesù Cristo, che Io Vergine concepii, Vergine diedi alla luce, rimanendo sempre Vergine dopo il mirabile parto?». Il Santo fu colto da immenso stupore e, con grande trepidazione, rispose: «Il mio cuore è pronto, o Signora, il mio cuore è pronto. Si compia la tua volontà in me, benché indegno». Allora Ella, con le verginali sue mani, gli diede la santissima Comunione. In forza di Essa, la sua intelligenza fu illuminata da tanta luce che da allora in poi non incontrò più nulla di difficile o di oscuro nelle divine Scritture.
«O uomo felice al quale è sollecita ad andare incontro la Madre del Salvatore! Ella, che altra volta, lo aveva soccorso, ferito nel corpo, ora lo arricchisce di doni abbondanti». E Silvestro, pieno dello Spirito di Dio, cominciò a predire il futuro e a rifulgere, ancor più, di strepitosi miracoli.

OPERATORE DI MIRACOLI
Il Santo Uomo, ormai ripieno della sapienza di Dio, veniva chiamato spessissimo nella chiesa del Beato Venanzio martire, a Fabriano, a esporre al popolo la Parola di Dio. E, un giorno, passando vicino al cimitero, notò che un tale stava scavando la fossa per un certo Diotisalvi, ammalato molto gravemente e, secondo il giudizio dei medici, senza più alcuna speranza di guarigione. Il Santo disse a quelli che erano con lui: «Ecco in verità un morto che prepara la tomba ad un vivo!». Il malato guarì e l'altro morì e venne sepolto nella tomba che si era scavato.
Un altro giorno gli portarono all'Eremo un cieco nato ed Egli, implorata la divina clemenza, fece un segno di croce verso la sua faccia. La divina Misericordia fece al cieco il dono di una vista chiara, e guari all'istante. E la stessa cosa avvenne anche ad una donna di Fabriano. Nella città di Cagli liberò una donna posseduta dal demonio. Un'altra volta, mentre si era a mensa, fece, come sempre, il segno della croce sul recipiente d'acqua, che divenne ottimo vino. Lo stesso cosa fece anche per gli operai che stavano scavando una cisterna nell'Eremo di Santa Maria di «Grottafucile». Ad Osimo guarì, con un segno di croce, un fratello di nome Filippo da Varano. Egli era così mal ridotto da acerbi dolori che aveva le ginocchia tutte rattrappite. Guarì anche il figlio di una donna di Gualdo, che aveva alla faccia una malattia incurabile. A Fabriano domò un brutto incendio. Lo stesso fece a Serra San Quirico con un semplice segno di croce. E nella stessa città, mentre stava predicando la Parola di Dio, uno zoppo dalla nascita, trascinandosi per terra con le ginocchia e con le mani, arrivò fino alla presenza del Santo. Egli chinò lo sguardo sullo zoppo, e subito il suo cuore fu pervaso da un senso di viva pietà. Si volse tutto alla preghiera dinanzi al Volto della gloria e al cospetto del Signore della maestà. Poi, udito da tutti, disse allo zoppo: «Alzati, figlio; alzati, figlio!». E lo zoppo si alzò in piedi a lode e gloria del Creatore e, tutto contento, se ne tornò a casa sua.
San Silvestro operò innumerevoli guarigioni in vita e anche dopo la sua morte gloriosa.

GLI ANGELI LO PORTARONO IN CIELO
Intorno ai novant'anni San Silvestro si mise a letto con febbre ardente. Esortò i suoi discepoli a perseverare nella vita santa e nelle osservanze monastiche. Ricevuti gli ultimi sacramenti, raccomandò il suo spirito al Signore, e concluse in pace la sua vita, piena di giorni e di opere sante. Era il 26 novembre del 1267.
Fra Giovanni, che viveva nella solitudine sul monte, vide la sua anima bella mentre veniva trasportata festosamente in cielo dagli Angeli, in mezzo ad un meraviglioso chiarore. E fra Giacomo, mentre andava a riposare, dopo una giornata di fatica in un possedimento proprio di fronte al Monastero, sentì chiamarsi per tre volte per nome. Uscì, era ormai notte: vide tutto il sacro Eremo e il monte risplendenti di luci, come di fiaccole accese. In fretta salì verso di esso e trovò che il Santo era volato nella Gloria dei cieli.
Fra Bonaparte, che si trovava nel monastero di Iesi, alla stessa ora, nel sonno, vide una scala, che da Monte Fano arrivava fino a toccare il cielo: su di essa c'erano schiere di angeli che portavano l'anima di San Silvestro in Paradiso.
Venne il chirurgo, maestro Andrea, e aprì il suo corpo per prelevarne le viscere, per il fatto dell'imbalsamazione. La casa si riempì di tanto intenso profumo. Sulla sacra tomba poi avvennero ancora guarigioni e liberazioni straordinarie per intercessione del grande Santo Anacoreta.
Oggi le sacre sue ossa sono custodite in un'urna preziosa nella chiesa a Lui dedicata nel Monastero sul Monte Fano, e c'è chi, ancora oggi, pregando il Santo con fede sincera, beneficia ancora del salutare profumo della sua grande santità.
E noi, suoi monaci, ogni giorno, Lo preghiamo con un'antica melodia in canto gregoriano:
«O Amatissimo Padre, Silvestro Anacoreta,
vieni in soccorso dei tuoi figli, moltiplica il loro numero,
difendili dai nemici infernali, e fa che il loro grido, per i tuoi santi meriti, venga ascoltato dall'Altissimo
».

E oggi, all'inizio del terzo millennio, questo canto antico risuona nelle chiese monastiche silvestrine quì a Roma, a Fabriano, a Bassano Romano, a Giulianova, a Matelica, e poi nello Sri Lanka, in India, negli Stati Uniti d'America, in Australia e ultimamente anche nelle Filippine dove si stà costruendo un nuovo Monastero Silvestrino.

don Armando M. Loffredi o.s.b. silv.

Autore: 
Monaci Benedettini Silvestrini

SINTESI DAL BREVIARIO ROMANO:

Silvestro nacque da famiglia nobile, a Osimo nel Piceno. Ebbe un'infanzia resa piacevole per l'istruzione e per il comportamento. Compiuti i soliti corsi di teologia, fu fatto canonico. Si dedicò alla predicazione popolare. Durante il seppellimento di un defunto nobile, scorse dentro la tomba scoperchiata il cadavere putrefatto di un uomo molto bello e per di più suo parente. Pensò: «Io sono ciò che questi era; io sarò ciò che lui è». Immediatamente si ritirò a far vita solitaria, per desiderio di maggior perfezione: si dedicò alle veglie, alla preghiera e al digiuno. Per sottrarsi ancora di più alla vista degli altri, cambiò spesso dimora, fino ad arrivare a Fano, località che in quel tempo era abbandonata. Vi costruì un tempio in onore di san Benedetto e fondò la congregazione dei Silvestrini. Fu un modello di grande santità per i monaci. Ebbe lo spirito profetico, il dominio sui demoni, e altri doni, che egli conservò sempre con grande umiltà. Morì nel Signore nel 1267.
V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.

AMDG et BVM