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mercoledì 8 maggio 2019

VETERUM SAPIENTIA


Il latino, una porta che ci mette in contatto con la Tradizione


MOLTO PIU' DI Quarant’anni fa papa Roncalli firmava la Veterum sapientia, la costituzione apostolica sul latino. Un documento scritto perché questa lingua fosse sempre più promossa e conservata nella Chiesa. Le cose, però, andarono in maniera ben diversa...


di Lorenzo Cappelletti

Giovanni XXIII

Giovanni XXIII
«Presenti nel tempio massimo della cristianità il Sacro Collegio, la Curia romana, la Commissione centrale per la preparazione del Concilio Vaticano II, i corpi accademici e l’alunnato degli Atenei ecclesiastici e tutto il clero dell’Urbe, nonché il numeroso popolo di ogni stirpe e lingua, il Sommo Pontefice, che sedeva al cospetto della sua Cattedra, metteva il suggello alla costituzione apostolica sulla lingua latina, nella quale viene espressa la ferma volontà della Santa Sede “che lo studio e l’uso di questa lingua, restituita alla sua dignità, venga sempre più promosso e attuato”». 
    Così scriveva sull’Osservatore Romano del 1° marzo 1962 il cardinal Pizzardo, rievocando il momento in cui una settimana prima, 22 febbraio, festività della Cattedra di san Pietro, gli era stata solennemente consegnata, a suo onore e onere, in quanto prefetto della Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli studi, la Veterum sapientia da papa Giovanni XXIII. 

In effetti nessun altro documento del “Papa buono” fu presentato entro una cornice così fastosa. Non fu un caso: «L’abbiamo voluto firmare in questo solenne convegno preludente al Concilio» diceva il Papa nel discorso tenuto in quell’occasione «a titolo di particolare apprezzamento e onore». 
    Ma non bisogna lasciarsi trarre in inganno dalle apparenze. Lo scopo di esse, come spesso accade in natura, era essenzialmente difensivo, e forse non solo ad extra: c’è chi pensa sia stato anche il modo di carpire la benevolenza dei conservatori per spianare la strada alla riforma conciliare e magari proprio all’affossamento del latino. 
    Si voleva opporre, e ancor più dare l’impressione di opporre, un argine imponente al degrado altrettanto imponente dello studio e dell’uso del latino nell’ambito ecclesiastico e civile. Si intuiva infatti la forza prevalente dei fatti che, più degli argomenti, giocavano per la sua progressiva emarginazione. Non si intuiva o non si voleva intuire che in questi casi, facendo la voce troppo grossa, si rischia di non difendere nemmeno l’essenziale che era piuttosto il latino nella liturgia, da cui dipendeva anche la permanenza del suo uso e del suo studio. Ma quello si dava per scontato e la Veterum sapientia non se ne occupava.

La questione dell’uso 
e dello studio del latino

Era all’incirca dalla metà del XIX secolo, dal tempo di Pio IX, che si veniva ponendo in modo sempre più urgente la questione del latino, e da allora sinodi diocesani, concili provinciali, le Sacre Congregazioni romane e gli stessi pontefici avevano fatto intendere più volte la loro voce a difesa. Ma con scarsi risultati. 

Il primo documento dedicato specificamente al problema era stato una lettera ai vescovi inviata nel 1908 dalla Sacra Congregazione degli Studi a nome di papa Pio X. Ma chi prese davvero a cuore la questione, tanto che suoi sono i documenti cui maggiormente attinge la Veterum sapientia, fu Pio XI. Riprendendo una analogia già sostenuta da Leone XIII e da Benedetto XV, egli estende la custodia del deposito della fede alla custodia della sua forma latina, con l’esplicita citazione della Prima Lettera a Timoteo (6,20). 
Infatti dice che il latino è connesso a tal punto con la vita della Chiesa da riguardare non tanto la cultura e lettere ma la religione. E più volte negli atti del suo pontificato ricorre accorata l’affermazione tradizionale che il latino è come la madre lingua per la Chiesa e che pertanto l’ignoranza di questa lingua segnala una certa quale mancanza di amore alla Chiesa (cfr. le epistole Officiorum omnium del 1922 e The Sacred Congregation, della Sacra Congregazione dei Seminari, del 1928). 

Con tutto ciò l’abbandono del latino cresce con la guerra, ma con la guerra viene anche inevitabilmente dilazionato a tempi più adatti qualunque provvedimento. I tempi maturano durante il pontificato Giovanni XXIII, cultore egli stesso dei Padri latini, come si può leggere in più pagine del suo Giornale dell’anima: «Voglio rileggere il De civitate Dei di sant’Agostino» scriveva quando era delegato apostolico proprio nei giorni della guerra (25-31 ottobre 1942) «e farmi di quella dottrina succo e sangue per giudicare tutto solo e in faccia a chi si accosta al mio ministero con sapienza che illumina e conforta». 

E poi ormai da papa, nel 1961: 
«L’esercizio della parola che vuole essere sostanziosa e non vana mi fa desiderare un accostamento maggiore a quanto scrissero i grandi pontefici dell’antichità. In questi mesi mi tornano familiari san Leone Magno e Innocenzo III. Purtroppo pochi ecclesiastici si curano di loro che sono ricchi di tanta dottrina teologica e pastorale. Non mi stancherò di attingere a queste sorgenti così preziose di scienza sacra e di alta e deliziosa poesia».

L’avvicinarsi di speranze di pace e, insieme, del Concilio, convocato col desiderio di un ritorno anche della Chiesa alla sua piena pace e unità, non senza timore, peraltro, per un’assemblea così composita, faceva sentire con più forza a papa Giovanni in particolare il valore universale e unificante della lingua latina (tema anche questo esplicitato per primo da Pio XI). 

Papa Giovanni espresse questa sua sollecitudine fin dall’inizio del suo pontificato e la ripeté nel discorso dell’udienza di presentazione della Veterum sapientia: «Piace qui ricordare l’importanza e il prestigio di questa lingua nel presente momento storico, in cui insieme con una più sentita esigenza di unità e di intesa fra tutti i popoli, non mancano tuttavia espressioni di individualismo. La lingua di Roma usata nella Chiesa di rito latino, particolarmente fra i suoi sacerdoti di diversa origine, può ancora oggi rendere nobile servizio all’opera di pacificazione e unificazione. Lo può rendere anche ai nuovi popoli che si affacciano fiduciosi alla vita internazionale. Essa infatti non è legata agli interessi di alcuna nazione, è fonte di chiarezza e di sicurezza dottrinale, è accessibile a quanti abbiano compiuto studi medi e superiori; e soprattutto è veicolo di comprensione».

Ma forse la causa prossima della Veterum sapientia va rintracciata anche in una contingenza del tutto marginale, diremmo oggi a quarant’anni di distanza: la riforma della scuola media inferiore che in Italia di lì a poco avrebbe relegato il latino a materia facoltativa. S
ignificativo per non dire rivelativo, è quanto scriveva Ezio Franceschini nella Rivista del clero italiano di quel fatidico 1962: «Del tutto particolare è stato l’interesse con cui la costituzione è stata accolta in Italia: essa infatti è venuta ad inserirsi, con il peso di un’autorità immensa, sulla polemica che infuria circa l’utilità del latino da quando il suo insegnamento si prospetta come facoltativo e opzionale nella nuova “scuola media unificata” che accoglierà i giovanetti italiani dagli 11 ai 14 anni. Sua santità Giovanni XXIII si rivolge naturalmente e dà disposizioni soltanto alle scuole ecclesiastiche e religiose di ogni ordine e grado: ma le osservazioni che fa sul valore della lingua latina, sia come strumento di formazione intellettuale, sia come mezzo di comunicazione universale, hanno un significato che va ben al di là del territorio cui il discorso è rivolto». 

Si pensò probabilmente che magnificare le doti del latino sul piano della storia e della cultura e prescriverne l’uso e lo studio con un documento vergato con solennità avrebbe potuto manifestare quale fosse la determinazione con cui la Chiesa intendeva difendere il latino a tutto campo, quale «tesoro di incomparabile valore», e magari scongiurare quella riforma. 

Numerosi commenti, specialistici e non, venivano a confermare l’opportunità della Veterum sapientia e il suo sicuro successo. Benedetto Riposati, con più enfasi che lungimiranza, scriveva su Vita e pensiero: «La Chiesa offre un mirabile esempio di rispetto delle tradizioni culturali e umanistiche, che richiama a base della formazione intellettuale e spirituale delle giovani generazioni, e predice, consiglia, impone la lingua latina quale efficacissimo, insostituibile mezzo di codesta saggia finalità. Né fallirà al fine». Fiorenzo Romita su Monitor ecclesiasticus di quello stesso 1962 affermava soddisfatto che, a norma dell’articolo 2 della Veterum sapientia, ormai non si poteva che parlare in favore (pro) di quanto prescritto dalla nuova costituzione, nessuno avrebbe più potuto parlare, neanche per i più nobili motivi, contro (contra). Ma poi l’ultimo rigo del suo commento, che in lungo e in largo aveva legittimato principi e norme della Veterum sapientia, riconosceva lapidariamente che il problema andava ben oltre il parlare. All’attuazione della costituzione e delle Ordinationes infatti «obiectivae difficultates eaeque gravissimae obstabunt» (per chi non sa il latino: faranno ostacolo difficoltà obiettive e per di più estremamente serie). 
Giusto La Civiltà Cattolica si distingueva, riportando in italiano la sola parte precettiva della Veterum sapientia accompagnata dalle parole del Papa, e senza alcun commento: un modo come un altro per commentare.

In realtà di lì a poco la Chiesa non riuscì a conservare il latino nemmeno entro i suoi confini. Tutti oggi, a quarant’anni di distanza, sanno che fine ha fatto il latino, non nella scuola media italiana o nei ginnasi tedeschi, ma nel cuore della liturgia e della fede della Chiesa, e proprio lo scarto fra le disposizioni indiscutibili della Veterum sapientia e il risultato discutibilissimo fa scintille. 
    Cosa mai pretendeva quella costituzione per avere ottenuto un risultato così difforme dai suoi dichiarati intenti? In realtà non pretendeva niente altro che l’osservanza di ciò che già era prescritto. Ma quell’osservanza già da tempo era impraticabile. Il problema non sta nel documento, ma nei tempi cambiati. Anche giudicare il tempo fa parte dei consigli evangelici.
Giovanni XXIII impartisce la benedizione “Urbi et orbi”

Giovanni XXIII impartisce la benedizione “Urbi et orbi”

Le due parti 
della Veterum sapientia

Il documento, assai breve, si compone di due parti ben distinte. Una prima in cui si tessono le lodi della lingua latina. Tanto per la sua storia che per la sua struttura, si dice, essa è stata sempre esaltata e raccomandata allo studio e all’uso dai pontefici e dai sinodi precedenti.          La lingua latina infatti ha provvidenzialmente accompagnato la propagazione del cristianesimo nell’Occidente; è universale, immutabile, piena di maestà; è la porta d’accesso alle verità trasmesse dalla Tradizione; ha grande efficacia formativa. 

Rispetto a questa prima parte espositiva si può forse dire, col senno del poi (ma padre Urbano Navarrete scriveva a caldo nel 1962 più o meno le stesse cose su Periodica de re canonica), che non giovò mettere insieme senza alcun ordine gerarchico motivazioni di diversa importanza e fondatezza. 
     Non teme smentite infatti l’affermazione che la lingua latina è «quasi una porta che mette tutti a diretto contatto con le cristiane verità tramandate dalla Tradizione [oggi che non si passa più da quella porta “le cristiane verità tramandate dalla Tradizione” sono diventate “la verità”] e con i documenti dell’insegnamento della Chiesa; e un vincolo efficacissimo che ricollega con mirabile continuità la Chiesa di oggi con quella di ieri e di domani». 
     Mentre molto più opinabile e secondaria è la perfetta congruità della lingua latina a «promuovere ogni forma di cultura presso qualsiasi popolo» o l’«efficacia tutta speciale che hanno sia la lingua latina sia in generale la cultura umanistica nello sviluppare e formare le tenere menti dei giovani». 



Al termine della prima parte si trova introdotta la seconda: infatti, proprio perché «l’uso del latino viene ai nostri giorni messo in più luoghi in discussione», la seconda parte viene deputata a contenere provvedimenti per la rinascita dello studio e dell’uso del latino. In otto punti vengono emanate norme di cui alcune immediatamente efficaci (si fa per dire), altre che attendevano di essere seguite da specifici atti esecutivi a carico della Sacra Congregazione dei Seminari: le norme 8 e 6. 

Il documento in effetti fu seguito, in data 22 aprile 1962, da Ordinationes (Ordinamento degli studi) che nel giugno successivo furono inviate ai vescovi e ai rettori delle università e facoltà ecclesiastiche: sarebbero dovute entrare in vigore col primo giorno dell’anno accademico 1963-64. 

Estremamente dettagliate (forniscono in appendice finanche un elenco di testi patristici dai quali attingere brani in latino e greco e la traccia della relazione che si sarebbe dovuta inviare annualmente per i primi cinque anni alla Congregazione) tali Ordinationes si aprono però colla constatazione di «quanto difficile e faticoso sia attuare questa importantissima e necessaria disposizione, sia per la presente infelice condizione dello studio e dell’uso della lingua latina, sia per concomitanti circostanze di luoghi, tempi e persone». Tanto che è prevista al cap. VIII § 2 una serie di norme transitorie per facilitare un’applicazione graduale. In effetti, mentre ufficialmente il terzo fascicolo del 1962 di Seminarium, la rivista della Congregazione, riporta l’elenco delle adesioni di eminenti ecclesiastici e delle maggiori università e facoltà ecclesiastiche, ufficiosamente si sa che fioccarono proteste di moltissimi vescovi e minacce di dimissioni così numerose da parte dei professori che anche le maggiori università si sarebbero trovate nell’impossibilità di offrire i corsi se si fosse applicato il nuovo Ordinamento degli studi. Così la Congregazione fu costretta a soprassedere, chiudendo non un occhio ma tutti e due. 

A due anni di distanza dalla Veterum sapientia poi, in ottemperanza all’articolo 6 che prevedeva la creazione di un Istituto accademico di lingua latina, Paolo VI, succeduto nel frattempo a Giovanni XXIII, col motu proprio Studia latinitatis del 22 febbraio 1964 erigeva presso il Pontificio Ateneo Salesiano il Pontificium Institutum Altioris Latinitatis. Pur essendo nato già macilento per mancanza di materia prima, pur essendosi illanguidito fino al punto quasi da estinguersi negli anni Settanta, pur avendo formalmente e sostanzialmente cambiato nome e finalità, di tutti i propositi della Veterum sapientia è questo l’unico a essere ancora in piedi. 
Affidato alla Società Salesiana è oggi guidato da un preside umile, un siciliano autoironico e cordiale che affronta con passione e allo stesso tempo con il sorriso sulle labbra l’impresa impossibile di far studiare e amare una lingua che non importa nemmeno a chi di dovere sia studiata e amata. Un’armatura leggera è l’unica difesa, a volte. 

LAUDETUR JESUS CHRISTUS

venerdì 4 agosto 2017

Prof. Roberto de Mattei / Latino e Chiesa Cattolica

De Mattei: latino e Chiesa cattolica, binomio inscindibile.

Il prof. de Mattei ha affrontato un argomento che, potremmo dire, è coessenziale al nome stesso del nostro blog: Il latino, lingua liturgica della Chiesa e della Cattolicità.

La tesi dello storico, sostenuta con dovizia di riferimenti documentali  che qui, ovviamente, non possiamo riportare, è che la lingua latina sia costitutiva della stessa liturgia cristiana: non, quindi, elemento accidentale che può essere tranquillamente abrogato o modificato.

E' vero che la prima liturgia cristiana fu espressa nel greco della koiné, ma fin dai primi secoli a Roma l'utilizzo del latino si diffonde, secondo quanto possiamo ricostruire dai resti epigrafici.

Papa San Damaso, nel IV secolo, benché spagnolo di nascita, rafforzò la romanità, nelle sue due articolazioni: da un lato la petrinitas, cioè il primato del romano pontefice, dall'altro la latinitas, ossia la romanità della Chiesa . A lui si deve l'adozione della lingua latina come lingua universale della Chiesa, che esprime una rinnovata Weltanschauung della Chiesa.

Quando Teodosio il Grande vinse la battaglia del Frigido contro i pagani barbari, si saldò definitivamente l'unione tra il romano impero e la Fede cristiana. Fino alla riforma liturgica, si continuò quindi a pregare per il romanus imperator, anche se il Sacro Romano Impero era stato dissolto nel 1806 e la stessa casa di Asburgo, che aveva per secoli cinto il serto imperiale, era decaduta nel 1918.

La liturgia della Chiesa non nasce nel IV-V secolo, ma in quel tempo essa fu codificata in stretta aderenza al traditum: in un rescritto del 416 Innocenzo I attesta come la Liturgia romana rappresentava l'antico costume fedelmente conservato. E' la tradizione di sempre, però romanamente sfrondata delle ampollosità che in Oriente ebbero tanto successo.

Il latino arrivò con la fede là dove le legioni romane non misero mai piede, come in Irlanda: ecco la risposta migliore contro chi crede che la Fede si sia inculturata nella latinità, e non viceversa. Le genti irlandesi non parlavano affatto il latino, e l'evangelizzazione avvenne in gaelico, ma accolsero la liturgia nella sua pura forma latina, la fecero propria e la difesero nei secoli contro le più dure persecuzioni.

Lungi dall'inculturarsi nella (inesistente) latinità irlandese, la Fede trapiantò la latinità nell'Irlanda e da là, grazie ai 40 benedettini irlandesi, si diffuse alla Scozia e pure in Inghilterra a sud del Vallo di Adriano, dove era quasi estinto perfino il ricordo dell'Impero romano. Da lì, ulteriormente, in Germania, altro territorio ove le legioni erano state fermate nella selva di Teutoburgo e la latinità romana non era prima pervenuta.

Il greco ambì a divenire come il latino lingua universale, a causa del nazionalismo del patriarcato di Costantinopoli. Il patriarca ambiva a soppiantare il Papa, sul rilievo del primato politico della Seconda Roma (Costantinopoli) rispetto alla decaduta Roma che non aveva più imperatori. Ma in Oriente il Patriarca era soggetto al cesaropapismo imperiale e non valeva molto di un funzionario imperiale. Il greco scomparve gradualmente, poi, per effetto delle invasioni musulmane.

Quando l'Impero romano rinacque con Carlo Magno, la latinitas riassunse anche un ruolo politico di unificazione; e quando nel Basso Medioevo iniziarono a diffondersi le lingue nazionali, l'uso del latino non declinò, e restò la lingua internazionale fino al XVIII secolo, la lingua della Chiesa, della scienza, della diplomazia.

Vi è una necessità, sia pure storia e non metafisica, di relazione tra il cattolicesimo e la lingua latina. Quel binomio che il padre Chénu, alla vigilia del Concilio, si proponeva di spezzare eliminando il latino dalla vita della Chiesa. Il movimento liturgico pure auspicava un rinnovamento in tal senso in nome di una maggior partecipazione dei fedeli alla liturgia. Ma a questi aneliti rispondeva Giovanni XXIII con la Veterum Sapientia, promulgata con la massima solennità (il giorno della Cattedra di Pietro, in San Pietro, davanti a numerosi cardinali e vescovi), che alla vigilia del Concilio, e come ad orientarne gli esiti, chiedeva non solo di conservare l'uso del latino, ma di incrementarne e restaurarne l'utilizzo. Il documento riconosce che la Chiesa ha necessità di una sua lingua propria, non nazionale ma universale, sacra e non ordinaria e volgare, e dal significato univoco e non mutevole nel tempo, per trasmettere la medesima dottrina: unica, per il suo governo, e sacra, per il suo rito. La Chiesa, ontologicamente immutabile, non può affidare alla fluttuazione linguistica la trasmissione delle sue Verità.

E' significativo che anche il codice canonico per le chiese orientali sia sempre stato in lingua latina.

Nessun'altra lingua al mondo possiede del latino le caratteristiche di universalità e, al tempo stesso, di essere aliena ai nazionalismi. La massoneria internazionale da sempre ricerca una società perfetta che parli un'unica lingua ed ha escogitato l'esperanto, però miseramente fallito; mai ha pensato di utilizzare allo stesso fine il latino, per odio alla Chiesa.

L'uso della lingua volgare è una caratteristica di tutte le eresie di questo millennio, a cominciare da quella catara.

L'intervento del prof. de Mattei è stato interrotto a questo punto dall'arrivo dal card. Castrillòn Hoyos, che è stato accolto da un calorosissimo applauso.

Ricorda la Genesi che la divisione delle lingue è conseguenza del peccato degli uomini. Gli Apostoli necessariamente evangelizzarono in tutte le lingue, ma il giorno di Pentecoste lo Spirito riportò tutti alla compresione unitaria delle lingue: logico quindi che la Chiesa di Dio si serva di un'unica lingua per tutti. La lingua latina, ricordava Giovanni XXIII, fu scelta dalla Provvidenza come lingua della Chiesa, portata ovunque dalle antiche vie consolari. L'unità linguistica resta un modello e un ideale; e se nella predicazione è giocoforza utilizzare la lingua vernacola, il rito e la liturgia richiedono l'unica lingua sacra. Fu un grave errore del postconcilio che la Chiesa si facesse immanente al mondo rinunziando alla sua lingua, proprio quando l'incipiente mondializzazione avrebbe richiesto un gesto in senso esattamente contrario.

Oggi la Chiesa dovrebbe riaffermare la sua romanitas latinitas; e in esse trova pieno spazio il rito romano antico riportato alla Chiesa dal motu proprio Summorum Pontificum. Ricordando che Pio XII scriveva che il sacerdote che misconoscesse il latino era afflitto da una "deplorevole miseria intellettuale".
AMDG et BVM

giovedì 29 ottobre 2015

Il latino, vincolo di unità tra popoli e culture

 ottobre 2015

L'evoluzione storica della lingua liturgica nel rito romano.
L'autore di questo articolo, Padre Uwe Michael Lang, già Officiale della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, ora è membro dell’oratorio di San Filippo Neri a Londra. [vedi anche il suo magistrale intervento al primo Convegno su il Motu Proprio Summorum Pontificum - Una ricchezza spirituale per tutta la Chiesa, Roma 16-18- settembre 2008 e Tamquam cor in pectore: Il Tabernacolo sull'Altare maggiore].
Lo ricordiamo anche come autore del libro Rivolti al Signore [vedi qui la Prefazione del card. Ratzinger]

L'unità culturale e politica del mondo mediterraneo fu un fattore provvidenziale nella diffusione della fede cristiana. In particolare, la diffusione della lingua greca nei centri urbani dell'Impero Romano favorì l'annuncio del Vangelo. Il greco parlato a Oriente e Occidente non era l'idioma classico, bensì la koiné semplificata, il linguaggio comune delle varie nazioni della parte orientale del mondo mediterraneo: Grecia, Asia Minore, Siria, Palestina ed Egitto.

La koiné greca era anche la lingua del proletariato urbano in Occidente che vi era emigrato dai territori orientali dell'Impero. Roma era divenuta una città multi-etnica e multi-culturale. In essa viveva anche una consistente popolazione ebraica, che sembra parlasse principalmente il greco. La lingua delle prime comunità cristiane a Roma era il greco. Ciò risulta evidente dalla Lettera ai Romani di Paolo e dalle prime opere letterarie cristiane che videro la luce a Roma, per esempio laPrima Lettera di Clemente, il Pastore di Erma e gli scritti di Giustino.

Nei primi due secoli si avvicendarono parecchi papi con nomi greci e le iscrizioni tombali cristiane erano composte in greco. Durante questo periodo, greca era anche la lingua comune della liturgia romana. 

Lo spostamento verso il latino non cominciò a Roma, ma nell'Africa settentrionale, dove i convertiti al cristianesimo erano in maggioranza nativi di lingua madre latina piuttosto che immigrati greco parlanti. Verso la metà del terzo secolo questa transizione era molto avanzata: membri del clero romano scrivevano a Cipriano di Cartagine in latino; latina era anche la lingua in cui Novaziano compose il suo De trinitate e altre opere, citando una versione latina esistente della Bibbia. Nessun riferimento si fa qui alla cosiddetta Traditio Apostolica, attribuita a Ippolito da Roma, a causa dell'incertezza sulla data, sull'origine e sul vero autore. 

Sembrerebbe che nella seconda metà del terzo secolo il flusso immigratorio dall'Oriente verso Roma diminuisse. Questo cambio demografico comportò un peso crescente dei nativi latino parlanti nella vita della Chiesa di Roma. Ciò nonostante il greco continuò ad essere usato nella liturgia romana, almeno a un certo livello, fino alla seconda metà del IV secolo; questo si evince da una citazione greca della preghiera eucaristica nell'autore latino Mario Vittorino, risalente al 360. 

Intorno a quell'epoca, comunque, la transizione al latino era in fase molto avanzata; ciò risulta molto evidente da un autore altrimenti sconosciuto che scrive fra il 374 e il 382, il quale sostiene che la preghiera eucaristica a Roma si riferisce a Melchisedek come summus sacerdos - un titolo che ci suona familiare dal più tardo Canone della messa.

La più importante risorsa per la storia della prima liturgia latina è Ambrogio di Milano. Nel suo De sacramentis, una serie di catechesi per i neo battezzati tenute intorno al 390, egli cita estesamente la preghiera eucaristica usata a quell'epoca a Milano. I passaggi citati sono le forme più antiche delle preghiere Quam oblationemQui pridieUnde et memoresSupra quae, e Supplices te rogamus del Canone Romano. Altrove, nel De sacramentis, Ambrogio sottolinea il suo desiderio di seguire l'uso della Chiesa romana in tutto; per questa ragione, possiamo ritenere con certezza che questa preghiera eucaristica fosse di origine romana. Anche nei sermoni di Zeno, vescovo di Verona dal 362 al 372, ci sono tracce che attestano la diffusione geografica di questa forma originaria del Canone Romano.

La formulazione letterale delle preghiere citate da Ambrogio non è sempre identica al Canone che Gregorio Magno promulgò alla fine del VI secolo ed è giunto fino a noi con poche modifiche di scarso rilievo rispetto ai libri liturgici più antichi, specialmente il vecchio Sacramentario Gelasiano, risalente alla metà dell'VIII secolo, ma ritenuto eco di usi liturgici più antichi. 

In ogni caso le differenze fra questi due testi sono di gran lunga inferiori alle loro somiglianze, dato che i quasi trecento anni intercorrenti fra di essi furono un periodo di intenso sviluppo liturgico.

Il passaggio dal greco al latino nella liturgia romana avvenne gradualmente e fu completato sotto il pontificato di Damaso I (366-384). Da allora in poi la liturgia a Roma fu celebrata in latino, con l'eccezione di poche reminiscenze dell'uso più antico, come il Kyrie eleison nell'Ordo e le letture in greco nella messa papale.

Stando a Ottato di Milevi, che scrive intorno al 360, c'erano più di quaranta chiese a Roma prima dell'editto di Costantino. Se questa informazione è vera, sarebbe ragionevole opinare che ci fossero comunità latino parlanti nel III secolo, se non prima, che celebravano la liturgia in latino, in particolare la lettura della Sacra Scrittura. 

I Salmi erano stati cantati in latino sin dalle origini e l'antica versione usata nella liturgia aveva acquisito una tale aura di sacralità che Girolamo la corresse soltanto con molta cautela. In seguito egli tradusse il Salterio dall'ebraico non per uso liturgico, come disse, ma per fornire un testo agli studiosi e al dibattito. Christine Mohrmann suggerisce che la liturgia battesimale fosse tradotta in latino sin dal II secolo. Nessuna certezza si può avere su questi punti, ma è chiaro che ci fu un periodo di transizione e che esso fu lungo.
Mohrmann introduce una distinzione utile fra, primo, "testi di preghiera", dove la lingua è soprattutto un mezzo di espressione, secondo, testi "destinati a essere letti, l'Epistola e il Vangelo", e, terzo, "testi confessionali", come il credo. Nei testi di preghiera ci troviamo di fronte a modi di esprimersi; negli altri primariamente a forme di comunicazione.
Recenti ricerche su lingua e rito, come l'opera di Catherine Bell, confermano l'intuizione di Mohrmann che la lingua ha differenti funzioni in differenti parti della liturgia, che vanno oltre la mera comunicazione o informazione. Queste riflessioni teoretiche ci aiutano a capire lo sviluppo della prima liturgia romana: quelle parti in cui gli elementi di comunicazione erano prevalenti, come la lettura delle Scritture, furono tradotte prima, mentre la preghiera eucaristica continuò ad essere recitata in greco per un periodo molto più lungo. 

La "sociolinguistica" - una disciplina accademica relativamente nuova - ci mette in guardia sul fatto che la scelta di una lingua rispetto a un'altra non è mai questione neutrale o trasparente. Di conseguenza è importante considerare il cambio dal greco al latino nella liturgia romana nei suoi contesti storici, sociali e culturali.

Gli storici dell'antichità hanno indicato che la formazione di lingua latina liturgica fece parte di uno sforzo a largo raggio di cristianizzazione della cultura e della civiltà romana.

Nella seconda metà del IV secolo i vescovi più influenti in Italia, soprattutto Damaso a Roma e Ambrogio a Milano, erano impegnati a cristianizzare la cultura dominante dei loro giorni. Nella città di Roma c'era una forte presenza pagana e specialmente l'aristocrazia continuava ad aderire ai vecchi costumi, anche se nominalmente erano divenuti cristiani. Roma non era più il centro del potere politico, ma la sua cultura continuava ad avere radici nella mentalità delle sue élites. 

Il IV secolo è ora considerato un periodo di rinascimento letterario, con un rinnovato interesse per i "classici" della poesia e della prosa romane. Gli imperatori del IV secolo coltivarono questaLatinitas, e ci fu una riscoperta del latino anche ad Oriente. Con tenacia caratteristica, Roma mantenne le sue antiche tradizioni. 

In relazione a ciò, i papi del tardo IV secolo promossero un progetto consapevole e comprensivo di appropriazione dei simboli della civiltà romana da parte della fede cristiana. Parte di questo tentativo fu l'appropriazione di spazio pubblico tramite impegnativi progetti edilizi. Dopo che gli Imperatori della dinastia di Costantino avevano dato il via con le monumentali basiliche del Laterano e San Pietro, come pure con le basiliche dei cimiteri fuori delle mura urbane, i papi continuarono questo programma edilizio che avrebbe trasformato Roma in una città dominata da chiese.
Il progetto più prestigioso fu la costruzione di una nuova basilica dedicata a San Paolo sulla Via Ostiense, sostituendo il piccolo edificio costantiniano con una nuova chiesa simile per dimensioni a San Pietro. Un altro aspetto importante fu l'appropriazione del tempo pubblico con un ciclo di feste cristiane lungo il corso dell'anno al posto delle celebrazioni pagane (vedi il calendario Filocalianodell'anno 354). La formazione del latino liturgico fece parte di questo sforzo onnicomprensivo di evangelizzare la cultura classica.
Christine Mohrmann ravvisa in essa il fortuito combinarsi di un rinnovamento della lingua, ispirato dalla novità della rivelazione, e di un tradizionalismo stilistico fermamente radicato nel mondo romano. Il latino liturgico ha la gravitas romana ed evita l'esuberanza dello stile di preghiera dell'Oriente cristiano, che si ritrova anche nella tradizione gallicana. Questa non fu un'adozione della lingua "vernacola" nella liturgia, dato che il latino del Canone Romano, delle collette e dei prefazi della messa, fu rimosso dall'idioma della gente comune. Essa era una lingua fortemente stilizzata che difficilmente avrebbe capito un cristiano medio di Roma della tarda antichità, considerato specialmente che il livello di istruzione era molto basso rispetto ai nostri tempi. Inoltre lo sviluppo della Latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Milano o Roma, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l'iberico o il punico. 

È possibile immaginare una Chiesa occidentale con lingue locali nella sua liturgia, come in Oriente, dove, in aggiunta al greco, erano usati il siriano, il copto, l'armeno, il georgiano e l'etiope.

Ad ogni modo la situazione in Occidente era fondamentalmente differente; la forza unificatrice del papato era tale che il latino divenne l'unica lingua liturgica. Questo fu un fattore importante per favorire la coesione ecclesiastica, culturale e politica.

Il latino liturgico fu sin dai primordi una lingua sacra separata dalla lingua del popolo; tuttavia la distanza divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di missione. 

"La prima opposizione al latino liturgico - ha scritto Christine Mohrmann - coincise con la fine del latino medievale come "seconda lingua viva", che fu rimpiazzato da una lingua veramente "morta", il latino degli umanisti. E l'opposizione dei nostri giorni al latino liturgico ha qualcosa a che fare con l'indebolimento dello studio del latino - e con la tendenza al "secolarismo"" ("The Ever-Recurring Problem of Language in the Church", in Études sur le latin des chrétiens, IV, Roma, 1977). 

Il Concilio Vaticano II volle risolvere la questione estendendo l'uso del vernacolo nella liturgia, soprattutto nelle letture (Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 2).

Allo stesso tempo, esso sottolineò che "l'uso della lingua latina ... sia conservato nei riti latini" (Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 1; cfr anche art. 54). I Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata rimpiazzata dal vernacolo.

La frammentazione linguistica del culto cattolico nel periodo post-conciliare si è spinta così oltre che la maggioranza dei fedeli oggi può a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma o a Lourdes.

In un'epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacola, come fa notare l'istruzione della Santa Sede Liturgiam authenticam del 2001.
Uwe Michael Lang
(©L'Osservatore Romano - 15 novembre 2007)

mercoledì 3 giugno 2015

Che fine ha fatto la lingua liturgica dell'Occidente

Che fine ha fatto la lingua liturgica dell'Occidente?




Vi riporto senza commento (ma ce ne sarebbero di commenti da fare....) l'articolo del prof. Lang sulla lingua liturgica della Chiesa d'Occidente, che l'autore "osa" inserire nella categoria di "lingua sacra" (mi immagino appena l'orrore dei liturgisti di scuola contemporanea per questa blasfèmia degna di condanna a morte....). Recuperando comunque ovvie e naturali categorie antropologiche, sociologiche oltre che teologiche, il prof. Lang ci offre in condensato una lode del latino liturgico e delle sue virtù (che nessun Concilio ha mai pensato neanche lontanamente di debellare.... ma tant'è siamo arrivati dove siamo arrivati). 
Speriamo che anche questo semplice, ma incisivo articolo, possa essere un'ennesima goccia che scava la roccia (o meglio il cranio più duro della roccia dei liturgisti difensori strenui della "Sacra e immutabile Tradizione degli ultimi 40 anni"). Interessantissimo il modo con cui il padre Lang smonta, senza nominarle, alcuni dei pretestuosi e sempre ripetuti argomenti contro la reintroduzione del latino nella liturgia. In particolare fa capire, senza dirlo, che dopo anni e anni di memorizzazione dei testi nelle diverse lingue vernacole, non siamo nella condizione del pre-Concilio. 
Tutti i frequentatori della Messa domenicale sanno benissimo il Gloria, il Credo, il Santo e tutte le risposte e perfino le preghiere eucaristiche nella propria lingua. Non dovrebbero perciò aver alcun problema nel comprendere cosa "si dice" in latino! Tanto più che con un semplice foglietto possono seguire agevolmente, anche se di lingue madri diverse, la stessa liturgia cattolicamente latina.... E così un po' di commento preventivo ce l'ho messo!
Un grazie a Zenit che ci dà l'opportunità di leggere questo bell'articolo.



LA LINGUA DELLA CELEBRAZIONE LITURGICA
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di Padre Uwe Michael Lang. Officiale della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.

La lingua non è soltanto uno strumento che serve per comunicare fatti, e deve farlo nel modo più semplice ed efficiente, ma è anche il mezzo per esprimere la nostra mens in un modo che coinvolga tutta la persona. Di conseguenza, la lingua è anche il mezzo in cui si esprimono i pensieri e le esperienze religiosi.

La lingua adoperata nel culto divino, ovvero la “lingua sacra” non si spinge fino alla glossolalia (cf 1Cor 14) o al mistico silenzio, escludendo completamente la comunicazione umana, o almeno tentando di farlo. 

Tuttavia, si riduce l’elemento della comprensibilità a favore di altri elementi, in particolare quello espressivo. Christine Mohrmann, la grande storica del latino dei cristiani, afferma che la lingua sacra è un modo specifico di “organizzare” l’esperienza religiosa. Infatti, la Mohrmann sostiene che ogni forma di credere nella realtà soprannaturale, nell’esistenza di un essere trascendente, conduce necessariamente all’adozione di una forma di lingua sacra nel culto, mentre un laicismo radicale porta a respingere ogni forma di essa. 

In tal senso, il Cardinale Albert Malcolm Ranjith ha ricordato in un’intervista: «L’uso di una lingua sacra è tradizione in tutto il mondo. Nell’Induismo la lingua di preghiera è il sanscrito, che non è più in uso. Nel Buddismo si usa il Pali, lingua che oggi solo i monaci buddisti studiano. Nell’Islam si impiega l’arabo del Corano. L’uso di una lingua sacra ci aiuta a vivere la sensazione dell’al-di-là» (La Repubblica, 31 luglio 2008, p. 42).

L’uso di una lingua sacra nella celebrazione liturgica fa parte di ciò che san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae chiama la solemnitas. Il Dottore Angelico insegna: «Ciò che si trova nei sacramenti per istituzione umana non è necessario alla validità del sacramento, ma conferisce una certa solennità, utile nei sacramenti a eccitare la devozione e il rispetto in coloro che li ricevono» (Summa Theologiae III, 64, 2; cf. 83, 4).

La lingua sacra, essendo il mezzo di espressione non solo degli individui, ma di una comunità che segue le sue tradizioni, è conservatrice: mantiene le forme linguistiche arcaiche con tenacia. Inoltre, vengono introdotti in essa elementi esterni, in quanto associazioni ad un’antica tradizione religiosa. Un caso paradigmatico è il vocabolario biblico ebraico nel latino usato dai cristiani (amen, alleluia, osanna ecc.), come ha osservato già sant’Agostino (cf. De doctrina christiana II, 34-35 [11,16]).

Lungo la storia, si è adoperata un’ampia varietà di lingue nel culto cristiano: il greco nella tradizione bizantina; le diverse lingue delle tradizioni orientali, come il siriaco, l’armeno, il georgiano, il copto e l’etiopico; il paleoslavo; il latino del rito romano e degli altri riti occidentali. In tutte queste lingue si trovano forme di stile che le separano dalla lingua “ordinaria” ovvero popolare. Spesso questo distacco è conseguenza degli sviluppi linguistici nel linguaggio comune, che poi non sono stati adottati nella lingua liturgica a causa del suo carattere sacro. Tuttavia, nel caso del latino come lingua della liturgia romana, un certo distacco è esistito sin dall’inizio: i romani non parlavano nello stile del Canone o delle orazioni della Messa. Appena il greco è stato sostituito dal latino nella liturgia romana, è stato creato come mezzo di culto un linguaggio fortemente stilizzato, che un cristiano medio della Roma della tarda antichità avrebbe capito non senza difficoltà. Inoltre, lo sviluppo della latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Roma o Milano, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l’iberico o il punico. Comunque, grazie al prestigio della Chiesa di Roma e la forza unificatrice del papato, il latino divenne l’unica lingua liturgica e così uno dei fondamenti della cultura in Occidente.

La distanza fra il latino liturgico e la lingua del popolo divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di missione. Questa situazione non favoriva la partecipazione dei fedeli nella liturgia e perciò il Concilio Vaticano II volle estendere l’uso del vernacolo, già introdotto in una certa misura nei decenni precedenti, nella celebrazione dei sacramenti (Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 2). Allo stesso tempo, il Concilio ha sottolineato che «l’uso della lingua latina […] sia conservato nei riti latini» (ibid., art. 36, n. 1; cf. anche art. 54). Comunque, i Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata totalmente sostituita dal vernacolo. 

La frammentazione linguistica del culto cattolico si è spinta così oltre, che molti fedeli oggi possono a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma e altrove. In un’epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. 

Senz’altro il latino contribuisce al carattere sacro e stabile «che attrae molti all’antico uso», come scrive il Santo Padre Benedetto XVI nella sua Lettera ai Vescovi, in occasione della pubblicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum (7 luglio 2007). Con l’uso più ampio della lingua latina, scelta del tutto legittima, ma poco usata, «nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità» (ibid.).

Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacolare, come fa notare con esemplare chiarezza l’Istruzione della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti sulla traduzione dei libri liturgici Liturgiam authenticam del 2001. Un frutto notevole di questa istruzione è la nuova traduzione inglese del Missale Romanum che verrà introdotta in molti paesi anglofoni nel corso di quest’anno.




Testo preso da: Che fine ha fatto la lingua liturgica dell'Occidente? http://www.cantualeantonianum.com/2011/02/che-fine-ha-fatto-la-lingua-liturgica.html#ixzz3bydaVyHk
http://www.cantualeantonianum.com 










lunedì 17 novembre 2014

Binomio inscindibile

Molto opportunamente offriamo ai lettori la sintesi della relazione del prof. De Mattei su Il latino,la lingua liturgica della Chiesa e della Cattolicità, tenuta a Roma in occasione del Convegno "Summorum Pontificum" del 14-15 maggio 2011 



De Mattei: latino e Chiesa cattolica, binomio inscindibile.

Il prof. de Mattei ha affrontato un argomento che, potremmo dire, è coessenziale al nome stesso del nostro blog [http://blog.messainlatino.it/]Il latino, lingua liturgica della Chiesa e della Cattolicità.

La tesi dello storico, sostenuta con dovizia di riferimenti documentali  che qui, ovviamente, non possiamo riportare, è che la lingua latina sia costitutiva della stessa liturgia cristiana: non, quindi, elemento accidentale che può essere tranquillamente abrogato o modificato.

E' vero che la prima liturgia cristiana fu espressa nel greco dellakoiné, ma fin dai primi secoli a Roma l'utilizzo del latino si diffonde, secondo quanto possiamo ricostruire dai resti epigrafici.

Papa San Damaso, nel IV secolo, benché spagnolo di nascita, rafforzò la romanità, nelle sue due articolazioni: da un lato lapetrinitas, cioè il primato del romano pontefice, dall'altro lalatinitas, ossia la romanità della Chiesa . A lui si deve l'adozione della lingua latina come lingua universale della Chiesa, che esprime una rinnovata Weltanschauung della Chiesa.

Quando Teodosio il Grande vinse la battaglia del Frigido contro i pagani barbari, si saldò definitivamente l'unione tra il romano impero e la Fede cristiana. Fino alla riforma liturgica, si continuò quindi a pregare per il romanus imperator, anche se il Sacro Romano Impero era stato dissolto nel 1806 e la stessa casa di Asburgo, che aveva per secoli cinto il serto imperiale, era decaduta nel 1918.

La liturgia della Chiesa non nasce nel IV-V secolo, ma in quel tempo essa fu codificata in stretta aderenza al traditum: in un rescritto del 416 Innocenzo I attesta come la Liturgia romana rappresentava l'antico costume fedelmente conservato. E' la tradizione di sempre, però romanamente sfrondata delle ampollosità che in Oriente ebbero tanto successo.

Il latino arrivò con la fede là dove le legioni romane non misero mai piede, come in Irlanda: ecco la risposta migliore contro chi crede che la Fede si sia inculturata nella latinità, e non viceversa. Le genti irlandesi non parlavano affatto il latino, e l'evangelizzazione avvenne in gaelico, ma accolsero la liturgia nella sua pura forma latina, la fecero propria e la difesero nei secoli contro le più dure persecuzioni.

Lungi dall'inculturarsi nella (inesistente) latinità irlandese, la Fede trapiantò la latinità nell'Irlanda e da là, grazie ai 40 benedettini irlandesi, si diffuse alla Scozia e pure in Inghilterra a sud del Vallo di Adriano, dove era quasi estinto perfino il ricordo dell'Impero romano. Da lì, ulteriormente, in Germania, altro territorio ove le legioni erano state fermate nella selva di Teutoburgo e la latinità romana non era prima pervenuta.

Il greco ambì a divenire come il latino lingua universale, a causa del nazionalismo del patriarcato di Costantinopoli. Il patriarca ambiva a soppiantare il Papa, sul rilievo del primato politico della Seconda Roma (Costantinopoli) rispetto alla decaduta Roma che non aveva più imperatori. Ma in Oriente il Patriarca era soggetto al cesaropapismo imperiale e non valeva molto di un funzionario imperiale. Il greco scomparve gradualmente, poi, per effetto delle invasioni musulmane.

Quando l'Impero romano rinacque con Carlo Magno, la latinitasriassunse anche un ruolo politico di unificazione; e quando nel Basso Medioevo iniziarono a diffondersi le lingue nazionali, l'uso del latino non declinò, e restò la lingua internazionale fino al XVIII secolo, la lingua della Chiesa, della scienza, della diplomazia.

Vi è una necessità, sia pure storia e non metafisica, di relazione tra il cattolicesimo e la lingua latina. Quel binomio che il padre Chénu, alla vigilia del Concilio, si proponeva di spezzare eliminando il latino dalla vita della Chiesa. Il movimento liturgico pure auspicava un rinnovamento in tal senso in nome di una maggior partecipazione dei fedeli alla liturgia. Ma a questi aneliti rispondeva Giovanni XXIII con la Veterum Sapientia, promulgata con la massima solennità (il giorno della Cattedra di Pietro, in San Pietro, davanti a numerosi cardinali e vescovi), che alla vigilia del Concilio, e come ad orientarne gli esiti, chiedeva non solo di conservare l'uso del latino, ma di incrementarne e restaurarne l'utilizzo. Il documento riconosce che la Chiesa ha necessità di una sua lingua propria, non nazionale ma universale, sacra e non ordinaria e volgare, e dal significato univoco e non mutevole nel tempo, per trasmettere la medesima dottrina: unica, per il suo governo, e sacra, per il suo rito. La Chiesa, ontologicamente immutabile, non può affidare alla fluttuazione linguistica la trasmissione delle sue Verità.

E' significativo che anche il codice canonico per le chiese orientali sia sempre stato in lingua latina.

Nessun'altra lingua al mondo possiede del latino le caratteristiche di universalità e, al tempo stesso, di essere aliena ai nazionalismi. La massoneria internazionale da sempre ricerca una società perfetta che parli un'unica lingua ed ha escogitato l'esperanto, però miseramente fallito; mai ha pensato di utilizzare allo stesso fine il latino, per odio alla Chiesa.

L'uso della lingua volgare è una caratteristica di tutte le eresie di questo millennio, a cominciare da quella catara.


L'intervento del prof. de Mattei è stato interrotto a questo punto dall'arrivo dal card. Castrillòn Hoyos, che è stato accolto da un calorosissimo applauso.

Ricorda la Genesi che la divisione delle lingue è conseguenza del peccato degli uomini. Gli Apostoli necessariamente evangelizzarono in tutte le lingue, ma il giorno di Pentecoste lo Spirito riportò tutti alla compresione unitaria delle lingue: logico quindi che la Chiesa di Dio si serva di un'unica lingua per tutti. La lingua latina, ricordava Giovanni XXIII, fu scelta dalla Provvidenza come lingua della Chiesa, portata ovunque dalle antiche vie consolari. L'unità linguistica resta un modello e un ideale; e se nella predicazione è giocoforza utilizzare la lingua vernacola, il rito e la liturgia richiedono l'unica lingua sacra. Fu un grave errore del postconcilio che la Chiesa si facesse immanente al mondo rinunziando alla sua lingua, proprio quando l'incipiente mondializzazione avrebbe richiesto un gesto in senso esattamente contrario.

Oggi la Chiesa dovrebbe riaffermare la sua romanitas latinitas; e in esse trova pieno spazio il rito romano antico riportato alla Chiesa dal motu proprio Summorum Pontificum. Ricordando che Pio XII scriveva che il sacerdote che misconoscesse il latino era afflitto da una "deplorevole miseria intellettuale".

Lunga standing ovation finale.
Enrico

"San Michele Arcangelo, difendici nella battaglia contro le insidie e la malvagità del demonio e sii nostro aiuto.

Te lo chiediamo supplici che il Signore lo comandi.

E tu, principe della milizia celeste, con la potenza che ti viene da Dio, ricaccia nell'inferno Satana e gli altri spiriti maligni, che si aggirano per il mondo a perdizione della anime. Amen."