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mercoledì 18 maggio 2016

I NOVISSIMI: MORTE GIUDIZIO INFERNO PARADISO

Oggi alla domanda "Che cosa sono i novissimi?" rivolta a bruciapelo a grandi e meno grandi è difficile avere la risposta giusta. 


SU CERTE “COSE ULTIME“

Il novembre, mese dei morti, è passato da tempo: ma ogni momento è buono per riflettere  su quelle “cose ultime“ che, in realtà, dovrebbero essere al centro della nostra    meditazione, giorno dopo giorno, e non soltanto in certe date. Troppo spesso non è così, oggi, anche tra i credenti. Dunque, parliamone qui, almeno un poco.
Ovviamente, nessun luogo è propizio come un ospedale, per queste salutari riflessioni sulla vita e, soprattutto, sulla morte. Devo dire che, quanto a questo, non ho mancato di portarmi avanti, visto che – come secondo libro – sentii il bisogno di confrontarmi, e non fu facile, con quell’usanza di andarsene alla quale tutti, prima o poi, dobbiamo  adeguarci. Come ha detto qualcuno, è disperante che quando sembra arrivato il tempo di vivere davvero  -raggiunta una certa età, una posizione sociale, messo da parte    un po’ di denaro, un po’ di saggezza nata dall’esperienza– quando si è pronti a vivere, dunque,  ecco che è  il momento di morire. Per questo sorpresi e magari  delusi tanti lettori che, dopo il mio primo saggetto, si aspettavano qualcosa, come dire?, di più gradevole. Anche l’editore sperava di meglio, rispetto al brutale titolo che gli proponevo:Scommessa sulla morte. Ma tant’è: leggere o pubblicare un libro non è, grazie a Dio, un obbligo per alcuno: dunque, prendere o lasciare…. Per chi vuole, ci sono infinite altre possibilità. Quelle che Pascal chiamava, con triste ironia, divertissements: che non sono i nostri “ divertimenti “ bensì  le  deviazioni,  i sotterfugi per rimuovere il pensiero del destino che attende implacabile  tutti noi  che, non a caso, siamo  detti “mortali“.
Venendo ai fatti miei: per certi problemi ortopedici e reumatici  mi è stato prescritto di recente, tra le altre terapie, un ciclo di farmaci somministrati per  fleboclisi . Dunque,  al mattino presto, ecco l’assegnazione di un letto in una stanza con quattro letti,  ecco il rito del pigiama e delle pantofole, l’infilarsi sotto il  lenzuolo, il tendere un braccio  all’infermiere che ti infila un ago nella vena. Ago che un tubicino collega a un flacone posto in alto, sull’apposito trabiccolo accanto al letto. Una pratica, tutti lo sanno,  di assoluta routine in ogni ospedale. Ma il paziente (nome significativo..), il paziente – io, in quel caso-  ignora che il contenuto di quel flacone gli sarà somministrato non solo goccia a goccia ma con estrema lentezza. Soltanto dopo l’introduzione dell’ago, infatti,  mi si comunica che dovrò stare lì, supino, con il braccio teso,  per un minimo di sette ore. Magari, ancor meglio, pure otto: il farmaco che mi si inietta, mi dicono , è assai  “tosto“,  con possibili effetti collaterali anche gravi, dunque va assunto con prudenza, piano piano. Leggere giornali e libri, nel frattempo ? Meglio di no, ti viene detto con aria severa, bisogna stare ben fermi per evitare che l’ago fuoriesca e per non intralciare la discesa dell’enigmatico cocktail  chimico che riempie  il flacone. Meglio anche non mangiare le cose del  vassoio ospedaliero che sarà portato a mezzogiorno: un po’ di digiuno evita i movimenti pericolosi e in ogni caso fa sempre bene.
Così, per tutte quelle ore eccomi (per quella prima volta e per altre che sono seguite) eccomi dunque ad avere come sola occupazione l’attendere  – con lentezza esasperante, soprattutto per il mio temperamento impaziente, com’è d’obbligo per i nati sotto il segno dell’ariete- l’attendere, dunque, che  una goccia si stacchi  dal contenitore e scenda piano piano per il tubicino trasparente per finire il viaggio nella vena. Come colonna sonora, il lamento continuo nel letto accanto di un anziano terribilmente sofferente per una brutta caduta. Lamento che, ad ogni minimo movimento del  poveruomo si trasforma in un urlo straziante che ti risveglia di botto se per caso ti appisoli un momento.
Fissando il flacone mi è riemersa dalla memoria una lettura remota, fatta nei primissimi tempi della mia scoperta di un vangelo che rifiutavo senza conoscerlo, come oggi avviene a tanti, forse alla maggioranza. La lettura, cioè, di quello che fu per almeno due secoli uno straordinario best e long seller religioso, tradotto in tutte le lingue:  l’Apparecchio alla morte di Sant’Alfonso Maria de’Liguori. Colui, cioè, che ci ha liberati dai rigori del giansenismo, tenendo al contempo a bada i cedimenti del lassismo: un grande maestro della via mediana, un santo a me particolarmente caro in quanto conferma autorevole del doveroso et-et cattolico .
Di quel libro insieme terribile e consolante ricordavo soprattutto due cose. La prima, l’ammonimento a non accumulare tesori  di cui nulla potremo portare con noi e che   dovremo lasciare a parenti spesso avidi e litigiosi. Di recente, fp ha ricordato un detto piemontese che sentiva nella sua famiglia piemontese  e che non sarebbe dispiaciuto al santo napoletano: << Il sudario dei morti non ha le tasche >>. L’ammonimento di Alfonso ai benestanti era anche  perché, tra tanti poveri che morivano di fame, non si cibassero di cose in gran quantità e di ricercata qualità. Il cadavere di chi è  grasso – e, per un uomo del Settecento solo i danarosi  lo erano – sarà ancora più ripugnante. Perche, dice senza eufemismi né complimenti il nostro Napoletano, a causa di tutta quella carne accumulata nei banchetti e nei mille cedimenti alla gola, gravius foetent divitum corpora, i corpi dei ricchi puzzano di più. Un’espressione, come si vede,  brutale, in ogni caso  politicamente scorrettissima,  in quanto rifiuta ogni eufemismo e dice (cosa che troppo spesso neanche i cattolici sanno più fare) le cose come stanno davvero. E senza seguire le ipocrisie della nostra cultura che ha colpito di interdetto – si vedano i necrologi sui giornali – il semplice << è morto >> , e si nasconde dietro gli <<non è più tra noi>>, << è mancato >>, << è scomparso >>,  << ci ha lasciati >>, <<vive ancora>> e così via coi patetici esorcismi che portano persino i medici a censurarsi. Nel loro linguaggio, infatti, la morte  non ha il suo nome   da tutti e subito compreso, e a tutti sgradito, ma quello da specialisti che capiscono il latino: exitus. Comunque anche per la sua crudezza, quella di sant’Alfonso è un’espressione estremamente efficace: non a caso,  dopo averla letta una prima volta  sono passati i decenni ma  non l’ho più dimenticata. Se ne prendessero esempio tante omelie soporifere, piene di impotenti buonismi e di innocui appelli a dialoghi e accoglienze o anche – per i preti,  ultimi orfani degli anni Settanta, col suo marxismo   ridotto ad archeologia industriale – o anche  di  esortazioni  all’impegno sociale e alle “lotte”, naturalmente sempre e solo “per gli ultimi“ ! 
E qui , un inciso mi viene spontaneo, non posso non ricordare il cardinal  Giacomo Biffi , allora  arcivescovo di Bologna, che sentii sbuffare, con la consueta ironia, in un incontro che avemmo: <<Ma non c’è più nessuno, nella Chiesa, che , senza essere emarginato, possa preoccuparsi anche dei penultimi ? Peggio ancora: per i terzultimi – pare che essi pure abbiamo un’anima – chi avrà mai il coraggio di darsi da fare?…>>
Quando capiranno, tanti  nostri pastori, come capirono i loro confratelli  per secoli e secoli, che la vera  provocazione, il vero scandalo, in senso evangelico, non è l’indugiare in analisi moralistiche di fatti  di cronaca, magari politica, ma ricordare innanzitutto una realtà terribile o meravigliosa, a seconda della coscienza di chi ascolta? 
Questo tempo  breve che ci è dato, cioè, questi anni che fuggono  sempre più velocemente man mano che l’età avanza, ci sono stato dati solo preparazione all’eternità . Il Codice di diritto canonico ricorda, al termine delle sue articolate e complesse norme per regolare la Chiesa come istituzione, che la struttura è sì necessaria, per  logica stessa dell’Incarnazione, ma non è che  un mezzo per raggiungere lo scopo supremo. Salus animarum suprema lex Ecclesiae esto, ammoniscono i giuristi di quel Codex alla fine del loro lavoro. Tutto l’apparato mondano, tutta la  struttura ecclesiale con il papato, le diocesi, le parrocchie e i rispettivi apparati non ha che un fine ultramondano: adoperarsi per la salvezza del maggior numero possibile di uomini e di donne nell’Aldilà.
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Ma, tornando al mio ospedale: nelle ore che scorrevano lente in quel  letto, non era per le  parole “scorrette “ – secondo l’ipocrisia del mondo-  sui ricchi e la loro  fine  che mi veniva in mente il celeberrimo, un tempo, Apparecchio alla morte.  Guardando il flacone di farmaco che sembrava non svuotarsi mai,  pensavo ad una altra  esortazione, quella centrale del libro di sant’Alfonso : la necessità, per tutti, di  meditare sull’eternità che sta nel futuro comune. Eternità di vita felice ,ma anche di possibile vita infelice, per usare un timido eufemismo. Diceva il  libro, lo ricordo bene (qui cito ad sensum, non riuscendo a ritrovare il testo nell’eccesso di volumi  della mia biblioteca), diceva, dunque, per  cercare di far capire la posta in gioco: << Immagina, lettore, di star fermo, in piedi, davanti a un blocco di durissimo granito alto più di cento piedi. E pensa a un goccia, una soltanto, che vi cade sopra ogni cent’anni. Ebbene, quando le gocce, millennio dopo millennio, avranno perforato tutta quell’alta roccia, sappi che l’eternità non sarà neppure cominciata>>. Immagine, anche questa, tanto cruda quanto efficace. Il gocciolio che mi sovrastava, in  quell’ospedale bresciano, sarebbe durato alcune ore ma sapevo che, comunque, avrebbe avuto  un termine a breve, ogni  stilla che cadeva mi avvicinava all’infermiere che mi avrebbe tolto il pungiglione dell’ago e tolto al contempo dall’immobilità: avevo, da uomo libero,  fatto colazione al mattino, avrei fatto cena, nuovamente libero, alla sera. Ma se non fosse finito mai, proprio mai? Se non ci fosse più stata la speranza  di un termine? Se davanti a me si ergesse  la roccia alta cento piedi, alla quale ne  sarebbero seguite altre, all’infinito?
ETERNITA'
Come càpita, credo, a chiunque , non riesco a meditare sul  concetto di “ eternità “ senza essere colto da una sorta di vertigine. Sant’Alfonso ci esorta a farlo per  sgomentarci, per  metterci in guardia dall’inferno eterno che minaccia i peccatori che si ostinano sino alla fine nei loro errori e che non confidano nell’aiuto di Dio , sempre possibile purché lo si chieda. Ma la stessa eternità la ritroveremo , ci assicura la fede, in paradiso . Dolore senza fine da una parte , gioia senza fine dall’altra . Qui pure   vengono, a pensarci dei  brividi: ma di quelli da augurare a noi e agli altri.  Mi viene in mente il frammento di un altro autore cristiano, morto pochi decenni dopo  del santo napoletano, mi viene in mente, cioè l’annotazione esultante del solito Pascal : << Eternamente felici in Cielo  per un poco di esercizio in Terra! >>. Eh, sì , vale  davvero la pena – per trovare sia salutare spavento che confortante attesa-  di riflettere almeno un poco su infinito ed eternità  .
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In ospedale càpita , ovviamente, di intravedere morti. Dico intravedere perché, appena spirati, un infermiere li copre subito  con un lenzuolo, in attesa che intervengano quelle che , con un termine barocco giunto sino a noi, chiamano “pompe funebri “. Non si capisce se quella frettolosa copertura del cadavere sia una reazione  di rispetto o di timore: la fretta affannosa di nascondere la morte, quel rimuoverla come se non esistesse che contrassegna la nostra cultura.
Ecco, mi viene da pensare davanti a ogni cadavere, ecco : ora costui “sa”. I morti, ed essi solo , sono i veri sapienti. Varcata la soglia dell’Aldilà, l’ignorante, l’analfabeta , l’anonimo ne sa all’istante infinite  volte di più del  grande, famoso filosofo o, in generale, pensoso ed ascoltato intellettuale. Costoro, su ciò che conta, sul mistero del vivere e del morire , possono  solo avanzare ipotesi, tanto più illusorie quanto più sofisticate. Il morto, invece, ogni morto, non ipotizza ma vede, constata . Appunto, “sa“. Comprende di colpo come stiano davvero le cose, in Terra come in Cielo. Dunque, quel vecchietto che ieri ho visto agonizzare, quell’omino che a medici e infermieri sapeva parlare solo in dialetto e probabilmente non sapeva che significasse pensare se non per affrontare  i semplici eventi della sua anonima vita quotidiana; dunque, ora lo intravedo morto e la fede mi assicura che adesso ne sa mille volte di più  non solo di me ma anche di un grande maestro di filosofia, di un premio Nobel, dell’autore di molti saggi riveriti, dall’aspetto profondo e in realtà ingannevoli .
Credo che anche ai  sapienti secondo il mondo la misericordia del Cristo aprirà le porte del paradiso,  ma solo dopo aver constatato e dunque riconosciuto, con umiltà,    che quella loro sapienza era troppo spesso quella di ciechi alla guida di  altri ciechi.
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Restando in tema , mi va ora di parlare un poco di sant’Andrea Avellino. Chi era costui ? Sospetto che anche molti cattolici, pur praticanti, ne conoscano soltanto  il nome : e magari neanche quello . Dunque, occorre  un piccolo promemoria. Vissuto nel Cinquecento, lucano  di Potenza,  avvocato in giovinezza,  si fece Teatino, sacerdote cioè  della famiglia religiosa appena fondata che ebbe un grande ruolo nella lotta contro l’eresia protestante e nella successiva  riforma cattolica. Una curiosità: l’ardita,  grande cupola (ora in restauro dopo l’incendio) della cappella che, a Torino, custodisce la Sindone e sovrasta la cattedrale della città,  fu costruita da padre Guarino Guarini , uno dei maestri del barocco, nonché  frate teatino. Nella giovane Congregazione, il già avvocato Avellino lavorò senza badare a fatiche e a rischi . Addirittura  fu vittima di due aggressioni che, nelle intenzioni, dovevano essere  mortali: lo si voleva uccidere per vendicarsi delle severe riforme che aveva imposto a monasteri, sia maschili che femminili, dove le regole erano assai rilassate. A tal punto era degradata la vita religiosa: si poteva giungere all’omicidio pur di non rinunciare agli agi e ai vizi dei conventi. Malgrado l’impegno febbrile arrivò ad età avanzata. Aveva già superato gli ottanta quando, celebrando all’alba la messa , ancora in forze e apparentemente in buona salute, fu fulminato da un infarto  e si accasciò sull’altare con nelle mani l’ostia appena consacrata .
Da questa morte (la più bella, in fondo, per un sacerdote come lui, innamorato della divina liturgia) nacque il culto: fu invocato come difensore dalle morti improvvise, fu pregato come intercessore perché la morte non ci colga impreparati, perché si abbiano il tempo e le forze per ricevere i tre sacramenti pegni di salvezza . La confessione, l’eucaristia , l’unzione degli infermi.
La mia famiglia non era religiosa ma, tra le poche tracce di devozione – o presunta tale – mi colpiva l’invocazione o, meglio l’interiezione , di alcune mie parenti alla notizia di qualche morte improvvisa. Sant’Andrea Avelein!, esclamavano storpiandone il nome, mentre io mi chiedevo chi fosse quel tale. Ebbi poi, ovviamente. l’occasione di conoscerlo e, così,  ormai da molto tempo, è tra i santi di cui ogni sera  chiedo l’intercessione . Ne faccio con reverenza il nome ovviamente  dopo quello , illustre tra tutti, di san Giuseppe “patrono  della buona morte“ : e non a caso, essendo spirato, secondo la Tradizione, nella sua casa di Nazaret , avendo al capezzale la Sposa Maria e il figlio Gesù. Quale assistenza più eccelsa ? 
Sant’Andrea è colui che intercede per la grazia che la maggioranza dei nostri contemporanei non solo non desidera ma rifiuta spaventata. Interrogando la gente , se si ha il coraggio (ne occorre, visto il divieto sociale anche solo di accennare a questo) il coraggio, dunque, di chiedere come vorrebbero  morire , la risposta della maggioranza è : nel sonno, di colpo, senza accorgermene. E’ proprio ciò che il cristiano  dovrebbe  chiedere al santo lucano di evitarci : gli si domanda di intercedere per permetterci di  “vivere la morte“ , preparandoci in modo adeguato, accompagnati dalla preghiera di chi ci vuol bene  e dai sacramenti della Chiesa. L’ossessione attuale del viaggio turistico porta tanti a perdere tempo e fatiche per la richiesta di passaporti, di visti , di vaccinazioni, di informazioni, di prenotazioni, magari di abiti adeguati al clima dell’esotico luogo dove si desidera andare. E proprio per il viaggio definitivo, quello senza ritorno,  quello che ci condurrà nella dimensione eterna , proprio per quello non solo non cerchiamo ma rifiutiamo la preparazione adeguata?
Vivaio- Gennaio 2015 Il Timone, di Vittorio Messori

martedì 7 luglio 2015

NON PREDICANO I NOVISSIMI, NON ASCOLTATELI!



Ma questo è ancora Cristianesimo? 


 Per la salvezza eterna dell'uomo, di ogni uomo, e non per renderlo cosciente di una salvezza già avvenuta: per questo c'è la Chiesa. 

 La differenza sta tutta qui. Ormai il Cattolicesimo in mezzo a noi ha preso un'altra forma, questo fatto è sotto gli occhi di tutti. La preoccupazione non è più la salvezza delle anime. Chi frequenta ancora le chiese, difficilmente sentirà predicare questo che è il cuore del cristianesimo: Nostro Signore Gesù Cristo è l'unico Redentore, occorre pentirsi e cambiare vita, essere battezzati e accostarsi ai sacramenti, occorre vivere in grazia di Dio per la salvezza dell'anima nostra. No, di tutto questo non si parla più. E lo vedremo in questo “Anno della fede”, nel quale, ahimè, si sarà preoccupati di celebrare le date della Chiesa, ma non si affermerà la preoccupazione della salvezza delle anime. 

  Perché tutto questo? Semplicemente perché dopo il Concilio si è di fatto prodotta una mutazione della fede cattolica, i cui tragici frutti cogliamo pienamente in questi tempi. 

  Hanno in testa molti, troppi, quasi tutti, che la salvezza delle anime è già avvenuta, e che ora bisogna solo rendere coscienti gli uomini di questo dono dall'alto. È una Chiesa, questa, che ha spostato tutto sull'umano, sull'antropologia, sul benessere della persona, sulla ricerca della felicità. 

 Ma questo è ancora Cristianesimo? Gesù non è venuto perché senza di Lui non possiamo salvarci? Non è morto in Croce per liberarci dal potere del Demonio e per riaprirci il Paradiso? Non ha comandato ai suoi discepoli di predicare il Vangelo sino agli estremi confini della terra e di battezzare?: “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, chi non crederà sarà condannato” ...non è scritto così? 

  Invano attenderete, nei dibattiti televisivi sul Concilio, che l'ecclesiastico di turno vi parli della questione della salvezza eterna. Ma se non è in gioco questo, che ci sta a fare l'ecclesiastico di turno e la Chiesa stessa? Capita di vedere un Cardinale, quello di Milano, su “LA7”, sfoderare un irenismo ridicolo e cieco sulla situazione della Chiesa (“Quando visito le chiese, sono sempre piene”... “Non è vero che c'è crisi”), sentirlo parlare di un fumoso cristianesimo in un discorso che assomiglia più ad una lezione di antropologia, reagire infastidito alle chiare affermazioni del Prof. De Mattei sulla spaventosa crisi seguita al Vaticano II, mentre il laico di turno, nel caso Giuliano Ferrara, ricorda che occorre parlare anche dell'Inferno, oltre che della “pienezza umana” portata da Cristo. Siamo a questo punto: quelli fuori della Chiesa ricordano alla Chiesa l'essenziale, che essa non predica più. 

  Ma attenti tutto questo è più che drammatico, perché cambiare la prospettiva vuol dire cambiare tutto. 

 Se lo scopo è rendere migliore, più cosciente la vita di quaggiù, e non la salvezza eterna, siamo di fronte ad una modificazione profonda del Cristianesimo, siamo di fronte ad una nuova religione, che non è più quella di Nostro Signore Gesù Cristo. Siamo di fronte alla religione dell'uomo, e non alla religione di Dio. 

 Un grande sacerdote santo, il Père Emmanuel Andrè, chiamava tutto questo “Naturalismo”: tutto è ridotto alla natura, all'uomo. È il più grande e devastante cancro del Cattolicesimo. E lo stesso Pére Emmanuel diceva che occorre, di fronte a questo male, essere “uomini di Dio, uomini di reazione”: entrambe le cose... di Dio e di reazione. Sì: occorre PREGARE E REAGIRE, dire basta!, non avere più a che fare con coloro che stanno affossando la Chiesa e la fede Cattolica. 

 Sono nostri pastori coloro che custodiscono il cattolicesimo, non coloro che lo svendono trasformandolo in antropologia religiosa per entrare nei salotti culturali di questa stanca società occidentale. Come fare per sapere se i pastori sono degni di essere ascoltati e seguiti? È semplice: se parlano ancora della salvezza eterna, se parlano dei Novissimi: Morte, Giudizio, Inferno, Paradiso. Se nel loro parlare tutto questo non compare mai, diffidate, hanno già cambiato la fede.

<<SPIRITO SANTO, ISPIRAMI.
AMORE DI DIO, CONSUMAMI.
NEL VERO CAMMINO, CONDUCIMI.
MARIA MADRE MIA, GUARDAMI.
CON GESU’ BENEDICIMI.
DA OGNI MALE, DA OGNI ILLUSIONE,
DA OGNI PERICOLO, PRESERVAMI.>>


domenica 24 agosto 2014

NOVISSIMI


 I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: Novissimi

1. Grande disgrazia è dimenticare i novissimi. 

2. Quanto è utile ricordarsi dei novissimi. 
3. Come dobbiamo ricordare i novissimi.





1. GRANDE DISGRAZIA È DIMENTICARE I NOVISSIMI. - I novissimi, cioè gli ultimi fini, sono la morte, il giudizio, il paradiso, l'inferno, l'eternità. 

Dimenticare cose di tanta importanza, non prevederle, non prepararvisi, è la somma delle disgrazie che possa accadere ad un uomo. Infatti 

dimenticare la morte, vuol dire non pensare a prepararvisi, ed avventurarsi alla triste morte del peccatore: disgrazia irreparabile. 

Dimenticare il giudizio di Dio è un disprezzarlo; e allora sarà molto terribile questo giudizio. 

Dimenticare il cielo è grande sciagura, perché così facendo non si fa nulla per guadagnarlo, e si perde; e perduto il paradiso, tutto è perduto. 

Dimenticare l'inferno, è un andarvi incontro; e chi vi si incammina, facilmente vi precipita. 

Dimenticare l'eternità, è lo stesso che perdere il tempo e l'eternità; si può immaginare disgrazia più tremenda? Ciò non ostante, oh come è comune nel mondo la dimenticanza dei novissimi! Per ciò Gesù fulminò quello spaventevole anatema: «Guai al mondo»! (MATTH. XVIII, 7). 


A quanti si possono rivolgere quelle parole del Signore nel Deuteronomio: «Gente senza consiglio e senza prudenza, perché non aprire gli occhi e comprendere e provvedere ai loro novissimi?» (XXXII, 28-29). E quelle altre d'Isaia: «Tu non hai pensato a queste cose, e non ti sei ricordato dei tuoi novissimi» (XLVII, 7). 

Terribile imprudenza che ha conseguenze fatali è quella di dimenticare le cose future, di non considerare i novissimi per arrivarvi preparati. Che onta, che rabbia non sarà per i figli del mondo l'udirsi rinfacciare dai demoni nell'inferno: O sciagurati! voi sapevate che c'era un inferno, e potendolo schivare con poco costo, vi ci siete tuffati a capo fitto! Voi avete dimenticato i novissimi, e avete perduto tutto. 

Ci si parla dei nostri novissimi; noi li conosciamo, vi crediamo, e intanto operiamo come se non ci riguardassero affatto e non ne diventiamo migliori! O cecità fatale! O follia incredibile! O uomini stupidi e da compiangersi! Non pensare, non penetrare, non temere cose tanto gravi, non prepararvisi! 

2. QUANTO È UTILE RICORDARSI DEI NOVISSIMI. - «In tutte le tue opere, dice il Savio, proponiti sotto gli occhi i tuoi novissimi, e non cadrai mai in peccato» (Eccli. VII, 40). La ragione è chiara, poiché il fine che uno si propone, diventa il principio e la regola di tutte le azioni; ora il fine di tutte le cose sta compreso essenzialmente nei fini ultimi, ossia nei novissimi. Tutte le persone operano per un fine; perché dunque non operare guardando ai fini ultimi?... 

Chi dice a se stesso, quando si sente tentato a offendere Dio: Al punto di morte, vorrò io aver commesso questo peccato? - tosto si mette su l'avviso e resiste. - Quando sarò innanzi al tribunale di Dio, quando il giudice divino mi peserà nella bilancia della sua giustizia, vorrò che il peso dei miei misfatti vinca quello delle mie virtù? Ebbene, schiverò il peccato e praticherò la virtù. Mi sta a cuore di passare dal tribunale di Dio al cielo? dunque mi studierò di guadagnarmi  questo cielo. 

Forse che mi garberà udirmi al giudizio quella terribile sentenza: Partitevi da me, o maledetti, e andate al fuoco eterno? Dio me ne scampi! Dunque mi applicherò a chiudermi l'inferno per sempre, schivando soprattutto il peccato mortale. Quando entrerò nell'eternità, vorrò io aver perduto il tempo? Certo che no: conviene dunque che non ne perda un istante; - queste sono le salutari considerazioni che fa colui il quale non dimentica i suoi novissimi. 

Dunque chi non vede ch'egli diventa quasi impeccabile, compiendosi in lui il detto dello Spirito Santo: - Memorare novissima tua, et in aeternum non peccabis? - Il fine dell'uomo che è la beatitudine eterna, lo porta alla fuga del peccato e alla pratica della virtù, come a mezzi coi quali si ottiene la beatitudine. 

Per ciò S. Agostino dice: «La considerazione di questa sentenza: - Ricorda i tuoi novissimi e non peccherai in eterno - è la distruzione dell'orgoglio, dell'invidia, della malignità, della lussuria, della vanità e della superbia, il fondamento della disciplina e dell'ordine, la perfezione della santità, la preparazione alla salute eterna. Se ti preme non andare perduto, guarda in questo specchio dei tuoi novissimi ciò che sei e ciò che sarai tu la cui concezione è macchia vergognosa, l'origine è fango, il termine è putredine. Davanti a questo specchio, cioè in faccia ai novissimi, che cosa diventano le delicate imbandigioni, i vini squisiti, le splendide calzature, il lusso del vestire, la mollezza della carne, la ghiottoneria, la crapula, l'ubriachezza, la magnificenza dei palazzi, l'estensione dei poderi, l'accumulamento delle ricchezze? (Specul. CI)». 

Prendiamo dunque il consiglio di S. Bernardo e nel cominciare un'azione qualunque diciamo a noi medesimi: Farei io questo, se dovessi morire in questo momento? (In Speculo monach.). 
Simile a quella di S. Bernardo è la regola di condotta suggerita da Siracide, per ordinare e santificare tutte le nostre azioni: «In ogni tua impresa scegli quello che vorresti aver fatto e scelto quando sarai in punto di morte». Fate tutte le vostre azioni come vorreste averle fatte il giorno in cui comparirete innanzi a tutto il mondo, per renderne conto al supremo tribunale di Dio. Non fate cosa di cui abbiate a pentirvi eternamente: schivate quello che vi farebbe piangere per tutta l'eternità, quello che vi toccherebbe pagare nell'eterno abisso dell'inferno. Studiatevi di fare benissimo e perfettissimamente ogni cosa, affinché abbiate da rallegrarvi di tutto ciò che pensate, dite, e fate; e ne riceviate una ricca mercede in cielo. Ora la memoria dei novissimi procura tutti questi vantaggi... 

Non dimenticate anche che sono prossimi i vostri novissimi...; che incerta è l'ultima ora... Chi non teme una cattiva morte come avrà paura del giudizio e dell'inferno? Ah! se gli uomini pensassero di frequente al giorno della loro morte, preserverebbero la loro anima da ogni cupidigia e malizia... O voi, che volete essere eternamente felici, pensate sempre a quella sentenza. - Parlando di Gerusalemme, Geremia dice che «ella si dimenticò del suo fine, per ciò sdrucciolò in un profondo abisso di miserie e di degradazione» (Lament. I, 9). Dunque, pensando agli ultimi fini non si cade, e chi è caduto, si rialza. 

«Noi cessiamo di peccare, dice S. Gregorio, quando temiamo i tormenti futuri (Moral.)». Ripetiamo anche noi col Salmista: «Ho pensato ai giorni antichi, ho meditato gli anni eterni» (Psalm. LXXVI, 5). 


3. COME DOBBIAMO RICORDARE I NOVISSIMI

Perché il ricordo dei novissimi abbia tutta l'efficacia che ne promette lo Spirito Santo, conviene in primo luogo che non si fermi soltanto sopra di uno, ma li abbracci tutti. 

Per qualcuno infatti il pensiero della morte, invece di essere incentivo al bene può essere uno stimolo al male: «La nostra vita sfumerà come nebbia» (Sap. II, 3), dissero gli empi ricordandosi della loro morte imminente; ma da questo pensiero conclusero: « Venite dunque e godiamo finché abbiamo tempo» (Ib. 6). 

Perciò non dice il Savio nel citato testo: memorare novissimum tuum, ma novissima tua; perché il pensiero della morte riesca proficuo, ricordiamoci che alla morte terrà dietro un duro giudizio (Hebr.. IX, 27); che al giudizio andrà annessa una sentenza o di eterna pena o di eterno premio (MATTH. XXV, 46). 

Dal ricordo dei novissimi trae pure un gran vantaggio la vita spirituale del cristiano, la quale consistendo nella pratica delle quattro virtù cardinali, prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, trova nella meditazione dei novissimi un ottimo alimento. 

Infatti il ricordo della morte distrugge l'ambizione e la superbia, e così dà la prudenza. La memoria del giudizio, mettendoci dinanzi agli occhi quel giudice rigoroso, ci porta a usare giustizia e bontà col prossimo. Il ricordo dell'inferno reprime l'appetito dei piaceri illeciti e così avvalora la temperanza. La memoria del Paradiso diminuisce il timore dei patimenti di questa vita e così rinsalda la fortezza. 

Si richiede in secondo luogo, che questo ricordo sia fatto su la propria persona, come pare ci dica il Savio il quale non dice semplicemente: memorare novissima, ma vi aggiunge tua. Quanti vi sono, che ricordano i novissimi anche spesso, ora discorrendone nelle chiese, ora trattandone nei libri, ora disputandone su le cattedre, ora figurandoli o su marmi, o su bronzi o su tele? eppure non menano tutti una vita santa. Bisogna che chi ricorda i novissimi, pensi che proprio lui si troverà, e forse tra brevissimo tempo, al letto di morte... nella bara, al camposanto... Che proprio lui si presenterà al giudizio di Dio e a lui toccherà il castigo o il premio eterno. 

Conviene in terzo luogo che questo ricordo dei novissimi non sia cosa speculativa ma pratica, perciò lo Spirito Santo fa precedere al testo citato quelle parole: - in omnibus operibus tuis - in ogni tua azione. 
Se prima di ogni azione considerassimo i novissimi, non solo eviteremmo il peccato, ma troveremmo in quella considerazione la forza di praticare le più eroiche virtù. 

Sarebbe poi un errore il credere che il pensiero dei novissimi porti con sé la tristezza. Se lo Spirito Santo ci assicura che il ricordo frequente dei. novissimi basta a tenerci pura la coscienza: - In aeternum non peccabis - è cosa chiara che porta con sé la gioia del cuore che è la più grande di tutte le gioie. (Eccli. XXX, 16). E ne abbiamo infatti una conferma nel medesimo Ecclesiastico il quale dopo di aver detto in altro luogo: «Non abbandonarti alla tristezza, ma cacciala da te» (XXXVIII, 21), soggiunge subito - et memento novissimorum (Ib.). - e ricordati dei novissimi, quasi che il pensiero dei novissimi sia il più sicuro per tenere lontana dal cuore umano la tristezza.

martedì 27 maggio 2014

«Gesù mio, misericordia!». «Fratello mio, una Messa vale più di tutti i tesori del mondo». «Se noi siamo convinti e abbiamo fatto l'esperienza che, senza Cristo, la vita è incompleta, le manca una realtà – anzi la realtà fondamentale –, dobbiamo essere convinti anche del fatto che non facciamo ingiustizia a nessuno se gli presentiamo Cristo e gli diamo la possibilità di trovare, in questo modo, anche la sua vera autenticità, la gioia di avere trovato la vita. Anzi, dobbiamo farlo, è un obbligo nostro offrire a tutti questa possibilità di raggiungere la vita eterna»


In occasione del suo viaggio in Angola, papa Benedetto XVI ha rilevato un'obiezione spesso fatta ai missionari del Vangelo: «Perché non lasciamo gli altri in pace? Essi hanno la loro verità ; e noi, la nostra. Cerchiamo di convivere pacificamente, lasciando ognuno com'è, perché realizzi nel modo migliore la propria identità ». Il Papa ha risposto: «Se noi siamo convinti e abbiamo fatto l'esperienza che, senza Cristo, la vita è incompleta, le manca una realtà – anzi la realtà fondamentale –, dobbiamo essere convinti anche del fatto che non facciamo ingiustizia a nessuno se gli presentiamo Cristo e gli diamo la possibilità di trovare, in questo modo, anche la sua vera autenticità, la gioia di avere trovato la vita. Anzi, dobbiamo farlo, è un obbligo nostro offrire a tutti questa possibilità di raggiungere la vita eterna» (Omelia nella chiesa di São Paulo di Luanda, 21 marzo 2009). Tra i predicatori che hanno preso sul serio questo dovere di annunciare la salvezza a tutti è San Leonardo da Porto Maurizio.

Il 20 dicembre 1676, a Porto Maurizio, sulla costa ligure, nel nord Italia, viene al mondo un bambino posto con il battesimo sotto il patrocinio dei Santi Paolo e Girolamo. Dirà in seguito di aver ricevuto la grazia di avere dei genitori molto bravi. La sua giovinezza è esemplare; trascina facilmente i compagni a pregare e a fare opere buone. Uno dei suoi autori spirituali preferiti è San Francesco di Sales di cui ha sempre con sé il libro Introduzione alla vita devota. Trova sostegno morale e spirituale negli incontri di giovani organizzati dai gesuiti e degli oratoriani; vi attinge un crescente fervore per la pratica delle virtù, accompagnato dal desiderio delle penitenze. Nei giorni di festa, percorre le strade e le piazze di Roma, e, sfidando lo sprezzo e gli insulti, esorta tutti coloro che vogliono ascoltarlo a recarsi a sentire i sermoni nelle chiese.


Parole che vanno diritto al cuore

Paolo Girolamo si sente chiamato allo stato religioso.  Il suo confessore lo stimola a intensificare la sua vita di preghiera e di penitenza per ottenere la grazia di conoscere la volontà di Dio. Un giorno, al vedere due religiosi vestiti poveramente e dall'atteggiamento modesto, Frati Minori Riformati del «Ritiro di San Bonaventura», sente nascere in sé il desiderio di abbracciare il loro genere di vita. Entrando nella chiesa del convento nel momento in cui i Fratelli iniziano la recita della Compieta, sente queste parole: « Convertici, Dio, nostra Salvezza ! » Queste parole gli vanno diritto al cuore e decide di chiedere la sua ammissione. Accolto nel noviziato, riceve, il 2 ottobre 1697, l'abito e il nome di Fra Leonardo. Un anno dopo, pronuncia i suoi voti. Il giovane religioso è l'edificazione di tutti, in particolare per la sua fedeltà alle osservanze, anche a quelle che sembrano più insignificanti. Egli ama dire: «Se, mentre siamo giovani, teniamo in poco conto le piccole cose e vi manchiamo volontariamente, quando saremo avanti negli anni e avremo più libertà, ci permetteremo di mancare ai punti più importanti».Zelante per gli studi sacri, insiste sulla necessità di acquisire nuove conoscenze per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Dopo la sua ordinazione sacerdotale, viene nominato professore di filosofia. Si ammala però gravemente. I suoi superiori lo mandano a Porto Maurizio, suo paese natale, ma questo cambiamento d'aria si rivela inefficace. Il giovane Padre supplica allora la Vergine Maria di ottenergli dal suo divin Figlio una salute robusta che dedicherà a guadagnare anime per il Cielo. La sua preghiera viene esaudita; l'infermità di cui soffre scompare completamente.
Nel 1708, padre Leonardo predica, non lontano da Porto Maurizio, la sua prima «missione popolare». Questo nome viene dato a una serie di sermoni predicati nel corso di diversi giorni o settimane, presso una parrocchia, da un sacerdote di passaggio. Queste missioni, allora in voga, portavano frutti abbondanti. Tradizionalmente, il predicatore prendeva per tema la necessità di convertirsi al Signore al fine di condurre una vita veramente cristiana per la salvezza della propria anima.

Nel nostro tempo, parlare della salvezza dell'anima non è più di moda. Il contesto culturale e le ideologie diffuse rinchiudono sempre più l'uomo all'interno delle realtà terrene: molti vivono solo per questo mondo e non pensano a ciò che segue la morte. Per altri, vi è certo «un'eternità» dopo la morte, ma la salvezza non costituisce un problema: si immagina che tutti senza distinzione vadano in Paradiso. Il risultato, in entrambi i casi, è la noncuranza per la salvezza delle anime.


La vera felicità


Ora, «Dio ci ha creati per conoscerlo, servirlo e amarlo, e così giungere in Paradiso... La beatitudine promessa ci pone di fronte alle scelte morali decisive. Essa ci invita a purificare il nostro cuore dai suoi istinti cattivi e a cercare l'amore di Dio al di sopra di tutto. Ci insegna che la vera felicità non si trova... in alcuna creatura, ma in Dio solo, sorgente di ogni bene e di ogni amore... Il Decalogo, il Discorso della Montagna e la catechesi apostolica ci descrivono le vie che conducono al Regno dei Cieli» (Catechismo della Chiesa Cattolica, CCC, 1721-1724). Il Signore Gesù è venuto a rivelare agli uomini l'amore infinito del Padre che vuole che tutti siano salvati e partecipino alla sua vita divina in Cielo, ma Egli insiste anche sul fatto che gli uomini saranno giudicati secondo le loro opere e che coloro che non muoiono nell'amicizia divina non possiederanno la vita eterna. «Gesù parla ripetutamente della geenna, del fuoco inestinguibile, (cf. Mt 5,22.29; 13,42.50; Mt 9,43-48) che è riservato a chi sino alla fine della vita rifiuta di credere e di convertirsi, e dove possono perire sia l'anima che il corpo (cf. Mt 10,28). Gesù annunzia con parole severe che egli manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno (...) tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente (Mt 13,41-42), e che pronunzierà la condanna: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno! (Mt 25,41). La Chiesa nel suo insegnamento afferma l'esistenza dell'inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell'inferno, «il fuoco eterno». La pena principale dell'inferno consiste nella separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l'uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira» (CCC, 1034-1035).

La considerazione dei Novissimi, cioè delle realtà ultime, è al cuore dell'insegnamento di padre Leonardo. «Considera, scrive, quanto sia importante per te giungere alla tua meta ultima. Ne va di tutto per te; perché, se vi arrivi, sei salvato, sei eternamente felice, colmo di tutti i beni per l'anima e per il corpo. Se invece la manchi, sei perduto, corpo e anima, perdi Dio e il paradiso, sei eternamente infelice, dannato per sempre. Ecco allora, tra tutte le occupazioni, l'unica utile, importante, necessaria: servire Dio e salvarsi. Se tu perdessi ora una parte dei tuoi beni, te ne resterebbero degli altri; se perdessi una causa, potresti ricorrere in appello; se ti accadesse di commettere qualche errore temporale, può essere riparato. E qualora tu venissi anche a perdere tutto, che importa? Comunque, che ti piaccia o no, verrà un giorno in cui bisognerà lasciare tutto. Ma se manchi la tua meta ultima, perdi tutti i beni e attiri su di te mali irreparabili per tutta un'eternità. Che giova all'uomo, dice il Salvatore, se guadagna tutto il mondo e poi perde la propria anima? (Mt 16,26). Salvarci! ecco la nostra grande, la nostra unica occupazione. Quando non si tratta che delle faccende di questo mondo, se non ci pensi, un altro può pensarci per te; ma quando si tratta di quella grande della tua salvezza eterna, se non ci pensi, chi può pensarci per te? Se non te ne prendi cura, chi può assumere questo incarico per te? Se non ti aiuti da te stesso a salvarti, chi ti salverà ? Quel Dio che ti ha creato senza di te non vuole salvarti senza di te. Se vuoi salvarti , bisogna che tu ci pensi» (Meditazione sul fine dell'uomo).


L'ostacolo da rimuovere

Prima di iniziare un'opera, è necessario rimuovere gli  ostacoli che si oppongono alla sua realizzazione. L'ostacolo alla salvezza eterna è il peccato mortale, vale a dire una violazione pienamente cosciente della legge di Dio su una questione grave. «Il peccato mortale è una possibilità radicale della libertà umana, come lo stesso amore. Ha come conseguenza la perdita della carità e la privazione della grazia santificante, cioè dello stato di grazia. Se non è riscattato dal pentimento e dal perdono di Dio, provoca l'esclusione dal Regno di Cristo e la morte eterna dell'inferno; infatti la nostra libertà ha il potere di fare scelte definitive, irreversibili» (CCC, 1861).

A questo proposito, ecco in quali termini padre Leonardo era solito rivolgersi ai suoi ascoltatori: «Ah! come aveva ben ragione sant'Agostino a prendersela con la strana cecità che considera il male come un bene, e il bene come un male, secondo le parole di Isaia (5,20): Guai a coloro che chiamano «bene» il male e «male» il bene! Egli non sa come chiamare, se sia frenesia, passione o demenza, questo disordine, così comune tra gli uomini, per cui, pur essendo il peccato il male più abominevole che vi sia al mondo, non vi è al mondo un male che sia detestato meno del peccato... Ecco qual è l'origine di tante cadute, e perché tante anime fanno passi falsi, e si precipitano in un abisso di iniquità: il motivo è che non si pensa, no, non si riflette al male che si fa commettendo un peccato mortale» (Sermone sulla malizia del peccato mortale).

Alcuni pensano che il peccato mortale sia commesso solo in casi eccezionali di odio o di disprezzo esplicito di Dio. Ma San Giovanni Paolo II ha ricordato nell'Enciclica Veritatis splendor (6 agosto 1993): «La grazia della giustificazione, una volta ricevuta, può essere perduta non solo per l'infedeltà, che fa perdere la stessa fede, ma anche per qualsiasi altro peccato mortale... È peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso... Si ha, infatti, peccato mortale anche quando l'uomo, sapendo e volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente disordinato», il che avviene «in tutte le disubbidienze ai comandamenti di Dio in materia grave» (nn. 68 e 70). Il Catechismo spiega: «La materia grave è precisata dai dieci comandamenti, secondo la risposta di Gesù al giovane ricco: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre (Mc 10,19)» (CCC, 1858). Tra i peccati gravi frequenti, bisogna menzionare i peccati contro il sesto e il nono comandamento: «Sono peccati gravemente contrari alla castità, ognuno secondo la natura del proprio oggetto: l'adulterio, la masturbazione, la fornicazione, la pornografia, la prostituzione, lo stupro, gli atti omosessuali. Questi peccati sono espressione del vizio della lussuria» (Compendio del CCC, 492), che, senza essere il più grave, tuttavia porta alla cecità della mente sulle realtà eterne.
Non ci si deve quindi stupire delle seguenti parole di padre Leonardo: «Peccatore, a che cosa pensi? Saresti più duro della pietra? Hai mai riflettuto alla grazia tutta speciale che Dio ti fa dandoti il tempo di fare penitenza? Insensato che sei!... Che cosa fai per metterti al sicuro? Sarebbe troppo praticare qualche piccola mortificazione?... Sarebbe troppo preparare una buona confessione generale, per porre fine a questa vita piena di disordini che conosci?» (Invito alla penitenza).


Il rimedio

Ma padre Leonardo non si accontenta di fustigare il  male; fornisce anche il rimedio: lasciarsi conquistare dal Signore che offre a tutti la sua misericordia: «Considerate che se la giustizia di Dio è infinita nei confronti dei peccatori ostinati, la sua misericordia non è meno infinita nei confronti dei peccatori penitenti. Dio odia infinitamente il peccato; ma ama infinitamente le sue creature: non appena l'anima si pente del suo peccato, ritrova l'amore del suo Dio; se tutti i peccatori volessero ricorrere a Dio con un cuore contrito e umiliato, tutti sarebbero salvati. Questa bontà infinita desidera che tutti gli uomini arrivino in Paradiso... Una madre sarebbe meno sollecita nel soccorrere il suo bambino caduto nel fuoco di quanto Dio sia sollecito nell'abbracciare il peccatore pentito. Più i vostri peccati sono grandi, più è grande anche il trionfo della bontà, della carità, della clemenza di questo Dio infinitamente ricco di misericordia» (Meditazione sulla misericordia di Dio).

« Gesù invita i peccatori... alla conversione, senza la quale non si può entrare nel Regno, ma nelle parole e nelle azioni mostra loro l'infinita misericordia del Padre suo per loro (cf. Lc 15,11-32) e l'immensa gioia [che] ci sarà in cielo per un peccatore convertito (Lc 15,7). La prova suprema di tale amore sarà il sacrificio della propria vita in remissione dei peccati (Mt 26,28)» (CCC 545).

Diventato maestro nell'arte di guidare le anime, padre Leonardo ha spesso fatto l'esperienza dell'utilità di certe devozioni per aiutarle a convertirsi e a mantenersi nello stato di grazia ritrovato. 

Vi è prima di tutto la pratica delle tre Ave Maria. Questa pratica deve la sua origine alla benedettina tedesca santa Matilde, che un giorno chiese alla Madonna di ispirarle una preghiera che le piacesse. Le apparve la Vergine che portava sul petto a lettere d'oro l'Ave Maria. «Mai, le disse, si arriverà più in alto di questo saluto, e non mi si può salutare con più dolcezza che facendolo rispettosamente con queste parole»

Un altro giorno, la stessa santa chiedeva alla sua celeste Regina come ottenere sicuramente la grazia della perseveranza finale e della buona morte. Di nuovo, la santa Madre di Dio le si mostrò e le disse: «Se vuoi ottenere questa grande grazia, recita ogni giorno tre Ave Maria, in onore dei miei privilegi, e te la concederò ». San Leonardo si fa propagatore di questa devozione consigliando di recitare queste tre Ave Maria in onore dei privilegi di Maria: «Tutte le mattine al suo risveglio, e alla sera prima di coricarsi, l'anima devota a Maria chiederà la benedizione della sua santa Madre; non mancherà di recitare tre Ave Maria, in onore della sua purezza senza macchia, di offrirle i suoi sensi e tutte le potenze della sua anima, affinché li custodisca come cose a lei appartenenti e consacrate in suo onore, e le chiederà la grazia di non cadere, in quel giorno (o in quella notte), nel peccato».


La tromba dell'ultimo giorno


Il santo diffonde anche la breve invocazione: «Gesù  mio, misericordia!» Egli riferisce queste parole di un missionario: «Quando ritorno in un luogo in cui ho già predicato la missione, mi accade spesso di veder venire a me dei penitenti che iniziano la loro confessione con queste parole: «Padre mio, sono quel dissoluto che, diversi anni fa, è venuto a sgravarsi ai vostri piedi di un sacco di iniquità; non so se mi riconoscete, ma grazie a Dio, a partire da quella missione, non ho più commesso alcun peccato disonesto, né alcuna colpa mortale. – Come avete fatto? gli chiedeva il missionario. – Ah! Padre mio, ho messo in pratica la grande risoluzione che ci avete così fortemente inculcata di raccomandarci sovente a Dio con questa pia invocazione: 'Gesù mio, misericordia!' L'ho fatta tutti i giorni, mattino e sera, e, soprattutto nelle tentazioni, imploravo spesso l'aiuto di Dio dicendo: 'Gesù mio, misericordia!' Devo dirvi di più, Padre mio? Sentivo rinascere nella mia anima nuove forze e, in questo modo, non mi è più accaduto di soccombere»». E padre Leonardo proseguiva: «Fratelli miei carissimi, chi mi darà una voce di tuono, o piuttosto una di quelle trombe che risuoneranno nel giorno del giudizio finale, e, trasportato da un santo zelo, m'innalzerò sulla cima delle più alte montagne, e di là griderò con tutte le mie forze: Popoli smarriti! Svegliatevi una buona volta, e se volete assicurarvi la vostra eternità, raccomandatevi a Dio, ricorrete spesso a Lui, con queste o altre simili parole: «Gesù mio, misericordia!» E vi do la mia parola, poiché Gesù Cristo vi ha dato la sua prima di me nel suo santo Vangelo: «Chiedete e vi sarà dato (Mt 7,7), chiedete il mio aiuto e l'avrete, e con il mio aiuto non peccherete più». Ve ne do la mia parola, ripeto, se vi raccomandate spesso a Dio dicendo dal profondo del cuore: «Gesù mio, misericordia!» non peccherete più, e vi salverete».

L'esercizio della Via Crucis – che consiste nel seguire Gesù nelle tappe principali della sua Passione – esiste già a quell'epoca, ma è poco in uso al di fuori dell'Ordine francescano. Grazie a padre Leonardo, questa pratica si estenderà a tutta la Chiesa. Egli ne parla con affetto, e non teme di chiamarla «la madre di tutte le devozioni, in quanto la più antica, la più santa, la più pia, la più divina, la più eccellente, e meritevole, per questo, di avere, giustamente, la precedenza su tutte le altre». Da solo padre Leonardo istituirà 572 Via Crucis. La sua devozione alla Passione poggia su una lunga tradizione. San Bonaventura, per esempio, dichiara che, tra tutti gli esercizi di pietà, non ve ne sono che contribuiscano in modo più efficace alla santificazione.

Il Cielo benedice le opere del Padre e le missioni si moltiplicano. Quasi tutta l'Italia e la Corsica beneficiano delle sue predicazioni. Nel 1715, padre Leonardo viene nominato custode del convento di San Françesco al Monte, a Firenze, dove introduce la massima regolarità. Ma la solitudine di un convento ordinario non gli basta; cerca, come san Francesco ha fatto prima di lui, un luogo appartato dove poter, di tanto in tanto, vivere da solo con Dio. Fonda un eremo situato su una montagna, chiamato Santa Maria dell'Incontro, dove possono ritirarsi i religiosi che vogliono raccogliervisi. Vi si osservano le regole della più rigorosa povertà e ci si dedica ai lavori manuali. Ben presto, religiosi di diversi istituti e anche uomini laici chiedono di esservi accolti per partecipare agli esercizi spirituali. Padre Leonardo stesso lo ama tanto che solo il suo ardente zelo di apostolo può strapparlo da quel luogo.


Il sole del cristianesimo


Partito dopo il Giubileo del 1750 per un nuovo giro  di missioni, il Padre viene ben presto richiamato a Roma dal Papa. In uno spirito di obbedienza al Vicario di Cristo, si mette in cammino. Questo viaggio, in prossimità dell'inverno, gli è molto faticoso. Lasciando Tolentino si sente male, ma deve valicare le montagne. Arrivato a Foligno, desidera celebrare la Messa; a un Fratello che lo prega di rinunciarvi a causa della sua grande stanchezza, risponde: «Fratello mio, una Messa vale più di tutti i tesori del mondo». Aveva scritto in un opuscolo: «La Santa Messa non è niente di meno che il sole del cristianesimo, l'anima della fede, il cuore della religione di Gesù Cristo; tutti i riti, tutte le cerimonie, tutti i sacramenti vi si ricollegano. Essa è, in una parola, la quintessenza di tutto ciò che vi è di bello e di buono nella Chiesa di Dio... Per me, non ne ho nessun dubbio, senza la Santa Messa il mondo sarebbe a quest'ora in fondo all'abisso, trascinato dal peso spaventoso di tante iniquità. La Messa, ecco la leva vittoriosa che lo sostiene. Vedete quindi, dopo questo, a che punto il divino Sacrificio ci è indispensabile» (La Santa Messa, Tesoro Sconosciuto).

È recitando il Te Deum che padre Leonardo arriva al convento di San Bonaventura nel novembre 1751. Viene fatto scendere con difficoltà dalla carrozza: è così debole che non si sente più il suo polso. Appena arrivato all'infermeria, si confessa e riceve gli ultimi sacramenti, dopo aver pronunciato con un'energia sorprendente gli atti di fede, di speranza e di carità. Gli viene offerta una bevanda che accetta, poi dice: «Non ho abbastanza parole per ringraziare Dio per la grazia che mi concede di morire in mezzo ai miei confratelli». Poco dopo aver ricevuto l'Estrema Unzione, si addormenta tranquillamente nel Signore. Era il venerdì 26 novembre 1751. Canonizzato dal beato Pio IX, è stata dichiarato da Pio XI «celeste patrono dei sacerdoti che si dedicano alle missioni popolari».
San Leonardo, ottienici la grazia di un grande zelo per la salvezza delle anime!
Dom Antoine Marie osb