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lunedì 13 gennaio 2014

Imparare ad ascoltare


Preziosissimi ammaestramenti di Papa Benedetto XVI


"San Bonaventura disse una volta che gli Angeli, ovunque vadano, per quanto lontano, si muovono sempre all’interno di Dio". L’incontro di Benedetto XVI con i seminaristi del Seminario di Freiburg im Breisgau

Scritto da Redazione de Gliscritti: 26 /09 /2011 -


Riprendiamo sul nostro sito il discorso di Benedetto XVI nell’incontro con i seminaristi nella Cappella di San Carlo Borromeo del Seminario di Freiburg im Breisgau, del 24 settembre 2011. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.  
Il Centro culturale Gli scritti (26/9/2011) 
Cari seminaristi, cari fratelli e sorelle!

È per me una grande gioia poter incontrarmi qui con giovani, che si incamminano per servire il Signore; che ascoltano la sua chiamata e vogliono seguirlo. Vorrei ringraziare in modo particolarmente caloroso per la bella lettera, che il Rettore del seminario e i seminaristi mi hanno scritto. Mi ha veramente toccato il cuore vedere come avete riflettuto sulla mia lettera e su di essa avete sviluppato le vostre domande e risposte; con quale serietà accogliete ciò che ho tentato di proporre e, in base a questo, sviluppate la vostra propria via.

Certamente la cosa più bella sarebbe se potessimo avere un dialogo insieme, ma l’orario del viaggio, al quale sono obbligato e devo obbedire, purtroppo, non permette cose del genere. Posso quindi soltanto cercare di sottolineare ancora una volta alcuni pensieri alla luce di ciò che avete scritto e di ciò che io avevo scritto. 
Nel contesto della domanda: “Di che cosa fa parte il seminario; che cosa significa questo periodo?” in fondo, mi colpisce sempre più di tutto il modo in cui san Marco, nel terzo capitolo del suo Vangelo, descrive la costituzione della comunità degli Apostoli: “Il Signore fece i Dodici”. Egli crea qualcosa, Egli fa qualcosa, si tratta di un atto creativo.


Ed Egli li fece, “perché stessero con Lui e per mandarli” (cfr Mc 3,14): questa è una duplice volontà che, sotto certi aspetti, sembra contraddittoria. “Perché stessero con Lui”: devono stare con Lui, per arrivare a conoscerlo, per ascoltarlo, per lasciarsi plasmare da Lui; devono andare con Lui, essere con Lui in cammino, intorno a Lui e dietro di Lui. Ma allo stesso tempo devono essere degli inviati che partono, che portano fuori ciò che hanno imparato, lo portano agli altri uomini in cammino – verso la periferia, nel vasto ambiente, anche verso ciò che è molto lontano da Lui.

E tuttavia, questi aspetti paradossali vanno insieme: se essi sono veramente con Lui, allora sono sempre anche in cammino verso gli altri, allora sono in ricerca della pecorella smarrita, allora vanno lì, devono trasmettere ciò che hanno trovato, allora devono farLo conoscere, diventare inviati. E viceversa: se vogliono essere veri inviati, devono stare sempre con Lui. San Bonaventura disse una volta che gli Angeli, ovunque vadano, per quanto lontano, si muovono sempre all’interno di Dio.

Così è anche qui: come sacerdoti dobbiamo uscire fuori nelle molteplici strade in cui si trovano gli uomini, per invitarli al suo banchetto nuziale. Ma lo possiamo fare solo rimanendo sempre presso di Lui. Ed imparare ciò, questo insieme di uscire fuori, di essere mandati, e di essere con Lui, di rimanere presso di Lui, è – credo – proprio ciò che dobbiamo imparare nel seminario. Il modo giusto del rimanere con Lui, il venire profondamente radicati in Lui – essere sempre di più con Lui, conoscerLo sempre di più, sempre di più non separarsi da Lui – e al contempo uscire sempre di più, portare il messaggio, trasmetterlo, non tenerlo per sé, ma portare la Parola a coloro che sono lontani e che, tuttavia, in quanto creature di Dio e amati da Cristo, portano nel cuore il desiderio di Lui.

Il seminario è dunque un tempo dell’esercitarsi; certamente anche del discernere e dell’imparare: Egli mi vuole per questo? La vocazione deve essere verificata, e di questo fa poi parte la vita comunitaria e fa parte naturalmente il dialogo con le guide spirituali che avete, per imparare a discernere ciò che è la sua volontà. E poi apprendere la fiducia: se Egli lo vuole veramente, allora posso affidarmi a Lui. Nel mondo di oggi, che si trasforma in modo incredibile e in cui tutto cambia continuamente, in cui i legami umani si scindono perché avvengono nuovi incontri, diventa sempre più difficile credere: io resisterò per tutta la vita. Già per noi, ai nostri tempi, non era tanto facile immaginare quanti decenni Dio avrebbe forse inteso darmi, quanto sarebbe cambiato il mondo.

Persevererò con Lui così come Gliel’ho promesso?... È una domanda che, appunto, esige la verifica della vocazione, ma poi – più riconosco: sì, Egli mi vuole – anche la fiducia: se mi vuole, allora anche mi sorreggerà; nell’ora della tentazione, nell’ora del pericolo sarà presente e mi darà persone, mi mostrerà vie, mi sosterrà. E la fedeltà è possibile, perché Egli è sempre presente, e perché Egli esiste ieri, oggi e domani; perché Egli non appartiene soltanto a questo tempo, ma è futuro e può sorreggerci in ogni momento.

Un tempo di discernimento, di apprendimento, di chiamata… E poi, naturalmente, in quanto tempo dell’essere con Lui, tempo di preghiera, di ascolto di Lui. Ascoltare, imparare ad ascoltarlo veramente – nella Parola della Sacra Scrittura, nella fede della Chiesa, nella liturgia della Chiesa – ed apprendere l’oggi nella sua Parola. Nell’esegesi impariamo tante cose sull’ieri: tutto ciò che c’era allora, quali fonti vi sono, quali comunità esistevano e così via. Anche questo è importante. Ma più importante è che in questo ieri noi apprendiamo l’oggi; che Egli con queste parole parla adesso e che esse portano tutte in sé il loro oggi, e che, al di là del loro inizio storico, recano in sé una pienezza che parla a tutti i tempi.

Ed è importante imparare questa attualità del suo parlare – imparare ad ascoltare – e così poterne parlare agli altri uomini. Certo, quando si prepara l’omelia per la Domenica, questo parlare… , o Dio, è spesso così lontano! Se io, però, vivo con la Parola, allora vedo che non è affatto lontana, è attualissima, è presente adesso, riguarda me e riguarda gli altri. E allora imparo anche a spiegarla. Ma per questo occorre un cammino costante con la Parola di Dio.

Lo stare personalmente con Cristo, con il Dio vivente, è una cosa; l’altra cosa è che sempre soltanto nel “noi” possiamo credere. A volte dico: san Paolo ha scritto: “La fede viene dall’ascolto” – non dal leggere. Ha bisogno anche del leggere, ma viene dall’ascolto, cioè dalla parola vivente, dalle parole che gli altri rivolgono a me e che posso sentire; dalle parole della Chiesa attraverso tutti i tempi, dalla parola attuale che essa mi rivolge mediante i sacerdoti, i Vescovi e i fratelli e le sorelle.

Fa parte della fede il “tu” del prossimo, e fa parte della fede il “noi”. E proprio l’esercitarsi nella sopportazione vicendevole è qualcosa di molto importante; imparare ad accogliere l’altro come altro nella sua differenza, ed imparare che egli deve sopportare me nella mia differenza, per diventare un “noi”, affinché un giorno anche nella parrocchia possiamo formare una comunità, chiamare le persone ad entrare nella comunanza della Parola ed essere insieme in cammino verso il Dio vivente.

Fa parte di ciò il “noi” molto concreto, come lo è il seminario, come lo sarà la parrocchia, ma poi sempre anche il guardare oltre il “noi” concreto e limitato al grande “noi” della Chiesa di ogni luogo e di ogni tempo, per non fare di noi stessi il criterio assoluto. Quando diciamo: “Noi siamo Chiesa” – sì, è vero: siamo noi, non qualunque persona. Ma il “noi” è più ampio del gruppo che lo sta dicendo. Il “noi” è l’intera comunità dei fedeli, di oggi e di tutti i luoghi e tutti i tempi.

E dico poi sempre: nella comunità dei fedeli, sì, lì esiste, per così dire, il giudizio della maggioranza di fatto, ma non può mai esserci una maggioranza contro gli Apostoli e contro i Santi: ciò sarebbe una falsa maggioranza. Noi siamo Chiesa: Siamolo! Siamolo proprio nell’aprirci e nell’andare al di là di noi stessi e nell’esserlo insieme con gli altri!

Credo che, in base all’orario, dovrei forse concludere. Vorrei soltanto dirvi ancora una cosa. La preparazione al sacerdozio, il cammino verso di esso, richiede anzitutto anche lo studio. Non si tratta di una casualità accademica che si è formata nella Chiesa occidentale, ma è qualcosa di essenziale. Sappiamo tutti che san Pietro ha detto: “Siate sempre pronti ad offrire a chiunque vi domandi, come risposta, la ragione, il logos della vostra fede” (cfr 1Pt 3,15).

Il nostro mondo oggi è un mondo razionalistico e condizionato dalla scientificità, anche se molto spesso si tratta di una scientificità solo apparente. Ma lo spirito della scientificità, del comprendere, dello spiegare, del poter sapere, del rifiuto di tutto ciò che non è razionale, è dominante nel nostro tempo. C’è in questo pure qualcosa di grande, anche se spesso dietro si nasconde molta presunzione ed insensatezza. La fede non è un mondo parallelo del sentimento, che poi ci permettiamo come un di più, ma è ciò che abbraccia il tutto, gli dà senso, lo interpreta e gli dà anche le direttive etiche interiori, affinché sia compreso e vissuto in vista di Dio e a partire da Dio.

Per questo è importante essere informati, comprendere, avere la mente aperta, imparare. Naturalmente, fra vent’anni saranno di moda teorie filosofiche totalmente diverse da quelle di oggi: se penso a ciò che tra noi era la più alta e la più moderna moda filosofica e vedo come tutto ciò ormai sia dimenticato… Ciononostante non è inutile imparare queste cose, perché in esse ci sono anche elementi durevoli. E soprattutto con ciò impariamo a giudicare, a seguire mentalmente un pensiero – e a farlo in modo critico – ed impariamo a far sì che, nel pensare, la luce di Dio ci illumini e non si spenga.

Studiare è essenziale: soltanto così possiamo far fronte al nostro tempo ed annunciare ad esso il logos della nostra fede. Studiare anche in modo critico – nella consapevolezza, appunto, che domani qualcun altro dirà qualcosa di diverso – ma essere studenti attenti ed aperti ed umili, per studiare sempre con il Signore, dinanzi al Signore e per Lui.
Sì, potrei dire ancora tante cose, e dovrei forse farlo… Ma ringrazio per l’ascolto. E nella preghiera tutti i seminaristi del mondo sono presenti nel mio cuore – non così bene, con i singoli nomi, come li ho ricevuti qui, ma tuttavia in un cammino interiore verso il Signore: che Egli benedica tutti, a tutti dia luce ed indichi loro la strada giusta, e ci doni molti buoni sacerdoti. Grazie di cuore.



venerdì 5 luglio 2013

Beato John Henry Newman


Beato John Henry Newman: 
un modello per la 
formazione sacerdotale di oggi 


P. Hermann Geissler, FSO 

Cari confratelli nel sacerdozio, 
vorrei innanzitutto ringraziare Padre Edoardo A. Cerrato, Procuratore 
Generale della Confederazione dell'Oratorio di San Filippo Neri, che mi ha 
gentilmente invitato ad intervenire in questa vostra giornata di ritiro e di preghiera. 
Ho deciso di parlare di un nostro amico comune: il Venerabile John Henry Newman. Il 
tema del mio intervento è: "John Henry Newman: un modello per la formazione 
sacerdotale di oggi". 

Il Cardinale Joseph Ratzinger, ora Papa Benedetto XVI, disse alcuni anni fa: "Il 
segno caratteristico del grande dottore nella Chiesa mi sembra essere quello che egli 
non insegna solo con il suo pensiero e i suoi discorsi, ma anche con la sua vita, poiché 
in lui pensiero e vita si compenetrano e si determinano reciprocamente. Se ciò è vero, 
allora davvero Newman appartiene ai grandi dottori della Chiesa, perché egli nello 
stesso tempo tocca il nostro cuore e illumina il nostro pensiero".1
Queste parole mettono in evidenza una dimensione importante del Cardinale 
Newman, fondatore dell'Oratorio di Birmingham e grande modello di pastore e di 
sacerdote per noi tutti. In queste semplici riflessioni vorrei ricordare e attualizzare 
alcuni aspetti caratteristici della sua vita e del suo pensiero, aspetti che potrebbero 
essere anche utili per il grande tema della formazione sacerdotale nel nostro tempo. 

l. Il primato di Dio

Nato il 21 febbraio 1801 a Londra ed educato nella confessione anglicana, 
Newman già da giovane aveva un forte senso religioso che si esprimeva 
principalmente nella lettura della Bibbia. La Sacra Scrittura gli diede, fin dai primi 
anni, regole morali elevate, ma le sue potenzialità intellettuali necessitavano di un 
qualcosa di più preciso e definito. Ben presto, a solo quattordici anni, subì la 
tentazione dell'incredulità e dell'autosufficienza. Voleva essere un gentleman, ma non 
credere in Dio; mirava ad essere buono, ma non religioso; non avevo capito che senso 
avrebbe amare Dio. 
Mentre lottava con questa tentazione, Dio bussò al cuore del giovane studente. 
Nelle vacanze del 1816 egli lesse il libro La forza della verità di Thomas Scott e fu 
profondamente colpito dal suo contenuto. Di seguito sperimentò la sua "prima 
conversione", che egli stesso considerò come una delle più importanti grazie della sua 
vita: si trattava di una acuta consapevolezza dell' esistenza e della presenza di Dio e 
del mondo invisibile. Nell'Apologia pro vita sua2 confessò che quest'esperienza ebbe un 
grande influsso sulla sua persona "isolandomi, cioè, dalle cose che mi circondavano, 
confermandomi nella mia sfiducia nella realtà dei fenomeni materiali e facendomi 
riposare nel pensiero di due soli esseri assoluti e luminosamente evidenti in se stessi, 


1 CARD. J. RATZINGER, John Henry Newman, uno dei grandi maestri della Chiesa: L'Osservatore 
Romano, 15 maggio 2005, 6. 
2 J. H. NEWMAN, Apologia pro vita sua (A), a cura di F. Morrone, Paoline, Milano, 2001. 2
me stesso e il mio Creatore" (A 137-138). 


Sin da questa prima conversione Newman cercò di amare Dio sopra ogni cosa e 
di seguire la Verità senza compromesso. "Quando avevo quindici anni (nell'autunno 
del 1816) si verificò in me un grande cambiamento di idee. Subii l'influenza di un 
credo definito, e accettai nella mia mente alcune impressioni del dogma che, per la 
misericordia di Dio, non si sono mai più cancellate od oscurate" (A 136). Cominciò 
quindi a rendersi conto dell'importanza delle grandi verità cristiane: l'incarnazione del 
Figlio di Dio, l'opera della redenzione, il dono dello Spirito che abita nell'anima del 
battezzato. 
La prima conversione di Newman era un'esperienza molto profonda e 
personale, un'esperienza nella coscienza che avrebbe caratterizzato tutta la sua vita e 
tutti i suoi impegni. Sin da quel tempo cercava di mantenere vivo il legame con Dio, di 
rimanere nella sua presenza, di seguire la sua volontà. Il mondo invisibile di Dio 
diventava per lui più reale del mondo visibile. Il suo rapporto personale con Dio trovò 
espressione in tante preghiere che ancora oggi toccano il cuore dei fedeli. Ne cito 
soltanto una: O Dio, “sono peccatore, ma finché ti sarò fedele, tu mi sarai fedele sino 
alla fine e sovrabbondantemente io posso riposarmi tra le tue braccia, posso 
addormentarmi sul tuo seno. Dammi solo ed aumenta in me quella sincera lealtà verso 
di te, che è il vincolo dell' alleanza tra me e te, ed il pegno nel mio cuore e nella mia 
coscienza, che tu, il Dio supremo, non mi abbandonerai”3. Sin dalla prima conversione 
di Newman, Dio era al centro della sua vita, egli voleva essere innanzitutto un uomo 
di Dio. 
Oggi si sottolineano, con ragione, molti aspetti e presupposti che sono 
importanti per la formazione dei futuri sacerdoti. Un aspetto assai importante e spesso 
trascurato mi sembra essere quello del primato di Dio. Le nostre società occidentali 
sono nel pericolo di organizzarsi sempre di più senza Dio e talvolta anche contro Dio. 
Il sacerdote non può sapere tutto, non è suo compito di essere un esperto nella 
politica, nell' economia, nell' arte o nella scienza. Egli è chiamato ad essere soprattutto 
un "esperto" di Dio, un uomo che non soltanto sa molte cose su Dio, ma vive in una 
profonda amicizia con Dio, che si mette nell'ascolto di Dio, ha una conoscenza 
personale dì Dio, che conduce a Dio. Quando parliamo di Dio, ci riferiamo ovviamente 
a quel Dio che nel Signore Gesù ci ha mostrato il suo volto e ci ha aperto il suo cuore. 
Il primato di Dio, quindi, include il primato di Cristo, che è per tutti i fedeli, ma in 
primo luogo per i suoi ministri "la via, la verità e la vita" (Gv 14,6). "Simone di 
Giovanni, mi ami?" (Gv 21,15). Questa domanda del Signore risorto a Pietro è la 
domanda fondamentale per tutti i pastori, per tutti i seminaristi. Cerchiamo di 
rispondere sempre di nuovo, con le parole di Pietro, "Signore, tu sai tutto; tu sai che ti 
amo" (Gv 21,17). Solo conoscendo Dio personalmente, solo amando il Signore con 
umile e sincero amore, possiamo essere testimoni del Vangelo, sacerdoti secondo il 
cuore di Dio.

3 J. H. NEWMAN, Meditations and Devotions (MD), edited by P. Neville, Christian Classics, 
Westminster, Md. 1975, 421-422. Propria traduzione. 3


2. La responsabilità per le anime 

Ma ritorniamo a Newman. Un anno dopo la prima conversione, il giovane 
studente entrò nel Trinity College a Oxford per dedicarsi allo studio della teologia 
anglicana. Dopo solo tre anni fece gli esami finali e divenne, poco tempo più tardi, 
professore (fellow) nel famoso Oriel College. 
In quel periodo egli cercò di formare la sua mente e di seguire con diligenza i 
richiami della sua coscienza. In tal modo capì sempre più chiaramente che Dio lo 
chiamava al suo servizio. Nel 1824 fu ordinato diacono nella Church of England. Il 
tempo di preparazione a quest' ordinazione può essere considerato una seconda tappa 
decisiva per la sua vita, che gli apre una nuova dimensione: capì che era chiamato al 
servizio, che negli occhi di Dio aveva una responsabilità non soltanto per se stesso, ma 
anche per gli altri. Nel giorno dell'ordinazione diaconale scrisse nel suo diario le 
seguenti parole assai significative: “ora sono responsabile per le anime fino al giorno 
della mia morte”.4

Si può dire che il desiderio di Dio che Newman sentì dopo la prima conversione 
aveva ancora dei segni individualistici: "me e il mio Creatore". Adesso capiva che il 
vero servizio di Dio include necessariamente il servizio degli altri, il servizio 
ecclesiale. Scopriva così la dimensione pastorale e comunitaria della sua vocazione. 
Dopo l'ordinazione diaconale, accanto al compito di professore all'Oriel College, 
Newman si impegnò nella cura pastorale nella povera parrocchia di San Clemente ad 
Oxford. Predicava ogni domenica nella chiesa e cominciava a visitare i parrocchiani a 
casa. Tale metodo, la visita pastorale a casa, costituiva una grande novità in 
quell'epoca e fa vedere un aspetto fondamentale della personalità di Newman, cioè la 
sua profonda convinzione che nella testimonianza dei valori umani, spirituali e 
religiosi molto dipende dal contatto personale. 
Due anni dopo, già ordinato presbitero anglicano, Newman dovette lasciare la 
parrocchia di San Clemente perché divenne formatore (tutor) all'Oriel College. Come 
tale si impegnò molto per gli studenti, cercando di formare la loro mente, ma anche il 
loro carattere e la loro coscienza, di sviluppare tutte le loro facoltà, di educare tutta la 
loro persona. 
Poco dopo, Newman ricevette anche l'incarico di parroco della chiesa 
universitaria di Santa Maria ad Oxford, dove era solito predicare ogni domenica. 
Questi sermoni avevano un forte impatto sugli studenti e sui professori. Alla 
parrocchia universitaria apparteneva anche un piccolo villaggio vicino a Oxford, 
chiamato Littlemore. Regolarmente Newman visitava i parrocchiani di questo 
villaggio. Fece costruire per loro una chiesa e una scuola, segno che si impegnava 
sempre per la formazione sia della fede che delle facoltà intellettuali e umane. 
A partire da queste esperienze, Newman precisava più tardi, soprattutto nel suo 
capolavoro Idea di università, che ogni vera formazione deve comprendere tre

4 J. H. NEWMAN, Autobiographical Writings, edited by H. Tristam, Sheed and Ward, London - New 
York 1956, 201. Propria traduzione. 4

dimensioni che non possono essere separate l'una dall'altra: la scienza, la virtù e la 
religione. Egli fu davvero un protagonista della formazione personale e integrale. 
Ma il più intimo nucleo del suo impegno educativo stava nella sua convinzione 
di avere una grande responsabilità per le anime, per ogni persona a lui affidata. Per 
questo cercava di venire incontro ad ogni uomo, di capire la sua situazione personale, 
di offrirgli un buon consiglio, di educare e formare la sua coscienza. Più di 20 mila 
lettere, scritte da lui e raccolte in 34 grossi volumi, testimoniano tale senso di 
responsabilità, che è espressione di un profondo amore pastorale, di un grande zelo 
per le anime. Non per caso Newman scelse da Cardinale il motto Cor ad cor loquitur:si 
sentì toccato dal cuore di Dio e si impegnò con forza per toccare il cuore e la coscienza 
degli uomini. 
L'uomo di oggi è spesso caratterizzato da un forte individualismo, pensa 
soprattutto a sé stesso e non percepisce facilmente che è responsabile anche per il 
fratello e la sorella, per la comunità, per la Chiesa, per i poveri nel mondo. Ma il 
sacerdozio è una vocazione per gli altri, è un servizio che comporta una grande 
responsabilità per le anime, è la chiamata per essere un padre spirituale, secondo 
l'esempio di San Paolo: "Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non 
certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il 
vangelo. Vi esorto dunque, fatevi miei imitatori" (1 Cor 4,15-16). Mi pare importante 
sviluppare nei seminaristi questo senso di responsabilità e di paternità spirituale - non 
per seminare angoscia o paura, ma per far vedere con chiarezza l'identità e la missione 
del sacerdote. 

3. La fiducia nella provvidenza

Newman considerò il suo incarico di tutor come un ministero propriamente 
pastorale. Voleva essere un amico e un padre spirituale per gli studenti e cercava di 
formarli secondo i solidi principi del Vangelo. Non tollerava certi comportamenti 
mondani, intendeva mantenere un clima sereno e una disciplina ferma. Questo modo 
di educare, tuttavia, non piacque al Provost Hawkins, capo liberale del College, che 
decise di non affidare più studenti al professor Newman. 
Preoccupato dall'influsso crescente del liberalismo religioso e affaticato dal suo 
primo grande libro su Gli ariani del quarto secolo, nel 1832 Newman decise di 
intraprendere un viaggio attraverso il Mediterraneo. Andò anche in Sicilia, dove si 
ammalò gravemente. Le esperienze durante questa malattia possono essere 
considerate come una terza tappa importante del pellegrinaggio interiore di Newman. 
Scrisse in proposito: "A Leonforte fui preso dalla febbre. Il mio servitore 
credette che stessi per morire e chiese le mie ultime disposizioni. Gliele diedi, come 
aveva chiesto, ma dissi: 'Non morirò'. Ripetei: 'Non morirò, perché non ho peccato 
contro la luce, non ho peccato contro la luce'. Non sono mai stato capace di spiegarmi 
del tutto cosa volessi dire" (A 172). Durante questa malattia Newman vide nel più 
profondo della sua anima che aveva servito il Signore e i fratelli, ma notò anche il suo 
orgoglio e sentì il pressante invito a donarsi a Dio con più umiltà e a seguire la sua 
luce con più fedeltà. Sperimentò una "lotta" e la posta della lotta fu ben alta: si 
trattava di rinunciare alla propria volontà, ad una certa indipendenza nel giudizio, ad 5
ogni passione segreta che l'allontanerebbe da una vita nella quale Dio deve restare il 
Maestro, l'unico Maestro. 

Ritornando in Inghilterra, scrisse la famosa poesia Lead Kindly Light (Guidami, 
luce gentile), nella quale diede espressione all'esperienza vissuta durante la malattia in 
Sicilia.
Ecco il testo di quel celebre poema. 

“Guidami, luce gentile, tra la tenebra, guidami tu! 
Nera è la notte, lontana la casa; guidami tu! 
Reggi i miei passi; cose lontane 
non voglio vedere; mi basta un passo. 
Così non fui mai; né ti pregai così, per la tua guida. 
Amavo scegliere la mia strada; ma ora guidami tu! 
Amavo il giorno chiaro, l'orgoglio mi guidava, 
disprezzavo la paura: non ricordare quegli anni. 
Sempre mi benedisse la tua potenza; ancor oggi mi guiderà 
per paludi e brughiere, per monti e torrenti, finché svanisca la notte 
e mi sorridano all'alba i volti d'angeli 
amati a lungo e perduti ora”. 

L'esperienza della propria peccaminosità ("amavo scegliere la mia strada", 
"l'orgoglio mi guidava"), sempre presente nella vita di Newman, non lo scoraggiò, ma 
lo condusse ad una umile fiducia nella provvidenza ("guidami, luce gentile... mi basta 
un passo"). Di conseguenza, egli si abbandonò totalmente alla bontà e alla guida di 
Dio. 
In una bella meditazione Newman scrive: "O mio Dio, tutta la mia vita non è 
che una catena di misericordie e di benefici, diffusi sopra di un essere che ne è indegno. 
Non ho bisogno della fede per credere alla tua provvidenza verso di me, giacché ne ho 
fatto lunga esperienza. Tu mi hai condotto d'anno in anno, mi hai allontanato dalle 
strade pericolose, mi hai ritrovato se smarrito, mi hai rianimato, ristorato, mi hai 
sopportato, mi ha diretto, mi hai sostenuto. O, non abbandonarmi nel momento in cui 
la forza mi vien meno! Tu non mi abbandonerai mai! Io posso riposarmi in te con 
sicurezza" (MD 421). 
Ai nostri giorni possiamo notare una strana ambivalenza nei confronti della 
realtà del peccato: da una parte si tende a negare o a minimizzare molti peccati, d'altra 
parte si osserva uno scoraggiamento di molti che soffrono sotto il giogo dei peccati, 
delle difficoltà e dei limiti propri ed altrui. Tale scoraggiamento è diffuso anche 
all'interno della Chiesa e specialmente - mi pare - tra i sacerdoti. Ciò che manca spesso 
è l'umiltà di ammettere i propri peccati e di accettare la realtà così come è, di affidarsi 
totalmente alla misericordia del Signore e di continuare con serenità il proprio 
cammino. I seminaristi sono chiamati a perseverare sul cammino di una profonda 
conversione del cuore e a crescere nello stesso tempo nell'abbandono al Signore, nella 
certezza che Egli guida la Chiesa e ogni persona, nella fiducia che non siamo mai soli, 
ma che possiamo sempre contare sulla sua misericordia e affidarci alla sua 
provvidenza. Dice il Signore risorto a tutti noi: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, 6
fino alla fine del mondo" (Mt 28,20). 


4. Il coraggio della verità 

Per combattere l'influsso crescente del liberalismo a Oxford e in tutta 
l'Inghilterra, nel 1833 Newman iniziò, insieme con alcuni amici, il cosiddetto 
Movimento di Oxford. I suoi promotori denunciarono il distacco della nazione inglese 
dalla pratica della fede e lottarono per un ritorno al cristianesimo primitivo, 
attraverso una solida riforma dogmatica, spirituale e liturgica. Newman riassume il 
principio fondamentale del Movimento con queste parole: "Ciò che combattevo era il 
liberalismo, e per liberalismo intendo il principio antidogmatico con tutte le sue 
conseguenze... Dall' età di quindici anni il dogma è stato il principio fondamentale 
della mia religione: non conosco altra religione; non riesco a capire nessun'altra specie 
di religione; una religione ridotta a un semplice sentimento per me è un sogno e un 
inganno. Come non ci può essere amore filiale senza l'esistenza di un padre, così non ci 
può essere devozione senza la realtà di un Essere Supremo" (A 187-188). 
Con la pubblicazione di trattati di facile divulgazione, il Movimento di Oxford 
cercò di penetrare nella coscienza degli ecclesiastici come anche in quella dei semplici 
fedeli, posta fra due estremi: da una parte il sentimentalismo e dall'altra il 
razionalismo. Newman si rese conto che la polemica contro il liberalismo aveva 
bisogno di un buon fondamento dottrinale. Fu convinto di aver trovato questo 
fondamento negli scritti dei Padri della Chiesa, i quali ammirava come i veri araldi e 
dottori della verità cristiana. 

Mentre il Movimento si diffondeva, Newman sviluppò la teoria della Via media. 
Con essa intendeva dimostrare che la Comunione anglicana era l'erede legittima della 
prima cristianità e la vera Chiesa di Cristo in quanto non presentava né gli errori 
dottrinali dei protestanti né le corruzioni e gli abusi che pensava di vedere nella 
Chiesa di Roma. I cardini della Via media furono il dogma, il sistema sacramentale e 
l'antiromanesimo. Ma studiando la storia della Chiesa del quarto secolo, Newman fece 
una grande scoperta: trovò rispecchiata nei tre gruppi di allora la cristianità del suo 
secolo - negli ariani i protestanti, nei romani la Chiesa di Roma, nei semi-ariani gli 
anglicani. Poco dopo lesse un articolo in cui si paragonava la posizione dei donatisti 
africani al tempo di Agostino con quella degli anglicani. Newman non poteva più 
dimenticare la frase Securus iudicat orbem terrarum, citata da sant' Agostino, ovvero, 
nella traduzione dello stesso Newman: "Il giudizio deliberato a cui finalmente tutta la 
Chiesa si rimette e si acquieta, è una regola infallibile" (A 257). Egli capiva che nella 
Chiesa antica i conflitti dottrinali venivano risolti non soltanto in base al principio 
dell'antichità, ma anche in base a quello della cattolicità: il giudizio della Chiesa intera 
è decreto infallibile. Di conseguenza, "la teoria della Via media era assolutamente 
polverizzata" (A 257). 
Fedele al principio di ossequiare sempre la verità, Newman decise di ritirarsi a 
Littlemore per un periodo di preghiera e di studio. Iniziava a tirare le fila di una 
riflessione che lo accompagnava già da anni: se la Chiesa cattolica romana è nella 
continuità apostolica, come giustificare quelle dottrine che non sembravano far parte 
del patrimonio di fede della prima cristianità? Il principio dell'autentico sviluppo, che 
egli elaborò, gli permise di rendere ragione dei vari nuovi insegnamenti nella vita 7
della Chiesa: i dogmi più tardi erano sviluppi autentici della Rivelazione originale. 
Questo argomento, decisivo per il suo futuro, egli ha illustrato nel suo famoso saggio 
su Lo sviluppo della dottrina cristiana. 
Mentre Newman procedeva con tale studio, comprese che la Chiesa di Roma 
era la Chiesa dei Padri, la vera Chiesa di Cristo. Nell'Apologia scrive: "Man mano che 
progredivo le mie difficoltà scomparivano, sicché cessai di parlare di cattolici romani e 
li chiamai in tutta libertà cattolici. Prima di arrivare alla fine, risolvetti di chiedere di 
essere ammesso fra loro, e il libro è rimasto allo stato in cui si trovava allora, 
incompiuto" (A 375). Il 9 ottobre 1845 John Henry Newman abbracciò la fede 
cattolica e nel suo oratorio a Littlemore fu accolto dal beato Domenico Barberi, un 
passionista italiano, "nell'unico ovile di Cristo" (A 375). Scrisse in merito: "Dal giorno 
in cui divenni cattolico..., non ho avuto alcuna inquietudine nello spirito. Mi sono 
trovato nella più perfetta pace e tranquillità; non ho mai avuto alcun dubbio... fu come 
entrare in porto dopo essere stati nel mare in burrasca; e la mia felicità, a questo 
riguardo, dura ininterrotta fino ad oggi" (A 378). 
Una difficoltà per gli uomini e le donne del nostro tempo è il diffuso 
relativismo religioso ed etico, e cioè l'idea che nelle questioni religiose e morali non si 
potrebbe parlare di verità, ma soltanto di opinione e che sarebbe impossibile, anzi 
discriminante affermare che una religione o una Chiesa costituirebbe quella vera. 
Esiste inoltre una notevole ignoranza e confusione, tra gli stessi fedeli, circa gli aspetti 
fondamentali della fede cristiana. Da Newman possiamo imparare cosa significa 
cercare e seguire la verità, egli ci insegna il coraggio della verità. Pare importante 
offrire ai seminaristi di oggi una solida formazione dottrinale. Il mondo ha bisogno di 
sacerdoti che conoscono a fondo la verità della fede e dei costumi; al riguardo abbiamo 
a disposizione strumenti preziosi, se pensiamo, ad esempio, al Catechismo della Chiesa 
Cattolica e al Compendio che ci offrono una visione d'insieme della verità cattolica. Il 
mondo di oggi ha bisogno di uomini che annunciano la verità con la parola e con la 
coerenza della vita. Il mondo ha bisogno di testimoni che sono convinti, in coscienza, 
della verità della fede, che amano la Chiesa, sono cattolici felici, sacerdoti felici. 


5. La partecipazione alla croce 

Nella Chiesa cattolica Newman aveva trovato la pace del cuore; dopo alcuni 
mesi di preparazione nel Collegio di Propaganda Fide a Roma, fu ordinato sacerdote 
cattolico. In questo tempo faceva conoscenza dell'Oratorio di San Filippo e decise di 
farsi Oratoriano e di fondare, insieme con i suoi amici convertiti, un Oratorio in 
Inghilterra. Lo spirito di San Filippo gli piacque tanto. Scrisse in una preghiera che 
scaturisce dal suo cuore: "O mio Dio... m'hai dato san Filippo, questa grande creazione 
della tua grazia, come patrono e maestro; ed io mi son rimesso a lui, ed egli ha fatto 
per me grandissime cose; ha, in più modi, compiuto nei miei riguardi tutto quello su 
cui poteva legittimamente contare ch'egli avesse promesso" (MD 245). 
Nonostante la gioia di aver finalmente trovato la vera Chiesa e la propria 
vocazione, in questi anni Newman doveva subire una prova dopo l'altra e una 
delusione dopo l'altra. Nell'opinione pubblica molti uomini dubitavano della sua 
integrità personale, perché non erano in grado di capire come un uomo tanto 
intelligente avesse potuto lasciare la Church of England, unendosi ad un piccolo gruppo 8
di cattolici, posti ai margini e apertamente disprezzati dalla società inglese di allora. 
Da parte degli anglicani Newman era considerato un traditore, un uomo squilibrato 
che si era associato ad una comunità corrotta, in contraddizione con il vero 
cristianesimo e legata alla causa dell'Anticristo. 
Ma anche da parte dei fratelli cattolici doveva subire per quasi vent'anni 
incomprensione, diffidenza, sospetto e persino calunnia. Possiamo menzionare 
soltanto alcune di queste esperienze. 
Nella comunità dell'Oratorio, fondato da Newman a Maryvale e poi a 
Birmingham, si manifestavano contrasti che facevano soffrire l'anima sensibile di 
Newman. Ma ciò era solo l'inizio di una lunga serie di prove e di difficoltà. 
Nel 1851 Newman fu chiamato dai Vescovi dell'Irlanda a fondare una 
Università cattolica a Dublino, per l'ex tutor dell'Oriel College una meravigliosa e 
inattesa occasione di ritrovare la parte universitaria e la funzione di primo piano 
degna del suo genio. Newman si mise all'opera con grande zelo e tanti sacrifici, 
preparò una serie di discorsi, poi pubblicati sotto il titolo Idea di università, e fu 
nominato primo Rettore. Secondo il pensiero di Newman, l'Università cattolica 
doveva dare ai cattolici lo strumento di cultura e di formazione di una élite generosa e 
pienamente aperta ai problemi del tempo, capace di integrarsi nella società per 
assumervi una parte e un'influenza adeguate. Ma le sue idee non furono condivise dai 
Vescovi dell'Irlanda che volevano una Università difensiva, anti-protestante, clericale. 
Dopo molte delusioni, nel 1858 Newman prese atto del fatto che il progetto era fallito 
e dovette dimettersi dalla sua funzione di Rettore. 
Nello stesso anno Newman fu sollecitato dai Vescovi inglesi per un nuovo 
compito, difficile, ma per lui affascinante. Si trattava di una nuova traduzione inglese 
della Bibbia. Si accingeva con ardore al lavoro, trovava dei collaboratori, redigeva 
personalmente una prefazione, quando apprese che i vescovi americani stavano 
preparando anch'essi una versione inglese della Scrittura. Nessuno informava lo 
sfortunato Newman che dovette disimpegnarsi al più presto. 

Nel 1859 Newman, dopo essersi consigliato col suo vescovo, accettò l'incarico 
di direttore di una rivista, il Rambler, che cercò di affrontare i problemi di attualità, ma 
era stato guidato male. Il noto convertito vedeva in questa rivista l'occasione di dare 
una tribuna a un pensiero cattolico che non era ancora riuscito ad esprimersi nello 
stile equilibrato e generoso che aveva il diritto d'attendersi. Godendo di un indiscusso 
prestigio intellettuale, Newman poteva offrire alla Chiesa del suo paese un foro per il 
dialogo tra fede e scienza, tra Chiesa e società. Nel 1859 pubblicò due articoli sul posto 
dei laici nella Chiesa, affermando, con le necessarie precisazioni teologiche e una solida 
argomentazione storica, che essi hanno il diritto di affermare il consenso della loro 
fede su questioni dottrinali. Dopo questi articoli, che sono di una ortodossia 
indiscutibile, parecchi Presuli lo denunciarono con estremo vigore e lo costrinsero, 
tramite il suo vescovo, di dimettersi dalla direzione del Rambler.
Ma i suddetti articoli furono denunciati anche a Roma. Una nota di Newman, 
contenente utili spiegazioni, non arrivò mai alla Congregazione di Propaganda Fide e 
per alcuni anni Newman fu sospettato di eresia. Inoltre certi Prelati, della frazione 9
ultramontana, creavano a Roma l'impressione che Newman sarebbe pericoloso e 
inaffidabile. Famosa è la frase di Mons. George Talbot, che definiva Newman "l'uomo 
più pericoloso di tutta l'Inghilterra". Tutti questi sospetti non avevano alcun 
fondamento, ma erano il frutto di intrighi e di negligenze da parte di cattolici. 
Soltanto dopo la pubblicazione dell'Apologia pro vita sua nel 1864 la buona fama di 
Newman era riabilitata.

Come Newman poteva portare queste sofferenze, questa pesante croce? 
Unendosi alla croce del Signore e sentendosi in sintonia con Gesù sofferente. È 
significativa a proposito una testimonianza di una semplice donna di Birmingham, che 
nel 1862 disse a un padre dell'Oratorio: "Newman era molto convincente nella 
catechesi sulla croce. Povero Padre, egli sa bene come si parla della croce". Newman 
accettava tutte le prove con una spirito di penitenza e di pazienza. "Non mi stupisco 
per le prove; è la nostra sorte"5. Sapeva che sulla scia del Signore bisogna soffrire per 
la verità: "Per tutta la mia vita, ho predicato di soffrire per la verità; ora è il mio 
tumo"6. Newman non cercava di giustificarsi, lasciava la sua giustificazione a Dio: 
"Credo che il tempo sia il supremo rimedio e il vendicatore di tutti i mali del mondo 
che prospera. Se siamo pazienti, Dio lavora con noi. Lavora a favore di coloro che non 
lavorano per se stessi"? In mezzo alle sofferenze, Newman meditava spesso la 
passione di Gesù e la comprendeva in modo assai profondo: "Le sofferenze di Gesù", 
scrisse, "furono le più grandi di tutte, superarono quelle dei martiri, perché la 
sofferenza è in proporzione della sensibilità mentale dell'anima; l'anima di Cristo 
sentiva in maniera più forte di quella di qualunque altra persona" (MD, 21-22). 
Nel vangelo si legge che una volta Giacomo e Giovanni chiesero a Gesù di 
sedere nella sua gloria uno alla sua destra e uno alla sua sinistra. Il Signore rispose 
con una domanda ai due discepoli: "Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il 
calice che io bevo?" (Mc 10,38). Il Signore rivolge questa domanda anche a noi. Potete 
bere il calice che io bevo? Potete partecipare alla mia sofferenza? Potete portare con 
me la croce per la salvezza del mondo? Nella vita di un sacerdote la realtà della croce 
non può essere assente. Certo, dobbiamo eliminare, per quanto possibile, le croci fatte 
da noi stessi, dalla nostra imprudenza, dai nostri peccati. Ma le altre croci dobbiamo 
semplicemente accettare e portare unendoci al Signore. Il Seminario deve essere un 
luogo dove si impara anche la perseveranza, la fortezza, la pazienza, la capacità di 
portare la croce - non in una falsa mistificazione della sofferenza, ma in una sana 
spiritualità e comunione con il Signore crocifisso e risorto, sulla scia di Paolo: il suo 
grande desiderio era "conoscere lui (Cristo), la potenza della sua risurrezione, la 
partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la 
speranza di giungere alla risurrezione dei morti" (Fl 3,10-11).



6. La chiamata alla santità

L'elevazione alla dignità cardinalizia da parte di Papa Leone XIII nel 
Concistoro del 15 maggio 1879 fu il più grande riconoscimento di Newman su questa 
terra. Nell'occasione del ricevimento del "biglietto" per la sua elezione al Cardinalato, 
egli, guardando alla sua vita passata, disse tra l'altro: "Nel corso di lunghi anni ho 


5 W. WARD, The Life of John Henry Cardinal Newman, vol. I, Longmans, Green, & Co, London 1912, 
52. Propria traduzione. 
6 Ibid., vol. I, 286. 10


fatto molti sbagli. Non ho nulla dell'alta perfezione che si riscontra negli scritti dei 
santi, nei quali non ci possono essere errori; ma credo di poter affermare che in tutto 
ciò che ho scritto ho sempre perseguito nobili intenti, non ho cercato fini personali, ho 
tenuto una condotta ubbidiente, mi sono dimostrato disponibile ad essere corretto, ho 
temuto l'errore, ho desiderato servire la santa Chiesa e ciò che ho raggiunto lo devo 
alla misericordia di Dio"7. Queste parole evidenziano l'umiltà, la sincerità, la santità di 
un vero uomo di Dio. 
Una volta quando Newman sentì dire che l'avrebbero chiamato santo, scrisse 
con una bella porzione di umore: "Non sono portato a fare il santo, è brutto dirlo. I 
santi non sono letterati, essi non amano i classici, non scrivono romanzi. Io sono forse 
alla mia maniera abbastanza buono, ma questo non è alto profilo."8 "Mi basta lucidare 
le scarpe ai santi, se San Filippo in cielo avesse bisogno di lucido da scarpe".9
Newman lungo tutta la sua vita pensò di essere ben lontano dalla perfezione 
cristiana. Tuttavia, dalla sua “prima conversione”, la sua aspirazione fu tutta rivolta a 
Dio che riconosceva come il fulcro centrale della sua vita. Egli non perse più la viva 
coscienza della presenza di Dio e il profondo rispetto della verità rivelata. Un motto 
che fece suo da giovane diceva: “La santità piuttosto che la pace” (A 139). 
Nel primo dei famosi Sermoni parrocchiali, dedicato al tema della santità, 
Newman disse: "Più volte leggiamo che il grande fine cui mirava il Signore 
nell'assumere la nostra natura fu quello di rendere sante le creature che erano 
peccatrici... Tutta la storia della redenzione, l'alleanza della misericordia, in ogni suo 
singolo aspetto e disposizione, attestano la necessità della santità in ordine alla 
salvezza".10
Nelle Meditazioni e preghiere il grande teologo descrive con parole assai semplici 
ed efficaci la "via breve alla perfezione", sottolineando l'importanza della fedeltà nei 
doveri di ogni giorno: "Se voi mi domandate cosa dovete fare per essere perfetti, io vi 
rispondo: non rimanete a letto dopo l'ora fissata per la levata; rivolgete i vostri primi 
pensieri a Dio; fate una breve visita a Gesù in sacramento; recitate devotamente 
l'Angelus; mangiate e bevete per la gloria di Dio; recitate bene la vostra corona del 
rosario; siete raccolti; cacciate i cattivi pensieri; fate con devozione la vostra 
meditazione della sera; esaminate ogni giorno la vostra coscienza; giunta l'ora 
coricatevi e sarete già perfetti" (MD 286). 

Una volta un fanciullo voleva mettere in imbarazzo il vecchio Cardinale 
Newman rivolgendogli la domanda: "Chi è più grande, un cardinale o un santo?" Egli 
rifletté pochi secondi e poi rispose: "I cardinali appartengono a questo mondo, i santi 
appartengono al cielo"11. Newman fu creato Cardinale da Leone XIII, il suo processo 


7 Ibid., vol. II, 129. 
8 M. K. STROLZ, John Hemy Newman. Saggio commemorativo nel Centenario del Cardinalato, Roma 
1979, 110. 
9 J. H. NEWMAN, The Letters and Diaries, vol. XIII, ed. by the Birmingham Oratory, Thomas Nelson 
and Sons Ltd, London 1963, 419. Propria traduzione. 
10 J. H. NEWMAN, Parochial and Plain Sermons, vol. I, Christian Classics, Westminster, Md. 1966, l. 
Propria traduzione. 
11 L. BOUYER, Newman. His Life and Spirituality, Burns & Oates, London 1958, 387. 11


di canonizzazione è in corso. Nel 1991 il defunto Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato 
le sue virtù eroiche. Ora speriamo e preghiamo che il miracolo già esaminato dal 
Tribunale dell' Arcidiocesi di Boston faccia sì che il Santo Padre Benedetto XVI possa 
procedere presto alla sua beatificazione. 
Newman ha cercato di rispondere con fedeltà alla chiamata alla santità. Per 
questo motivo ha un influsso tanto grande sulle anime, fino ai nostri giorni. I santi 
sono come la finestra attraverso la quale la gloria di Dio illumina il mondo. "Come la 
luce del sole giunge a noi riflessa, così i santi di Dio sono gli strumenti attraverso i 
quali ci arriva la sua gloria" (A W 231). I santi manifestano la gloria di Dio, il vero 
volto della santa Chiesa e la grande vocazione dell'uomo. Tutti i fedeli, e in modo 
particolare i sacerdoti, sono chiamati alla santità. Ciò non significa fare cose 
straordinarie, ma esige il compimento fedele, gioioso e sereno dei doveri ordinari di 
ogni giorno. Questa fedeltà nelle piccole cose deve essere imparata ed esercitata già 
nel Seminario, poi potrà essere vissuta nel ministero sacerdotale. Tutta la formazione 
dei seminaristi ha questo grande scopo: educare i candidati ad una vita di semplicità, di 
fedeltà, di santità. 


Conclusione

Tutti gli aspetti della vita di Newman, che abbiamo meditato e applicato alla 
formazione sacerdotale, possono essere sintetizzati in una frase: siamo chiamati ad 
impegnarci perché Cristo prenda forma nella nostra coscienza. Tutto il periodo di 
formazione è un processo di conformazione al Signore Gesù: al suo volto divino e 
umano, alla sua paternità, alla sua luce, alla sua verità, alla sua sofferenza, alla sua 
santità. 

martedì 19 febbraio 2013

Dono particolare della Provvidenza...


INCONTRO CON I PARROCI E IL CLERO DI ROMA
DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Aula Paolo VI
Giovedì, 14 febbraio 2013

Eminenza,
cari fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio!


E’ per me un dono particolare della Provvidenza che, prima di lasciare il ministero petrino, possa ancora vedere il mio clero, il clero di Roma. E’ sempre una grande gioia vedere come la Chiesa vive, come a Roma la Chiesa è vivente; ci sono Pastori che, nello spirito del Pastore supremo, guidano il gregge del Signore. E’ un clero realmente cattolico, universale, e questo risponde all’essenza della Chiesa di Roma: portare in sé l’universalità, la cattolicità di tutte le genti, di tutte le razze, di tutte le culture. Nello stesso tempo, sono molto grato al Cardinale Vicario che aiuta a risvegliare, a ritrovare le vocazioni nella stessa Roma, perché se Roma, da una parte, dev’essere la città dell’universalità, dev’essere anche una città con una propria forte e robusta fede, dalla quale nascono anche vocazioni. E sono convinto che, con l’aiuto del Signore, possiamo trovare le vocazioni che Egli stesso ci dà, guidarle, aiutarle a maturare, e così servire per il lavoro nella vigna del Signore.
Oggi avete confessato davanti alla tomba di san Pietro il Credo: nell’Anno della fede, mi sembra un atto molto opportuno, necessario forse, che il clero di Roma si riunisca sulla tomba dell’Apostolo al quale il Signore ha detto: “A te affido la mia Chiesa. Sopra di te costruisco la mia Chiesa” (cfr Mt 16,18-19). Davanti al Signore, insieme con Pietro, avete confessato: “Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo” (cfr Mt 16,15-16). Così cresce la Chiesa: insieme con Pietro, confessare Cristo, seguire Cristo. E facciamo questo sempre. Io sono molto grato per la vostra preghiera, che ho sentito – l’ho detto mercoledì – quasi fisicamente. Anche se adesso mi ritiro, nella preghiera sono sempre vicino a tutti voi e sono sicuro che anche voi sarete vicini a me, anche se per il mondo rimango nascosto.
Per oggi, secondo le condizioni della mia età, non ho potuto preparare un grande, vero discorso, come ci si potrebbe aspettare; ma piuttosto penso ad una piccola chiacchierata sul Concilio Vaticano II, come io l’ho visto. Comincio con un aneddoto: io ero stato nominato nel ’59 professore all’Università di Bonn, dove studiano gli studenti, i seminaristi della diocesi di Colonia e di altre diocesi circostanti. Così, sono venuto in contatto con il Cardinale di Colonia, il Cardinale Frings. Il Cardinale Siri, di Genova – mi sembra nel ’61 - aveva organizzato una serie di conferenze di diversi Cardinali europei sul Concilio, e aveva invitato anche l’Arcivescovo di Colonia a tenere una delle conferenze, con il titolo: Il Concilio e il mondo del pensiero moderno.
Il Cardinale mi ha invitato – il più giovane dei professori – a scrivergli un progetto; il progetto gli è piaciuto e ha proposto alla gente, a Genova, il testo come io l’avevo scritto. Poco dopo, Papa Giovanni lo invita ad andare da lui e il Cardinale era pieno di timore di avere forse detto qualcosa di non corretto, di falso, e di venire citato per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora. Sì, quando il suo segretario lo ha vestito per l’udienza, il Cardinale ha detto: “Forse adesso porto per l’ultima volta questo abito”. Poi è entrato, Papa Giovanni gli va incontro, lo abbraccia, e dice: “Grazie, Eminenza, lei ha detto le cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole”. Così, il Cardinale sapeva di essere sulla strada giusta e mi ha invitato ad andare con lui al Concilio, prima come suo esperto personale; poi, nel corso del primo periodo - mi pare nel novembre ’62 – sono stato nominato anche perito ufficiale del Concilio.
Allora, noi siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. C’era un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa, perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta in quel tempo, la prassi domenicale ancora buona, le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa erano già un po’ ridotte, ma ancora sufficienti. Tuttavia, si sentiva che la Chiesa non andava avanti, si riduceva, che sembrava piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del futuro. E in quel momento, speravamo che questa relazione si rinnovasse, cambiasse; che la Chiesa fosse di nuovo forza del domani e forza dell’oggi. E sapevamo che la relazione tra la Chiesa e il periodo moderno, fin dall’inizio, era un po’ contrastante, cominciando con l’errore della Chiesa nel caso di Galileo Galilei; si pensava di correggere questo inizio sbagliato e di trovare di nuovo l’unione tra la Chiesa e le forze migliori del mondo, per aprire il futuro dell’umanità, per aprire il vero progresso. Così, eravamo pieni di speranza, di entusiasmo, e anche di volontà di fare la nostra parte per questa cosa. Mi ricordo che un modello negativo era considerato il Sinodo Romano. Si disse - non so se sia vero – che avessero letto i testi preparati, nella Basilica di San Giovanni, e che i membri del Sinodo avessero acclamato, approvato applaudendo, e così si sarebbe svolto il Sinodo. I Vescovi dissero: No, non facciamo così. Noi siamo Vescovi, siamo noi stessi soggetto del Sinodo; non vogliamo soltanto approvare quanto è stato fatto, ma vogliamo essere noi il soggetto, i portatori del Concilio. Così anche il Cardinale Frings, che era famoso per la fedeltà assoluta, quasi scrupolosa, al Santo Padre, in questo caso disse: Qui siamo in altra funzione. Il Papa ci ha convocati per essere come Padri, per essere Concilio ecumenico, un soggetto che rinnovi la Chiesa. Così vogliamo assumere questo nostro ruolo.
Il primo momento, nel quale questo atteggiamento si è mostrato, è stato subito il primo giorno. Erano state previste, per questo primo giorno, le elezioni delle Commissioni ed erano state preparate, in modo – si cercava – imparziale, le liste, i nominativi; e queste liste erano da votare. Ma subito i Padri dissero: No, non vogliamo semplicemente votare liste già fatte. Siamo noi il soggetto. Allora, si sono dovute spostare le elezioni, perché i Padri stessi volevano conoscersi un po’, volevano loro stessi preparare delle liste. E così è stato fatto. I Cardinali Liénart di Lille, il Cardinale Frings di Colonia avevano pubblicamente detto: Così no. Noi vogliamo fare le nostre liste ed eleggere i nostri candidati. Non era un atto rivoluzionario, ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri conciliari.
Così cominciava una forte attività per conoscersi, orizzontalmente, gli uni gli altri, cosa che non era a caso. Al “Collegio dell’Anima”, dove abitavo, abbiamo avuto molte visite: il Cardinale era molto conosciuto, abbiamo visto Cardinali di tutto il mondo. Mi ricordo bene la figura alta e snella di mons. Etchegaray, che era Segretario della Conferenza Episcopale Francese, degli incontri con Cardinali, eccetera. E questo era tipico, poi, per tutto il Concilio: piccoli incontri trasversali. Così ho conosciuto grandi figure come Padre de Lubac, Daniélou, Congar, eccetera. Abbiamo conosciuto vari Vescovi; mi ricordo particolarmente del Vescovo Elchinger di Strasburgo, eccetera. E questa era già un’esperienza dell’universalità della Chiesa e della realtà concreta della Chiesa, che non riceve semplicemente imperativi dall’alto, ma insieme cresce e va avanti, sempre sotto la guida – naturalmente – del Successore di Pietro.
Tutti, come ho detto, venivano con grandi aspettative; non era mai stato realizzato un Concilio di queste dimensioni, ma non tutti sapevano come fare. I più preparati, diciamo quelli con intenzioni più definite, erano l’episcopato francese, tedesco, belga, olandese, la cosiddetta “alleanza renana”. E, nella prima parte del Concilio, erano loro che indicavano la strada; poi si è velocemente allargata l’attività e tutti sempre più hanno partecipato nella creatività del Concilio. I francesi ed i tedeschi avevano diversi interessi in comune, anche con sfumature abbastanza diverse. La prima, iniziale, semplice - apparentemente semplice – intenzione era la riforma della liturgia, che era già cominciata con Pio XII, il quale aveva già riformato la Settimana Santa; la seconda, l’ecclesiologia; la terza, la Parola di Dio, la Rivelazione; e, infine, anche l’ecumenismo. I francesi, molto più che i tedeschi, avevano ancora il problema di trattare la situazione delle relazioni tra la Chiesa e il mondo.
Cominciamo con il primo. Dopo la Prima Guerra Mondiale, era cresciuto, proprio nell’Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel Messale Romano del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto, della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo. Ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa secondo il Messale, ed i laici, che pregavano, nella Messa, con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare. Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto, dicesse “Et cum spiritu tuo” eccetera, ma che fosse realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia del popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia.
Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. “Operi Dei nihil praeponatur”: questa parola dellaRegola di san Benedetto (cfr 43,3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione. Adesso non vorrei entrare nei dettagli della discussione, ma vale la pena sempre tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio stesso, alla sua profondità e alle sue idee essenziali.
Ve n’erano, direi, diverse: soprattutto il Mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della Risurrezione. Sempre di nuovo cominciamo il nostro tempo con la Risurrezione, con l’incontro con il Risorto, e dall’incontro con il Risorto andiamo al mondo. In questo senso, è un peccato che oggi si sia trasformata la domenica in fine settimana, mentre è la prima giornata, è l’inizio; interiormente dobbiamo tenere presente questo: che è l’inizio, l’inizio della Creazione, è l’inizio della ricreazione nella Chiesa, incontro con il Creatore e con Cristo Risorto. Anche questo duplice contenuto della domenica è importante: è il primo giorno, cioè festa della Creazione, noi stiamo sul fondamento della Creazione, crediamo nel Dio Creatore; e incontro con il Risorto, che rinnova la Creazione; il suo vero scopo è creare un mondo che è risposta all’amore di Dio.
Poi c’erano dei principi: l’intelligibilità, invece di essere rinchiusi in una lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la partecipazione attiva. Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi. Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio – se penso giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle Epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo.
Secondo tema: la Chiesa. Sappiamo che il Concilio Vaticano I era stato interrotto a causa della guerra tedesco-francese e così è rimasto con una unilateralità, con un frammento, perché la dottrina sul primato - che è stata definita, grazie a Dio, in quel momento storico per la Chiesa, ed è stata molto necessaria per il tempo seguente - era soltanto un elemento in un’ecclesiologia più vasta, prevista, preparata. Così era rimasto il frammento. E si poteva dire: se il frammento rimane così come è, tendiamo ad una unilateralità: la Chiesa sarebbe solo il primato. Quindi già dall’inizio c’era questa intenzione di completare l’ecclesiologia del Vaticano I, in una data da trovare, per una ecclesiologia completa. Anche qui le condizioni sembravano molto buone perché, dopo la Prima Guerra Mondiale, era rinato il senso della Chiesa in modo nuovo. Romano Guardini disse: “Nelle anime comincia a risvegliarsi la Chiesa”, e un vescovo protestante parlava del “secolo della Chiesa”. Veniva ritrovato, soprattutto, il concetto, che era previsto anche dal Vaticano I, del Corpo Mistico di Cristo. Si voleva dire e capire che la Chiesa non è un’organizzazione, qualcosa di strutturale, giuridico, istituzionale - anche questo -, ma è un organismo, una realtà vitale, che entra nella mia anima, così che io stesso, proprio con la mia anima credente, sono elemento costruttivo della Chiesa come tale. In questo senso, Pio XII aveva scritto l’Enciclica Mystici Corporis Christi, come un passo verso un completamento dell’ecclesiologia del Vaticano I.
Direi che la discussione teologica degli anni ’30-’40, anche ’20, era completamente sotto questo segno della parola “Mystici Corporis”. Fu una scoperta che ha creato tanta gioia in quel tempo ed anche in questo contesto è cresciuta la formula: Noi siamo la Chiesa, la Chiesa non è una struttura; noi stessi cristiani, insieme, siamo tutti il Corpo vivo della Chiesa. E, naturalmente, questo vale nel senso che noi, il vero “noi” dei credenti, insieme con l’”Io” di Cristo, è la Chiesa; ognuno di noi, non “un noi”, un gruppo che si dichiara Chiesa. No: questo “noi siamo Chiesa” esige proprio il mio inserimento nel grande “noi” dei credenti di tutti i tempi e luoghi. Quindi, la prima idea: completare l’ecclesiologia in modo teologico, ma proseguendo anche in modo strutturale, cioè: accanto alla successione di Pietro, alla sua funzione unica, definire meglio anche la funzione dei Vescovi, del Corpo episcopale. E, per fare questo, è stata trovata la parola “collegialità”, molto discussa, con discussioni accanite, direi, anche un po’ esagerate. Ma era la parola - forse ce ne sarebbe anche un’altra, ma serviva questa - per esprimere che i Vescovi, insieme, sono la continuazione dei Dodici, del Corpo degli Apostoli. Abbiamo detto: solo un Vescovo, quello di Roma, è successore di un determinato Apostolo, di Pietro. Tutti gli altri diventano successori degli Apostoli entrando nel Corpo che continua il Corpo degli Apostoli. Così proprio il Corpo dei Vescovi, il collegio, è la continuazione del Corpo dei Dodici, ed ha così la sua necessità, la sua funzione, i suoi diritti e doveri. Appariva a molti come una lotta per il potere, e forse qualcuno anche ha pensato al suo potere, ma sostanzialmente non si trattava di potere, ma della complementarietà dei fattori e della completezza del Corpo della Chiesa con i Vescovi, successori degli Apostoli, come elementi portanti; ed ognuno di loro è elemento portante della Chiesa, insieme con questo grande Corpo.
Questi erano, diciamo, i due elementi fondamentali e, nella ricerca di una visione teologica completa dell’ecclesiologia, nel frattempo, dopo gli anni ’40, negli anni ’50, era già nata un po’ di critica nel concetto di Corpo di Cristo: “mistico” sarebbe troppo spirituale, troppo esclusivo; era stato messo in gioco allora il concetto di “Popolo di Dio”. E il Concilio, giustamente, ha accettato questo elemento, che nei Padri è considerato come espressione della continuità tra Antico e Nuovo Testamento. Nel testo del Nuovo Testamento, la parola “Laos tou Theou”, corrispondente ai testi dell’Antico Testamento, significa – mi sembra con solo due eccezioni – l’antico Popolo di Dio, gli ebrei che, tra i popoli, “goim”, del mondo, sono “il” Popolo di Dio. E gli altri, noi pagani, non siamo di per sé il Popolo di Dio, diventiamo figli di Abramo, e quindi Popolo di Dio entrando in comunione con il Cristo, che è l’unico seme di Abramo. Ed entrando in comunione con Lui, essendo uno con Lui, siamo anche noi Popolo di Dio. Cioè: il concetto “Popolo di Dio” implica continuità dei Testamenti, continuità della storia di Dio con il mondo, con gli uomini, ma implica anche l’elemento cristologico. Solo tramite la cristologia diveniamo Popolo di Dio e così si combinano i due concetti. Ed il Concilio ha deciso di creare una costruzione trinitaria dell’ecclesiologia: Popolo di Dio Padre, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo.
Ma solo dopo il Concilio è stato messo in luce un elemento che si trova un po’ nascosto, anche nel Concilio stesso, e cioè: il nesso tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo, è proprio la comunione con Cristo nell’unione eucaristica. Qui diventiamo Corpo di Cristo; cioè la relazione tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo crea una nuova realtà: la comunione. E dopo il Concilio è stato scoperto, direi, come il Concilio, in realtà, abbia trovato, abbia guidato a questo concetto: la comunione come concetto centrale. Direi che, filologicamente, nel Concilio esso non è ancora totalmente maturo, ma è frutto del Concilio che il concetto di comunione sia diventato sempre più l’espressione dell’essenza della Chiesa, comunione nelle diverse dimensioni: comunione con il Dio Trinitario - che è Egli stesso comunione tra Padre, Figlio e Spirito Santo -, comunione sacramentale, comunione concreta nell’episcopato e nella vita della Chiesa.
Ancora più conflittuale era il problema della Rivelazione. Qui si trattava della relazione tra Scrittura e Tradizione, e qui erano interessati soprattutto gli esegeti per una maggiore libertà; essi si sentivano un po’ – diciamo – in una situazione di inferiorità nei confronti dei protestanti, che facevano le grandi scoperte, mentre i cattolici si sentivano un po’ “handicappati” dalla necessità di sottomettersi al Magistero. Qui, quindi, era in gioco una lotta anche molto concreta: quale libertà hanno gli esegeti? Come si legge bene la Scrittura? Che cosa vuol dire Tradizione? Era una battaglia pluridimensionale che adesso non posso mostrare, ma importante è che certamente la Scrittura è la Parola di Dio e la Chiesa sta sotto la Scrittura, obbedisce alla Parola di Dio, e non sta al di sopra della Scrittura. E tuttavia, la Scrittura è Scrittura soltanto perché c’è la Chiesa viva, il suo soggetto vivo; senza il soggetto vivo della Chiesa, la Scrittura è solo un libro e apre, si apre a diverse interpretazioni e non dà un’ultima chiarezza.
Qui, la battaglia - come ho detto - era difficile, e fu decisivo un intervento di Papa Paolo VI. Questo intervento mostra tutta la delicatezza del padre, la sua responsabilità per l’andamento del Concilio, ma anche il suo grande rispetto per il Concilio. Era nata l’idea che la Scrittura è completa, vi si trova tutto; quindi non si ha bisogno della Tradizione, e perciò il Magistero non ha niente da dire. Allora, il Papa ha trasmesso al Concilio mi sembra 14 formule di una frase da inserire nel testo sulla Rivelazione e ci dava, dava ai Padri, la libertà di scegliere una delle 14 formule, ma disse: una deve essere scelta, per rendere completo il testo. Io mi ricordo, più o meno, della formula “non omnis certitudo de veritatibus fidei potest sumi ex Sacra Scriptura”, cioè la certezza della Chiesa sulla fede non nasce soltanto da un libro isolato, ma ha bisogno del soggetto Chiesa illuminato, portato dallo Spirito Santo. Solo così poi la Scrittura parla ed ha tutta la sua autorevolezza. Questa frase che abbiamo scelto nella Commissione dottrinale, una delle 14 formule, è decisiva, direi, per mostrare l’indispensabilità, la necessità della Chiesa, e così capire che cosa vuol dire Tradizione, il Corpo vivo nel quale vive dagli inizi questa Parola e dal quale riceve la sua luce, nel quale è nata. Già il fatto del Canone è un fatto ecclesiale: che questi scritti siano la Scrittura risulta dall’illuminazione della Chiesa, che ha trovato in sé questo Canone della Scrittura; ha trovato, non creato, e sempre e solo in questa comunione della Chiesa viva si può anche realmente capire, leggere la Scrittura come Parola di Dio, come Parola che ci guida nella vita e nella morte.
Come ho detto, questa era una lite abbastanza difficile, ma grazie al Papa e grazie – diciamo – alla luce dello Spirito Santo, che era presente nel Concilio, è stato creato un documento che è uno dei più belli e anche innovativi di tutto il Concilio, e che deve essere ancora molto più studiato. Perché anche oggi l’esegesi tende a leggere la Scrittura fuori dalla Chiesa, fuori dalla fede, solo nel cosiddetto spirito del metodo storico-critico, metodo importante, ma mai così da poter dare soluzioni come ultima certezza; solo se crediamo che queste non sono parole umane, ma sono parole di Dio, e solo se vive il soggetto vivo al quale ha parlato e parla Dio, possiamo interpretare bene la Sacra Scrittura. E qui - come ho detto nella prefazione del mio libro su Gesù (cfr vol. I) - c’è ancora molto da fare per arrivare ad una lettura veramente nello spirito del Concilio. Qui l’applicazione del Concilio ancora non è completa, ancora è da fare.
E, infine, l’ecumenismo. Non vorrei entrare adesso in questi problemi, ma era ovvio – soprattutto dopo le “passioni” dei cristiani nel tempo del nazismo – che i cristiani potessero trovare l’unità, almeno cercare l’unità, ma era chiaro anche che solo Dio può dare l’unità. E siamo ancora in questo cammino. Ora, con questi temi, l’”alleanza renana” – per così dire – aveva fatto il suo lavoro.
La seconda parte del Concilio è molto più ampia. Appariva, con grande urgenza, il tema: mondo di oggi, epoca moderna, e Chiesa; e con esso i temi della responsabilità per la costruzione di questo mondo, della società, responsabilità per il futuro di questo mondo e speranza escatologica, responsabilità etica del cristiano, dove trova le sue guide; e poi libertà religiosa, progresso, e relazione con le altre religioni. In questo momento, sono entrate in discussione realmente tutte le parti del Concilio, non solo l’America, gli Stati Uniti, con un forte interesse per la libertà religiosa. Nel terzo periodo questi hanno detto al Papa: Noi non possiamo tornare a casa senza avere, nel nostro bagaglio, una dichiarazione sulla libertà religiosa votata dal Concilio. Il Papa, tuttavia, ha avuto la fermezza e la decisione, la pazienza di portare il testo al quarto periodo, per trovare una maturazione ed un consenso abbastanza completi tra i Padri del Concilio. Dico: non solo gli americani sono entrati con grande forza nel gioco del Concilio, ma anche l’America Latina, sapendo bene della miseria del popolo, di un continente cattolico, e della responsabilità della fede per la situazione di questi uomini. E così anche l’Africa, l’Asia, hanno visto la necessità del dialogo interreligioso; sono cresciuti problemi che noi tedeschi – devo dire – all’inizio, non avevamo visto. Non posso adesso descrivere tutto questo. Il grande documento “Gaudium et spes” ha analizzato molto bene il problema tra escatologia cristiana e progresso mondano, tra responsabilità per la società di domani e responsabilità del cristiano davanti all’eternità, e così ha anche rinnovato l’etica cristiana, le fondamenta. Ma, diciamo inaspettatamente, è cresciuto, al di fuori di questo grande documento, un documento che rispondeva in modo più sintetico e più concreto alle sfide del tempo, e cioè la “Nostra aetate”. Dall’inizio erano presenti i nostri amici ebrei, che hanno detto, soprattutto a noi tedeschi, ma non solo a noi, che dopo gli avvenimenti tristi di questo secolo nazista, del decennio nazista, la Chiesa cattolica deve dire una parola sull’Antico Testamento, sul popolo ebraico. Hanno detto: anche se è chiaro che la Chiesa non è responsabile della Shoah, erano cristiani, in gran parte, coloro che hanno commesso quei crimini; dobbiamo approfondire e rinnovare la coscienza cristiana, anche se sappiamo bene che i veri credenti sempre hanno resistito contro queste cose. E così era chiaro che la relazione con il mondo dell’antico Popolo di Dio dovesse essere oggetto di riflessione. Si capisce anche che i Paesi arabi – i Vescovi dei Paesi arabi – non fossero felici di questa cosa: temevano un po’ una glorificazione dello Stato di Israele, che non volevano, naturalmente. Dissero: Bene, un’indicazione veramente teologica sul popolo ebraico è buona, è necessaria, ma se parlate di questo, parlate anche dell’Islam; solo così siamo in equilibrio; anche l’Islam è una grande sfida e la Chiesa deve chiarire anche la sua relazione con l’Islam. Una cosa che noi, in quel momento, non abbiamo tanto capito, un po’, ma non molto. Oggi sappiamo quanto fosse necessario.
Quando abbiamo incominciato a lavorare anche sull’Islam, ci hanno detto: Ma ci sono anche altre religioni del mondo: tutta l’Asia! Pensate al Buddismo, all’Induismo…. E così, invece di una Dichiarazione inizialmente pensata solo sull’antico Popolo di Dio, si è creato un testo sul dialogo interreligioso, anticipando quanto solo trent’anni dopo si è mostrato in tutta la sua intensità e importanza. Non posso entrare adesso in questo tema, ma se si legge il testo, si vede che è molto denso e preparato veramente da persone che conoscevano le realtà, e indica brevemente, con poche parole, l’essenziale. Così anche il fondamento di un dialogo, nella differenza, nella diversità, nella fede sull’unicità di Cristo, che è uno, e non è possibile, per un credente, pensare che le religioni siano tutte variazioni di un tema. No, c’è una realtà del Dio vivente che ha parlato, ed è un Dio, è un Dio incarnato, quindi una Parola di Dio, che è realmente Parola di Dio. Ma c’è l’esperienza religiosa, con una certa luce umana della creazione, e quindi è necessario e possibile entrare in dialogo, e così aprirsi l’uno all’altro e aprire tutti alla pace di Dio, di tutti i suoi figli, di tutta la sua famiglia.
Quindi, questi due documenti, libertà religiosa e “Nostra aetate”, connessi con “Gaudium et spes” sono una trilogia molto importante, la cui importanza si è mostrata solo nel corso dei decenni, e ancora stiamo lavorando per capire meglio questo insieme tra unicità della Rivelazione di Dio, unicità dell’unico Dio incarnato in Cristo, e la molteplicità delle religioni, con le quali cerchiamo la pace e anche il cuore aperto per la luce dello Spirito Santo, che illumina e guida a Cristo.
Vorrei adesso aggiungere ancora un terzo punto: c’era il Concilio dei Padri – il vero Concilio –, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri. E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, era un Concilio della fede che cerca l’intellectus, che cerca di comprendersi e cerca di comprendere i segni di Dio in quel momento, che cerca di rispondere alla sfida di Dio in quel momento e di trovare nella Parola di Dio la parola per oggi e domani, mentre tutto il Concilio – come ho detto – si muoveva all’interno della fede, come fides quaerens intellectum, il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa. Era un’ermeneutica politica: per imedia, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola “Popolo di Dio”, il potere del popolo, dei laici. C’era questa triplice questione: il potere del Papa, poi trasferito al potere dei Vescovi e al potere di tutti, sovranità popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire. E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E sappiamo che c’era una tendenza, che si fondava anche storicamente, a dire: La sacralità è una cosa pagana, eventualmente anche dell’Antico Testamento. Nel Nuovo vale solo che Cristo è morto fuori: cioè fuori dalle porte, cioè nel mondo profano. Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell’insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività. Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del Concilio, sono state virulente nella prassi dell’applicazione della Riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede. E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient’altro, e così via.
Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale. Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa. Mi sembra che, 50 anni dopo il Concilio, vediamo come questo Concilio virtuale si rompa, si perda, e appare il vero Concilio con tutta la sua forza spirituale. Ed è nostro compito, proprio in questoAnno della fede, cominciando da questo Anno della fede, lavorare perché il vero Concilio, con la sua forza dello Spirito Santo, si realizzi e sia realmente rinnovata la Chiesa. Speriamo che il Signore ci aiuti. Io, ritirato con la mia preghiera, sarò sempre con voi, e insieme andiamo avanti con il Signore, nella certezza: Vince il Signore! Grazie!

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