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venerdì 17 novembre 2017

VIVA LA TRADIZIONE


AUTORITARIA E' SEMPRE LA RIVOLUZIONE, 
MAI LA TRADIZIONE.
Editoriale di "Radicati nella fede" - Anno X n° 11 - Novembre 2017

 Solitamente, nell'immaginario collettivo anche cattolico, la Tradizione viene affiancata a una visione autoritaria della Chiesa, verticistica e accentrata, mentre la modernità con tutto il suo carico rivoluzionario, viene affiancata ad una chiesa semplice e libera, popolare e democratica: niente di più falso! È proprio vero il contrario!

 La Tradizione, quella vera, che non è conservatorismo, proprio perché pone l'accento sull'autorità dell'insegnamento perenne di duemila anni di cristianesimo; proprio perché parla di un contenuto di verità, di un deposito della fede da custodire vivere e tramandare intatto; proprio perché a questo contenuto intangibile ricevuto da Dio, tutti devono obbedire e sottostare, dal Papa al più piccolo bimbo del catechismo: proprio per questo la Tradizione non è fatta di un autoritarismo tutto umano, dove il “capo” impone in nome di se stesso la linea da seguire.
 È la Rivoluzione che invece è autoritaria: in ogni rivoluzione, per imporre il “mondo nuovo” che a turno dovrebbe migliorare l'esistenza umana, è necessario che chi è a capo imponga con violenza, fisica o morale, la svolta da compiere.

 Il problema è che questa visione autoritaria distrugge la vera autorità che è quella della verità.

 La Tradizione della Chiesa è fatta per custodire e trasmettere la verità; e difendendola, contro tutti i falsi cristiani che vogliono modificarla e cambiarla, rende possibile la libertà dei giusti: “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,32).
 L'autoritarismo moderno è pestifero, entra dappertutto, e se entra nella Chiesa di Dio la corrompe.
 Per questo dobbiamo vigilare e coltivare un amore sconfinato alla Tradizione e guardarci bene dall'autoritarismo. Dobbiamo coltivare un amore sconfinato alla Tradizione perché è la forma con cui Cristo ci raggiunge. Dobbiamo guardarci dall'autoritarismo perché è la violenza dell'uomo che vuole sostituirsi alla verità di Dio.

 Solo che per guardarsi da questa moderna malattia occorre vivere di autorità e non di autoritarismo.
 Cioè, non bisogna aspettare dall'alto, dai “capi”, le indicazioni per vivere pienamente il cristianesimo come Dio comanda. Non bisogna aspettare, ma prendere in mano la propria obbedienza a Dio per compiere  l'opera che chiede.

 Nella Chiesa è sempre avvenuto così.

 Ve lo immaginate un San Francesco che si lamenta del Papa perché non riforma la Chiesa? No, San Francesco non ha atteso dal Papa, è andato dopo dal Papa per sapere se si ingannava; ma prima di andare dal Papa ha fatto ciò che Dio gli indicava.

 Ve lo immaginate san Paolo che aspetta da Pietro l'indicazione su cosa deve fare? Assurdo sarebbe: certo che Paolo andò da Pietro, ma carico già del compito affidatogli da Cristo del predicare alle genti, compito accettato e abbracciato.

 Tutto nella Chiesa, tutte le vere riforme, tutte le vere opere, sono nate dall' “alto” della grazia di Dio, ma questa grazia è germogliata nel “basso” della vita di anime cristiane che non hanno atteso una “patente” dall'autorità. L'autorità, il Papa e i Vescovi, sono intervenuti dopo, spesso molto dopo, per giudicare la bontà dell'opera. Ma per essere giudicata dall'autorità, l'opera deve esserci già, questo è ovvio!

 Ma non lo è ovvio per tutti i malati di autoritarismo, che hanno trasformato la Chiesa in una società di impiegati che fanno corte all'autorità.

 Sono malati della stessa malattia tutti quei cristiani che dicono di amare la Tradizione, ma non si muovono nel costruire alcunché.
 Attendono Papa dopo Papa, Vescovo dopo Vescovo, parroco dopo parroco, pretendendo da essi  un certificato di fiducia in anticipo, prima di aver costruito qualcosa.

 Il concilio di Trento, così amato dai tradizionali, è stato preparato e reso possibile da tutti i Santi della riforma cattolica, che è nata ben prima del concilio!

 Il concilio di Nicea che salvò la fede in Cristo fu possibile per tutti i santi che, nella solitudine dell'incomprensione, rimasero attaccati alla Tradizione e fecero l'opera di Dio.
 Nessuno di essi ebbe un certificato anticipato di fiducia dall'autorità.

 Il pericolo dell'autoritarismo è serio: è lo strumento che ogni dittatura culturale ha per fermare la vita, che non corrisponde mai allo schema che l'uomo ha in testa.

 Se il mondo tradizionale cadrà nell'inganno dell'autoritarismo, la vera riforma della Chiesa, ahimè, sarà da rimandare... chissà per quanto tempo.
 Se il mondo tradizionale cadrà nell'inganno dell'autoritarismo non costruirà l'opera che Dio gli ha dato da compiere e molte anime non avranno il riparo sicuro nella tempesta.

 Se cadremo nell'inganno dell'autoritarismo, quello di chi aspetta dal “capo” la riforma della propria vita, non potremo poi lamentarci se a sera saremo a mani vuote, l'abbiamo voluto noi.

AMDG et BVM

mercoledì 6 settembre 2017

E' urgente "fare" la Tradizione


LASCIATE CHE I MORTI 
SEPPELLISCANO I LORO MORTI
- Anno X n° 9 - Settembre 2017


  Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti,
è ciò che viene a noi in mente mentre leggiamo i terrificanti dati pubblicati in questi giorni  dalla conferenza episcopale tedesca. Terrificanti davvero per il futuro del cattolicesimo in quelle terre: nell'ultimo anno (2016) la Chiesa tedesca ha perso 162.000 fedeli e chiuso 537 chiese. Dal 1996 ad oggi il numero dei fedeli è crollato de15%  e a questo si aggiunge la chiusura di un quarto delle comunità cattoliche... la diocesi di Monaco per esempio nell'anno scorso ha avuto un solo candidato al sacerdozio... potremmo dilungarci in questo tristissimo elenco.

 Tutto suona come una beffa: nell'anno centenario di Lutero, la Chiesa cattolica che si è ammodernata diventando così simile alla chiesa protestante, deve celebrare il proprio funerale, constatando il progressivo e inesorabile assottigliamento della sua presenza.

 Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti, ci viene da ripetere difronte al progressivo smantellamento della presenza cattolica anche nelle nostre terre.
 Lasciate che la cosiddetta chiesa conciliare, nata da una presunta nuova pentecoste, faccia il proprio funerale.

 Solo che questa chiesa ammodernata, che doveva invadere il mondo con il suo gioioso annuncio di liberazione, non ne vuole proprio sapere di seppellire i propri morti: li ha imbalsamati e finge che stiano tutti bene.



 Finge di essere nella primavera di una perenne pentecoste, mentre si trova nel più gelido freddo invernale.
 Ed è tutto il mondo cattolico a vivere il medesimo declino;  e questo lo può constatare chiunque, lì dove vive. La Chiesa regredisce, lascia libero terreno al paganesimo più vago e violento; i nostri paesi, dal punto di vista cattolico, sono dei ruderi della cristianità antica. Eppure nessuno ne parla.

 È singolare che tutto il mondo pastoralista si sottragga a qualsiasi verifica, è questo che fa più impressione e male.

 Hanno inaugurato l'era del Pastoralismo Dogmatico buttando via il dogma.

 Si, è così. In questi decenni è stata innescata tutta una serie di cambiamenti rivoluzionari e lo si è fatto in nome di un principio pratico di pastorale. Si è anche indetto, primo nella storia cristiana, un Concilio Pastorale, che non voleva proclamare nuovi dogmi né comminare condanne; un concilio preoccupato di rinnovare il linguaggio della chiesa perché fosse comprensibile al mondo di oggi, un concilio preoccupato dell'azione dei cristiani nel mondo, preoccupato della pastorale appunto.

 Solo che questa pastorale, senza dogmi e anatemi, ha fallito il suo compito: non solo il mondo ha continuato ad essere mondo senza incontrarsi con la chiesa; ma la chiesa è letteralmente scomparsa dalla scena di questo mondo a cui ha lasciato il posto.

 Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti: è vero, dovremmo preoccuparci d'altro, ma come restare indifferenti a tanta rovina? È la presenza della chiesa che viene meno e le anime restano indifese e denutrite, preda dei briganti di turno. Come restare indifferenti? La chiesa è una e abbiamo ricevuto tutto da lei; la rovina della sua presenza, anche se causata da scelte colpevoli, non può giovare ad alcuno.

 Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti: ma come non soffrire difronte a questo gran funerale che sembra seppellire il nostro passato fatto di parrocchie e di paesi cristiani? Come non soffrire difronte al seppellimento delle radici fisiche che ci hanno generato?

 Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti: ma mentre accompagnate il funerale della chiesa della moderna pastorale, non sarebbe possibile con tutta semplicità riaprire la questione per lasciarsi giudicare dai dati spaventosi di questi anni? Che senso ha una pastorale che non si lascia giudicare dai fatti? È già consumata in ideologia. La pastorale ammodernata, nata senza voler proclamare dogmi e comminare condanne, si è sostituita al dogma: possibile che non si trovino pastori della chiesa disposti a discutere di tutto questo?  Se non lo faremo, ma apertis verbis, sarà come lasciare i cadaveri senza sepoltura, con il rischio di infettare tutto e tutti.

 La Pastorale moderna eretta a dogma è in sostanza la dogmatizzazione dell'agnosticismo: avendo buttato le verità di fede, espresse con precisione e difese nella Tradizione; avendole buttate in secondo piano e avendole rese fluide per essere adattabili a tutte le opinioni in circolazione, il cattolicesimo ammodernato deve riempire la propria vita con una nuova pastorale: la pastorale del fare compagnia agli uomini in nome di se stessa, non in nome della Verità che salva.
 È l'agnosticismo, è il vuoto di fede eretto a pastorale pratica. Per un po' questa pastorale ha illuso i suoi attori ad essere ancora presenti sulla scena del mondo, ma ora... ora suona l'ora del  rendiconto: questa scelta ha distrutto la Chiesa.

 Ma questi, e sono tanti, si sottraggono a qualsiasi verifica.

 Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti: mentre soffriamo per tutta questa aria di morte, e soffriamo perché amiamo la Chiesa, è urgente fare la Tradizione, farla concretamente sul campo, senza attardarsi in un perenne funerale della modernità del mondo e della sua chiesa. Se non ci mettiamo a farla la tradizione, saremmo solo degli afflitti del corteo funebre.
 Ma mentre viviamo secondo il cattolicesimo della tradizione, il cattolicesimo di sempre, avremo sempre la preoccupazione di invocare un libero confronto nella chiesa sull'attuale disastro.

 Non ci piace questo silenzio che non accetta un confronto, è il silenzio dell'ideologia che non vuole fare i conti con la realtà.

 Il cattolicesimo di sempre, invece, quello del dogma e degli anatemi per intenderci, con la realtà i conti li ha sempre fatti, preoccupato della salvezza delle anime e quindi della presenza forte e capillare della chiesa.

 Non ci piace questo silenzio, indifferente o colpevole che sia; non ci piace, perché siamo figli della Chiesa.

AMDG et BVM

lunedì 20 giugno 2016

Ricordare un fatto non secondario: per fare il cristianesimo occorre “dare la vita”.



POVERI DELLA TRADIZIONE, NON 

BORGHESI DELLA TRADIZIONE.

  Sapete bene quante volte, su questo foglio di collegamento, abbiamo messo in guardia contro i pericoli del modernismo. Quante volte abbiamo reagito contro la maldestra modernizzazione della Chiesa, che sta ormai compiendosi nella più acuta crisi che la Chiesa abbia mai conosciuto nella sua storia.

  Abbiamo reagito, ne sentiamo tutto il dovere; abbiamo detto di “no”; abbiamo detto di non accettare questo stravolgimento della vita cristiana che si amplifica sotto i nostri occhi.

  È bene, però, ricordare che non abbiamo fatto solo questo, e che non abbiamo fatto innanzitutto questo: ci siamo prima preoccupati di assicurare tra noi una vita stabilmente cristiana.

  Sì, perché “essere contro” non equivale a fare il cristianesimo. È un'illusione mortale quella di pensare che essere contro qualcosa equivalga automaticamente a costruirne l'alternativa.

  Sarebbe per noi un gravissimo inganno quello di pensare che basti reagire al modernismo teologico, al pastoralismo ingannevole del post-concilio, alla mania di mettere al passo con le ultime mode del mondo la vita cristiana, per vedere sorgere un Cattolicesimo sano, secondo Tradizione.

  Il père Emmanuel Andrè, di cui tanto riferiamo sul nostro bollettino e che costituisce certamente uno dei più fulgidi esempi sacerdotali nella Chiesa dei tempi moderni, disse ai suoi monaci, difronte al dilagante Naturalismo: “Siate uomini di Dio, siate uomini di reazione”.

  Verissimo! Per essere di Dio, occorre reagire contro il male dilagante. Occorre dire di “no” all'errore che è in te, e al veleno che circola nel mondo.
  Ma non basta dire di no, occorre essere di Dio: “Siate uomini di Dio...”. La reazione, quella sana, nasce solo dall' “essere di Dio”. Occorre preoccuparsi dunque di fare il cristianesimo; l'interesse dev'essere concentrato sul vivere una vita autenticamente cristiana, sul lavorare perché molti abbiano i mezzi e la possibilità di “essere di Dio”.

  Ci sono alcuni, in certo mondo tradizionalista o conservatore, che sono permanentemente in reazione, in perenne accusa, rischiando di esaurire i propri sforzi nello scovare il male attorno a loro.
  E quando reagiscono contro i cristiani ammodernati, sembrano attendere il cattolicesimo vero dai “modernisti” stessi, pretendendo da loro una conversione che forse attenderanno invano.

  No! Occorre fare il cristianesimo, questo attende Dio da noi; per questo ci da la sua grazia.

  Un grande benedettino, il Card. Schuster, difronte alla grave crisi di qualche monastero, consigliava di non perdere tempo nel tentare la sua riforma, ma di fondarne a fianco un altro, dove regnassero l'osservanza della Regola di San Benedetto e uno spirito autenticamente monastico: nel momento più forte della crisi, questi nuovi monasteri osservanti sarebbero stati l'anima della rinascita cristiana e monastica.

  Così anche per noi: occorre impiantare una vita veramente cristiana dove viviamo, attorno alla Messa tradizionale, fonte di inaudite grazie. Occorre fare il cristianesimo senza perdere nemmeno un minuto, là dove sacerdoti di retta intenzione tornano ad assicurare la Tradizione, nei sacramenti e nella dottrina. I preti, almeno quelli che hanno capito, hanno il dovere di garantire la Tradizione, e i fedeli di riconoscerla e di muoversi!

  Ci resta da ricordare però un fatto non secondario: per fare il cristianesimo occorre “dare la vita”.
Dare la vita, è questa l'obbedienza vera che Dio attende da noi.
  Dare la vita, cioè tutto, perché se Dio non può chiederci tutto, vuol dire che per noi non è.

  Questo dare tutto, va vissuto in una coscienza limpida, unita ad una concretezza estrema, operativa.
  L'impiantare il cristianesimo inizia dalla grazia, cioè dall'altare del Signore: è dalla messa cattolica, dal sacrificio di Cristo, che tutto ha vita, dottrina, preghiera, opere, carità, cultura...
  Per assicurare il culto e la vita cattolica, secondo tradizione, occorre dare la vita: siamo disposti a questo, o ci basta essere contro?
  Se, improvvisamente, fosse data piena libertà all'esperienza della Tradizione, se nella Chiesa ci fosse data questa libertà totale, sorgerebbero questi luoghi di grazia intorno all'altare grazie a noi? Oppure, questo miracolo di libertà per la Tradizione ci troverebbe ancora impegnati ad assicurarci le nostre libertà, i nostri umori alterni? Un siffatto miracolo non ci coglierebbe forse preoccupati di garantirci ancora il nostro “tempo libero”, come fa il resto del mondo?

  Solo perché ogni Domenica, e sottolineiamo ogni, ci sia la messa cantata, occorre che molti diano la vita! Il prete che la celebra, l'organista che accompagna il canto, la schola che sostiene la lode del popolo, i fedeli che stabilmente si riferiscono a quella chiesa.

  Vedete, la nuova liturgia, miseramente ridotta, di fatto ha garantito, favorendole, le “libertà” e il disimpegno dei fedeli. Sembra nata per intrattenere e non per fare il cristianesimo.

  Per fare il cristianesimo occorre non essere liberali, ma uomini impegnati con Dio, consegnanti tutto a Dio: solo i poveri, quelli veri, lo capiscono, non i “borghesi” della tradizione.

  Poveri sono quelli che non sperano la salvezza da sé, dal proprio giudizio e azione. Poveri sono quelli che si consegnano a Dio, disposti a dare tutto perché la Chiesa Cattolica continui ad esserci.

  Borghesi sono, invece, quelli impegnati a salvare i propri spazi di libertà. Sono liberali nell'anima; vogliono amare Dio, ma non consegnando tutto: loro si illudono e la Chiesa scompare.

Editoriale di "Radicati nella fede" - Febbraio 2016


mercoledì 3 febbraio 2016

“Siate uomini di Dio, siate uomini di reazione”.

Poveri della Tradizione, 

non borghesi della Tradizione

Editoriale di "Radicati nella fede
- Anno IX n° 2 - Febbraio 2016

Sapete bene quante volte, su questo foglio di collegamento, abbiamo messo in guardia contro i pericoli del modernismo. Quante volte abbiamo reagito contro la maldestra modernizzazione della Chiesa, che sta ormai compiendosi nella più acuta crisi che la Chiesa abbia mai conosciuto nella sua storia.

Abbiamo reagito, ne sentiamo tutto il dovere; abbiamo detto di “no”; abbiamo detto di non accettare questo stravolgimento della vita cristiana che si amplifica sotto i nostri occhi.

È bene, però, ricordare che non abbiamo fatto solo questo, e che non abbiamo fatto innanzitutto questo: ci siamo prima preoccupati di assicurare tra noi una vita stabilmente cristiana.

, perché “essere contro” non equivale a fare il cristianesimo. È un'illusione mortale quella di pensare che essere contro qualcosa equivalga automaticamente a costruirne l'alternativa.

Sarebbe per noi un gravissimo inganno quello di pensare che basti reagire al modernismo teologico, al pastoralismo ingannevole del post-concilio, alla mania di mettere al passo con le ultime mode del mondo la vita cristiana, per vedere sorgere un Cattolicesimo sano, secondo Tradizione.

Il père Emmanuel Andrè, di cui tanto riferiamo sul nostro bollettino e che costituisce certamente uno dei più fulgidi esempi sacerdotali nella Chiesa dei tempi moderni, disse ai suoi monaci, difronte al dilagante Naturalismo: “Siate uomini di Dio, siate uomini di reazione”.

Verissimo! Per essere di Dio, occorre reagire contro il male dilagante. Occorre dire di “no” all'errore che è in te, e al veleno che circola nel mondo.
Ma non basta dire di no, occorre essere di Dio: “Siate uomini di Dio...”. La reazione, quella sana, nasce solo dall' “essere di Dio”. 
Occorre preoccuparsi dunque di fare il cristianesimo; l'interesse dev'essere concentrato sul vivere una vita autenticamente cristiana, sul lavorare perché molti abbiano i mezzi e la possibilità di “essere di Dio”.

Ci sono alcuni, in certo mondo tradizionalista o conservatore, che sono permanentemente in reazione, in perenne accusa, rischiando di esaurire i propri sforzi nello scovare il male attorno a loro.
E quando reagiscono contro i cristiani ammodernati, sembrano attendere il cattolicesimo vero dai “modernisti” stessi, pretendendo da loro una conversione che forse attenderanno invano.

No! Occorre fare il cristianesimo, questo attende Dio da noi; per questo ci da la sua grazia.

Un grande benedettino, il Card. Schuster, difronte alla grave crisi di qualche monastero, consigliava di non perdere tempo nel tentare la sua riforma, ma di fondarne a fianco un altro, dove regnassero l'osservanza della Regola di San Benedetto e uno spirito autenticamente monastico: nel momento più forte della crisi, questi nuovi monasteri osservanti sarebbero stati l'anima della rinascita cristiana e monastica.

Così anche per noi: occorre impiantare una vita veramente cristiana dove viviamo, attorno alla Messa tradizionale, fonte di inaudite grazie. Occorre fare il cristianesimo senza perdere nemmeno un minuto, là dove sacerdoti di retta intenzione tornano ad assicurare la Tradizione, nei sacramenti e nella dottrina. I preti, almeno quelli che hanno capito, hanno il dovere di garantire la Tradizione, e i fedeli di riconoscerla e di muoversi!

Ci resta da ricordare però un fatto non secondario: per fare il cristianesimo occorre “dare la vita”.
Dare la vita, è questa l'obbedienza vera che Dio attende da noi.
Dare la vita, cioè tutto, perché se Dio non può chiederci tutto, vuol dire che per noi non è.

Questo dare tutto, va vissuto in una coscienza limpida, unita ad una concretezza estrema, operativa.
L'impiantare il cristianesimo inizia dalla grazia, cioè dall'altare del Signore: è dalla messa cattolica, dal sacrificio di Cristo, che tutto ha vita, dottrina, preghiera, opere, carità, cultura...
Per assicurare il culto e la vita cattolica, secondo tradizione, occorre dare la vita: siamo disposti a questo, o ci basta essere contro?
Se, improvvisamente, fosse data piena libertà all'esperienza della Tradizione, se nella Chiesa ci fosse data questa libertà totale, sorgerebbero questi luoghi di grazia intorno all'altare grazie a noi? Oppure, questo miracolo di libertà per la Tradizione ci troverebbe ancora impegnati ad assicurarci le nostre libertà, i nostri umori alterni? Un siffatto miracolo non ci coglierebbe forse preoccupati di garantirci ancora il nostro “tempo libero”, come fa il resto del mondo?

Solo perché ogni Domenica, e sottolineiamo ogni, ci sia la messa cantata, occorre che molti diano la vita! Il prete che la celebra, l'organista che accompagna il canto, la schola che sostiene la lode del popolo, i fedeli che stabilmente si riferiscono a quella chiesa.

Vedete, la nuova liturgia, miseramente ridotta, di fatto ha garantito, favorendole, le “libertà” e il disimpegno dei fedeli. Sembra nata per intrattenere e non per fare il cristianesimo.

Per fare il cristianesimo occorre non essere liberali, ma uomini impegnati con Dio, consegnanti tutto a Dio: solo i poveri, quelli veri, lo capiscono, non i “borghesi” della tradizione.

Poveri sono quelli che non sperano la salvezza da sé, dal proprio giudizio e azione. Poveri sono quelli che si consegnano a Dio, disposti a dare tutto perché la Chiesa Cattolica continui ad esserci.
Borghesi sono, invece, quelli impegnati a salvare i propri spazi di libertà. Sono liberali nell'anima; vogliono amare Dio, ma non consegnando tutto: loro si illudono e la Chiesa scompare.

Che questa Quaresima ci insegni la vera obbedienza al Signore.
AMDG et BVM

giovedì 4 giugno 2015

La Tradizione



“Non sarebbe cosa inutile
ricercare l'antica tradizione,
la dottrina e
la fede
della Chiesa cattolica,
quella s'intende
che il Signore ci ha insegnato,
che gli apostoli hanno predicato,
che i padri hanno conservato.
Su di essa infatti si fonda la Chiesa,
dalla quale,
se qualcuno si sarà allontanato,
per nessuna ragione
potrà esser cristiano,
né venir chiamato tale.

Dalle «Lettere» di sant'Atanasio, vescovo 

sabato 25 aprile 2015

La proclamazione della verità


Dal trattato «Contro le eresie» di sant'Ireneo, vescovo
(Lib. 1, 10, 1-3; PG 7, 550-554)
La proclamazione della verità


    La Chiesa, sparsa in tutto il mondo, fino agli ultimi confini della terra, ricevette dagli apostoli e dai loro discepoli la fede nell'unico Dio, Padre onnipotente, che fece il cielo la terra e il mare e tutto ciò che in essi è contenuto (cfr. At 4, 24). La Chiesa accolse la fede nell'unico Gesù Cristo, Figlio di Dio, incarnatosi per la nostra salvezza. 
Credette nello Spirito Santo che per mezzo dei profeti manifestò il disegno divino di salvezza: e cioè la venuta di Cristo, nostro Signore, la sua nascita dalla Vergine, la sua passione e la risurrezione dai morti, la sua ascensione corporea al cielo e la sua venuta finale con la gloria del Padre. Allora verrà per «ricapitolare tutte le cose» (Ef 1, 10) e risuscitare ogni uomo, perché dinanzi a Gesù Cristo, nostro Signore e Dio e Salvatore e Re secondo il beneplacito del Padre invisibile «ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua lo proclami» (Fil 2, 10) ed egli pronunzi su tutti il suo giudizio insindacabile.

    Avendo ricevuto, come dissi, tale messaggio e tale fede, la Chiesa li custodisce con estrema cura, tutta compatta come abitasse in un'unica casa, benché ovunque disseminata. Vi aderisce unanimemente quasi avesse una sola anima e un solo cuore. Li proclama, li insegna e li trasmette all'unisono, come possedesse un'unica bocca.

    Benché infatti nel mondo diverse siano le lingue, unica e identica è la forza della tradizione. Per cui le chiese fondate in Germania non credono o trasmettono una dottrina diversa da quelle che si trovano in Spagna o nelle terre dei Celti o in Oriente o in Egitto o in Libia o al centro del mondo. Come il sole, creatura di Dio, è unico in tutto l'universo, così la predicazione della verità brilla ovunque e illumina tutti gli uomini che vogliono giungere alla conoscenza della verità. E così tra coloro che presiedono le chiese nessuno annunzia una dottrina diversa da questa, perché nessuno è al di sopra del suo maestro.

    Si tratti di un grande oratore o di un misero parlatore, tutti insegnano la medesima verità. Nessuno sminuisce il contenuto della tradizione. Unica e identica è la fede. Perciò né il fecondo può arricchirla, né il balbuziente impoverirla.

martedì 14 aprile 2015

14. LA TRADIZIONE!


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Senza un recupero della Tradizione, non vedo come possa rinascere la Chiesa, uccisa da un rito che non è più percepito come il Santo Sacrificio della nostra redenzione, ma come mero intrattenimento di natura socio-religiosa, di cui esistono oltretutto, in pratica, tante varianti quanti sono i ministri che lo celebrano. 
Una liturgia adattabile a tutti i gusti e a tutte le circostanze ha ingenerato la convinzione che l’uomo non debba conformarsi a Dio, ma piuttosto piegare l’idea di Dio ai propri capricci; così ora ci si pone in ascolto della Parola – come amano tanto dire – non per conoscere ciò che Egli vuole e obbedire a Lui nella propria condotta con l’aiuto della Sua grazia, ma per disquisire se quanto udito corrisponde o meno al codice morale personale (che è gioco-forza del tutto relativo). 
Il fedele si è trasformato in severo censore della verità rivelata, giudicata in modo insindacabile sulla base delle massime mondane del momento… C’è poi da meravigliarsi che nessuno si confessi più – o, se lo fa, sia convinto di non avere alcun peccato e ne approfitti, eventualmente, per denunciare i peccati di altri: marito, suocera, figli, parenti, colleghi e via dicendo?

AMDG 
et Beatae Virginis Mariae


giovedì 20 novembre 2014

La debolezza dei vecchi. ...Molto è perduto, ma non tutto.


La debolezza dei vecchi

di
Alessandro Gnocchi


Pubblicato sul sito Riscossa Cristiana
nella rubrica del martedì “Fuori moda” - La posta di Alessandro Gnocchi
  18 novembre 2014

Titolo, impaginazione e neretti sono nostri



Ogni martedì Alessandro Gnocchi risponde alle lettere degli amici lettori. Tutti potranno partecipare indirizzando le loro lettere a info@riscossacristiana.it, con oggetto: “la posta di Alessandro Gnocchi”. Chiediamo ai nostri amici lettere brevi, su argomenti che naturalmente siano di comune interesse. Ogni martedì sarà scelta una lettera per una risposta per esteso ed eventualmente si daranno ad altre lettere risposte brevi. Si cercherà, nei limiti del possibile, di dare risposte a tutti.

martedì 18 novembre 2014


Sono pervenute in Redazione:


Gent.mo Dott. Gnocchi,
(…) Quando da ragazzo affrontavo le prime lotte con la “Mentalità di questo mondo” (…) sapevo che “rientrato a casa” (la Chiesa), avrei trovato chi non solo mi appoggiava, ma mi spronava ad andare avanti dandomi lui stesso l’esempio (…)… in quella prospettiva si sarebbe potuto affrontare anche il martirio perché “si era con il Papa” e i miei fratelli erano con me… Ma adesso? (…)
Si, gentile dottor Gnocchi, il martirio di oggi per un cristiano ha un solo nome: “solitudine”, generata da chi per anni ti ha detto: “Coraggio, questa è la strada, non temere, comprométtiti pure con il mondo, perché io ti appoggio”, ma poi ha preferito allearsi con chi ti ha combattuto, rimproverandoti di dare troppa importanza ai valori non negoziabili, lasciandoti intorno un vuoto enorme. Per fortuna esiste ancora un luogo dove sentirsi accolti: la Santa Eucarestia; solo lì il cristiano può trovare quella forza di cui ha bisogno, forse per questo coloro che abbandonano i credenti di fronte al mondo sono gli stessi che attaccano la Santità e la serietà dell’azione liturgica così come ci è stata tramandata dalla Tradizione.
Mi scuso per la lungaggine, ma la sua rubrica è importante perché coloro che hanno un progetto comune di vita cristiana possano ritrovarsi anche solo per sfogarsi e confrontarsi. La saluto e la ringrazio.
Mario Amari

Caro Alessandro Gnocchi,
(…)
Scene di vita quotidiana dalla Chiesa post-sinodale e post-conciliare; città qualunque del Nord d’Italia. Entro alle 17.30 in una chiesa per recitare il mio rosario. Musichetta “chill-out”, stile locale alla moda, come sottofondo, abbastanza udibile da disturbare la meditazione. Faccio uno sforzo per concentrarmi egualmente, ma ecco che un gruppo di signore anziane iniziano a chiacchierare amabilmente ad alta voce, come comari al mercato, immemori di trovarsi davanti al Santissimo Sacramento nel tabernacolo. Cerco di zittirle garbatamente: nulla. Allora, spazientito, inizio a recitare ad alta voce il rosario, in latino, onde far loro capire che un tempo, in quella chiesa, tempio di Dio, si meditavano le sante vite di Gesù e Maria nella lingua sacra. A questo punto, sconsolate (loro!) se ne vanno. Riesco a malapena a ritrovare la pazienza perduta che inizia lo strepito dei pargoletti del catechismo nella sala accanto, con voci di donna intente a rimproverarli, o quanto meno a provarci.
Una sola considerazione finale: che razza di società è quella in cui un quarantenne deve fare i salti mortali per pregare, e per far ciò è costretto a redarguire platealmente degli anziani? Un mondo alla rovescia! E che Chiesa è quella in cui si nega ai fedeli il sacrosanto diritto al silenzio, da sempre luogo di rifugio interiore delle anime oranti? Ma domani è un altro giorno: andrò al lavoro mezz’ora prima, e nella mia stanzetta al primo piano troverò, in profano luogo, quel raccoglimento che nelle nostre parrocchie postmoderne è ormai un ricordo da nostalgici.
Mi scusi per lo sfogo.
Con affetto
Alessandro Zanconato

Caro Amari, caro Zanconato,


mi perdonerete se, per esigenze di spazio, ho sforbiciato con una certa libertà le vostre lettere. Penso comunque di averne trattenuto il senso e le ho messe insieme perché pongono l’accento su una delle condizioni che rendono così dolorosa la vita del cattolico in questi tempi. Mi riferisco al passo in cui il signor Amari dice “il martirio di oggi per un cristiano ha un solo nome: solitudine” e a quello in cui il signor Zanconato si chiede “che razza di società è quella in cui un quarantenne deve fare i salti mortali per pregare, e per far ciò è costretto a redarguire platealmente degli anziani?”.


In queste due constatazioni è racchiusa la perdita del senso della Tradizione. Non vi è nessuno di più solo di colui che non ha più legami con il proprio passato, con le proprie radici, e quindi con il proprio futuro. Questa solitudine è tanto più dolorosa quanto più si capisce che i primi a fuggire sono gli anziani, quelli che una volta venivano chiamati con realistico amore i vecchi.

L’errore di troppi cultori della Tradizione consiste nell’additare al pubblico ludibrio le nefandezze dei giovani, come se questi poveretti fossero gli artefici del proprio disastro. Ma la vera cifra del dramma in cui siamo immersi non è la condizione delle nuove generazioni. La vera causa e, nello stesso tempo, la vera misura della decadenza di questi tempi debosciati è il disastro spirituale ed esistenziale in cui versano i vecchi.

Quelle anziane signore che tanto giustamente inquietano il quarantenne Alessandro Zanconato per le loro fatue chiacchiere davanti al Tabernacolo sono le stesse che non hanno nessuna remora nel giustificare il figlio che divorzia e si risposa, la nipote che abortisce, la cugina che partorisce con la procreazione assistita, il pronipote che gli porta in casa il compagno che sarà pure un po’ effeminato ma è tanto gentile, il prete che dice Messa come fosse uno show ed è tanto divertente, la suora che non prega ma fa tanto del bene. E sono pure le stesse che, quaranta o cinquant’anni fa, per se stesse, non avrebbero consentito neanche una carezza di nascosto dal fidanzato, e per il consacrato non avrebbero concepito una vita meno che angelica.

Il principe di questo mondo conosce molto bene i segreti delle menti e delle anime, e sa che, anche quando venga negato, è il passato a condizionare il presente e il futuro. Per cui, chi voglia avere il dominio del mondo, non deve inventare sogni nuovi, ma pervertire i ricordi vecchi. E, per traviare i custodi dei ricordi vecchi, non c’è strumento migliore che quello di instillare nei custodi l’idea di essere fuori moda, di perdere il contatto con i giovani.

Nasce così una tenerezza malata nei confronti delle nuove generazioni che si traduce nel concedere tutto per timore di perderle. Proprio come fa la Chiesa di oggi nei confronti del mondo. Il risultato è rappresentato da intere generazioni che si allontanano da Cristo invece che farsi più vicine. E, se non bastasse questo, il fenomeno avviene nella derisione e nel disprezzo per i vecchi che si mostrano oggettivamente patetici nell’imitazione dei loro nipoti.


Caro Amari, caro Zanconato, tutto questo ai nostri giorni lo riferiamo alle tristi vicende della Chiesa gerarchica e alle pessime prove del pontificato in corso. Ma è doloroso constatare quanto tocchi intimamente la vita dei cattolici ordinari.


Io vivo in un piccolo paese della profonda bergamasca, terra (ex)cattolica fino nelle zolle più nascoste. Da queste parti usa ancora portare a domicilio la cosiddetta “buona stampa” da parte di volontarie in via di esaurimento col passare degli anni. Ebbene, la signora, che forse non a caso distribuiva “Famiglia (cosiddetta) Cristiana”, è passata in un decennio dalla difesa ad oltranza di dottrina e morale intransigenti alla giustificazione di figli e nipoti che così intransigenti non sono.

È l’immagine di una disfatta a cui nulla di umano può essere opposto: non un passato a cui attingere, non un futuro in cui sperare. È l’immagine della solitudine.

Per questo bisogna che i cattolici imparino a stare insieme e si attivino per riparare questi muri crollati. Molto è perduto, ma non tutto.

Alessandro Gnocchi

Sia lodato Gesù Cristo
e la Beatissima Vergine Maria

martedì 17 giugno 2014

Come educare


come educare 

nella società contemporanea"

Cento, 19 maggio 2011


Durante la cena pasquale ebraica, ad un certo punto il figlio doveva rivolgersi al padre dicendo: "perché diversa è questa notte da tutte le notti? Infatti tutte le notti noi mangiamo lievitato e azzimo; questa notte tutto quanto azzimo…". Il padre rispondeva: "schiavi fummo in Egitto del Faraone, e il Signore Dio nostro ci fece uscire di là con mano forte e con braccio disteso" [cit. da C. GirandoEucaristia per la Chiesa, Gregorian University Press-Morcelliana, Roma-Brescia 1989, 134-135].
Questo testo ci aiuta a capire profondamente che senso ha parlare oggi di "emergenza educativa": e questo sarà il primo punto della mia riflessione. E ci aiuterà ad individuare alcuni fondamentali orientamenti pratici per uscire da essa e dare origine ad una grande stagione educativa nella nostra Chiesa e nella società civile: e questo sarà il secondo punto della mia riflessione.
1. L’emergenza educativa.
Ritorniamo al testo ebraico. Esso ci mostra come si può stringere un legame buono fra le generazioni: la generazione dei padri e la generazione dei figli.
La prima costatazione. Il legame è istituito dalla narrazione del fatto che ha fondato l’identità e quindi la libertà del popolo a cui il bambino appartiene. È stata la liberazione dalla schiavitù egiziana a dare origine ad Israele; è stato l’evento fondatore della sua identità.
La narrazione viene ripetuta ogni anno – ogni anno la Pasqua deve essere celebrata – perché si custodisca la memoria dell’evento fondatore "di generazione in generazione". La memoria deve essere custodita, perché quando si perde la memoria si perde la consapevolezza della propria identità; si è sradicati, spaesati, esiliati da se stessi. Dunque la narrazione che il padre fa al figlio impedisce a questi di ignorare la sua origine, di ignorare la sua dignità di uomo libero, e gli consente di sentire la propria libertà come un bene condiviso con gli altri.
In questo modo, mediante quella narrazione, il rapporto fra le generazioni non era solo biologico ma diventava pienamente umano. La generazione dei figli, già legata biologicamente a quella dei padri, entrava nello stesso universo dei padri: la stessa religione, la stessa legislazione, gli stessi valori. Si costituiva un popolo non solo in senso etnico, ma anche culturale. Israele è l’Israele di Dio e Dio è il "Santo di Israele".
Ma c’è un altro aspetto ancora più importante; anzi è il più importante di tutti. La risposta del padre al figlio si conclude nel modo seguente: "in ogni generazione e generazione ognuno è obbligato a vedere se stesso come essendo proprio lui uscito dall’Egitto" [ibid. pag. 111].
La narrazione del padre racconta l’evento fondatore non semplicemente come un fatto che definitivamente appartiene al passato, ma come un avvenimento che continua anche ora ad esercitare il suo influsso. Anche ora, ogni generazione di figli ha bisogno di sapere la sua origine, di accedere alla dignità di uomini liberi, di condividerla dentro una comunità di persone. La tradizione che si trasmette di generazione in generazione è una dimensione essenziale del presente, dal cui riconoscimento o negazione dipende la costituzione del proprio io. Ed è la generazione dei padri a testimoniare questa presenza, ed introdurre così il figlio nella vita.
Si potrebbero dire molte altre cose, ma mi fermo nella considerazione del rito ebraico. Vorrei farvi vedere come esso sia come il paradigma educativo di ogni vero rapporto educativo. Quando nelle vostre famiglie il rapporto padre-figli "funziona", anche in esse accade tutto ciò che accadeva la sera di Pasqua in ogni famiglia ebraica.
Parto da un episodio realmente accaduto in una famiglia. Essa fu colpita da un gravissimo lutto. La bambina di pochi mesi fu colpita da un tumore che la portò alla morte. Il fratellino di qualche anno di vita, dopo qualche giorno dal funerale, chiese a sua madre: "mamma, ma quando torna a casa Lucia?".
La risposta a questa domanda, una delle più radicali che l’uomo possa compiere, ha dato inizio in senso forte alla grande narrazione della vita che i genitori fecero al loro bambino.
Essi non partivano dal niente: dentro al niente si può cadere, ma dal niente non si può partire. Sono due sposi: il matrimonio è condivisione amorosa dello  stesso destino. Sono due sposi radicati e fondati dentro l’avvenimento cristiano. Essi hanno risposto narrando quell’incontro che avevano fatto con Cristo risorto dai morti. Un incontro che in quel momento, mediante la testimonianza dei suoi genitori, accadeva anche per il bambino, rispondendo al bisogno di una presenza: la presenza della persona amata. La Tradizione cristiana mediante la testimonianza dei padri diveniva risposta adeguata al bisogno del cuore dei figli: questa è l’educazione.
Possiamo ora tentare come una definizione. L’educazione è la tradizione che diventa presenza dentro alla testimonianzache i padri ne fanno ai figli. Queste tre categorie, tradizione-presenza-testimonianza, costituiscono l’atto educativo. Ho chiamato questa presenza-testimonianza anche la narrazione della vita fatta di generazione in generazione.
A questo punto della nostra riflessione siamo in grado di capire che cosa significa emergenza educativa e perché noi ci troviamo dentro ad una vera e propria "emergenza educativa".
Proviamo a fare una serie di ipotesi, sempre considerando il rapporto fra le generazioni.

Se colui che deve trasmettere una visione della vita ed introdurre dunque il nuovo arrivato nell’universo di senso – diciamo: la generazione dei padri – si sradica dalla tradizione, non possono non succedere che una delle seguenti due conseguenze. O si instaura un rapporto di permissivismo, caratterizzato da una sorta di scetticismo e di indifferentismo: non esiste una verità circa il bene della persona [scetticismo], e quindi tutto alla fine è permesso [indifferentismo], purché non ci si faccia del male. O si instaura un rapporto di egemonia e di autoritarismo: non si fa più nessuna proposta; si impone.

Prima di procedere oltre vorrei solo accennare al fatto che sia l’uno che l’altro esito è accompagnato da una mancanza di vera condivisione del destino dell’altro. Ma non abbiamo ora il tempo di approfondire questo aspetto della questione.

Che cosa significa "se la generazione dei padri si sradica dalla tradizione"? quando e come accade questo sradicamento? Richiamiamo alla memoria ancora una volta il rito ebraico e la domanda del bambino rimasto privo della sorellina.
Alla richiesta del figlio il padre non riuscirebbe a rispondere se avesse perso la memoria dell’evento fondatore oppure se non lo avesse ritenuto vero, realmente accaduto cioè. Smemoratezza e/o incredulità sradicano la generazione dei padri dalla tradizione. Non a caso il Signore attraverso i suoi profeti metteva in guardia Israele soprattutto contro due rischila perdita di memoria ["ricordati, Israele…", non dimenticare, Israele…"] e la sfiducia o incredulità ["se non crederete, non avrete stabilità"].

Alla richiesta del bambino la madre non avrebbe saputo rispondere se non in maniera inadeguata ["non può ritornare, perché è morta"], se non avesse in quel momento fatto memoria dell’evento fondatore di senso, la risurrezione di Gesù, e non lo avesse ritenuto un fatto vero.

In un caso e nell’altro la generazione dei padri o diventa una generazione di testimoni ["è accaduto un fatto, e questo fatto ti riguarda ora, poiché esso è il fatto che illumina la tua ragione, dona consistenza al tuo io, rende la tua libertà capace di grande rischi"] o diventa la generazione che apre la porta di casa della generazione dei figli all’ospite più inquietante, il nichilismo.

Possiamo finalmente dire in che cosa consiste l’emergenza educativa in cui ci troviamo. Essa è data da due fattori. Da una parte la generazione dei figli chiede – e non può non farlo – di entrare dentro ad un universo vero, buono, bello; dall’altra parte la generazione dei padri è divenuta straniera all’universo di senso: non sa più che cosa dire. L’emergenza educativa è l’interruzione della narrazione che una generazione fa all’altra: è l’afasia della generazione dei padri e l’incapacità della generazione dei figli di articolare perfino la domanda che urge dentro al loro cuore. I padri non rendono presente nessuna tradizione, perché ne hanno perso la memoria, e diventano testimoni del nulla e trasmettitori di regole. I figli si trovano a vagabondare in un deserto privo di strade, non sapendo più da dove vengono e dove sono diretti.

2. Come uscire dall’emergenza educativa.

Mi rendo conto che dovrei argomentare lungamente le affermazioni precedenti. Mi interessa però soprattutto indicare alcune vie, percorrendo le quali si può uscire dall’emergenza educativa.
Parto da una constatazione. Nonostante tutto, esiste la Chiesa. Esiste cioè una realtà, un popolo che custodisce la memoria del fatto che può dare consistenza invincibile alla nostra fragilità mortale; che compie questa custodia attraverso la testimonianza: la testimonianza dei misteri celebrati, l’opera della carità. È questo un fatto innegabile.
Non solo, ma questo fatto [custodia della memoria-testimonianza-carità] ha generato, e non poteva essere diversamente, una cultura, cioè un modo di essere nel mondo e di vivere [di sposarsi, di lavorare, di curare le malattie, di ragionare…] che è precisamente la modalità cristiana. È la grande tradizione cristiana, intesa almeno come forma di vita che ha plasmato un popolo.
A questo punto non posso procedere oltre senza dirvi però che ci sono due modi fondamentali di dimorare dentro a questa tradizione: quello proprio del credente e quello proprio del non credente. Presuppongo che cosa significa credere, e quindi non-credere.
2.1 Mi rivolgo ora ai credenti. Come uscire dall’emergenza educativa? Nessuno ha ricette preconfezionate. Tanto meno io. Voglio però indicarvi una via di uscita, facendo prima una necessaria breve premessa.
Il momento più forte in cui la memoria-testimonianza della Chiesa diventa eminentemente chiara è la celebrazione festiva dell’Eucaristia. Tutto quanto era il rito ebraico prefigurava il rito eucaristico; ciò che ho detto all’inizio è vero perfettamente nel rito eucaristico.
Il primo passo per uscire dall’emergenza educativa è il coinvolgimento pieno dei padri e dei figli dentro alla memoria eucaristica vissuta ogni domenica; è la partecipazione famigliare alla celebrazione eucaristica. Senza questo reale radicarsi dentro quell’evento che dona senso al tutto e alla vita di ciascuno, la narrazione dei padri ai figli rischia di essere vacua: priva di una trama vera. Cioè: incapace di generare un vita vera, buona, bella.
Questo incipit della narrazione della vita può incontrare subito due difficoltà: o il figlio, se piccolo, non capisce; o il figlio, se adolescente, si rifiuta. È la situazione analoga alla domanda da cui è partita tutta la nostra riflessione: "ma che cosa è tutto questo?".
È a questo punto che la costruzione della risposta deve essere condivisa fra la generazione dei padri e la madre Chiesa, la quale offre questa condivisione attraverso una vera e propria proposta educativa. Non si esce dall’emergenza educativa se non si costruisce questa condivisione, nei due sensi di marcia: della Chiesa da parte della famiglia, e della famiglia da parte della Chiesa.
Non voglio dilungarmi ulteriormente su tutta questa problematica. Ho già avuto varie occasioni per farlo, e cerco di non perderne neppure una fra quelle che mi si presentano. Vorrei solo aggiungere che la capacità educativa insita nel fatto cristiano rimane intatta, anche nella condizione di emergenza educativa in cui ci troviamo. Anzi, la storia dimostra che questa capacità si manifesta soprattutto nei momenti di maggior difficoltà e di crisi.

2.2. Mi rivolgo ora ai non-credenti o comunque a chi vive in una condizione di grave incertezza sui temi che stiamo affrontando. Lo faccio iniziando da alcune semplici osservazioni.
Il rapporto educativo istituisce una relazione fra due persone, alla fine. Ciò che è in questione e a rischio nell’atto educativo è una persona; è qualcuno, non qualcosa. Una realtà dunque di incomparabile preziosità.
La tradizione cristiana si presenta come quel terreno nel quale è radicata la vita del nostro popolo, di cui si nutre la nostra cultura. È sapiente che si educhi la generazione dei figli partendo da una censura, da un taglio radicale e profondo non solo con il cristianesimo ma più in generale con la religione come tale? Poiché questo è ciò che oggi si va proponendo, in nome di una male intesa laicità e tolleranza. E qui si pone la seconda osservazione.

Voglio richiamare la vostra attenzione su un fatto. Immaginiamo che in una scuola si voglia celebrare il Natale. Può essere che ci sia qualche insegnante nelle scuole che … per rispetto a qualche bambino musulmano presente in aula parli e presenti il Natale come la festa del solstizio, con l’inevitabile presenza di Babbo Natale, e gli immancabili sermoni sulla pace e la solidarietà. Si trasforma cioè una narrazione storica in un "mito" che offre lo spunto per esortazioni moralistiche. Si compie in realtà un’operazione ideologica, che viene imposta al bambino, sradicandolo dalla tradizione in cui vive.
La seconda osservazione quindi è la seguente. L’oblio della tradizione o la sua trascuratezza ci fa ripartire dal niente, costringendoci a costruzioni ideologiche dettate dal momento. Il padre che nella cena ebraica rispondeva al figlio, la madre che rivela al bambino il senso ultimo della morte della sorellina, mostrano che siamo dentro ad una dimora; che non stiamo vagabondando in un deserto da cui ci si salva solo col nostro impegno. È un popolo, quello di Israele, voluto e protetto da una Potenza infinita; perfino la morte della persona amata non distrugge il senso dell’esistenza, poiché Cristo ci ha redenti.

Una terza osservazione. L’azione educativa è sempre a rischio. Generando una persona libera, è sempre possibile che prima o poi chi è stato educato faccia scelte contrarie alla proposta educativa che lo ha formato. È il rischio educativo. Esso non è solo presente in un rapporto educativo non riuscito, ma in ogni rapporto educativo.
Tutto quanto ho detto nelle due osservazioni precedenti va letto alla luce di questa terza. Radicarsi nella nostra tradizione cristiana non significa rinuncia  ad educare alla libertà. Al contrario. Significa però rifiutare l’idea astratta di libertà secondo la quale è libero chi non appartiene a niente e a nessuno. Chi vive così finisce nella schiavitù.

Queste tre osservazioni si proponevano alla fine un solo scopo sul quale consentono credenti, dubbiosi e non-credenti. La vita del nostro popolo, la capacità dei padri di educare i figli; il legame più necessario nella vita di una nazione e più difficile da realizzare, quello cioè fra la generazione dei padri e la generazione dei figli, dipendono dalla custodia della nostra memoria cristiana; dalla testimonianza resa dai padri ai figli che essa è memoria di un fatto che ora dona consistenza e senso alla vita; dal confronto con le sfide inedite di oggi. Memoria, testimonianza, confronto: sono queste le cifre dell’impegno, della bellezza e della fatica di educare.
 
Conclusione
Avrete notato che la mia riflessione ha sempre parlato di rapporto educativo che si istituisce fra la generazione dei padri e la generazione dei figli. C’è una ragione per cui ho compiuto questa scelta: quel rapporto è il rapporto educativo originario. Ho taciuto completamente – il tempo a disposizione me lo imponeva – sulla scuola, pur essendo tema fondamentale. Essa entra nel fatto educativo con un modo suo proprio, la modalità dell’insegnamento, che richiederebbe una riflessione molto accurata.
Qualche anno fa, è apparso un libro di U. Galimberti: L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani [Feltrinelli, Milano 2007]. Per molti aspetti ci siamo trovati concordi; per altri e ben più decisivi, all’opposto. Quale è una delle tesi fondamentali del libro? Che sradicati dalla grande tradizione che li ha generati, i giovani si sono trovati in casa l’ospite più inquietante: il nichilismo. Non illudiamoci: questa è la condizione di molti giovani oggi. Ed allora?

Il profeta Malachia preannuncia che la venuta del Messia coinciderà colla "conversione del cuore dei padri verso i figli e del cuore dei figli verso i padri" e che sarà questa reciproca conversione a "risparmiare il paese dallo sterminio" [cfr. 3,24]. Quando l’angelo apparve a Zaccaria, gli preannuncia la missione del figlio Giovanni colle parole del profeta [cfr. Lc 1,17].
Il legame, anzi più profondamente la conversione intergenerazionale è già stata donata e rassodata: è un fatto già accaduto. È una grazia già donata nell’evento cristiano. Non dilapidiamola.