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sabato 22 giugno 2013

Parabola che paragona la malattia al peccato


Le parabole di Gesù
(048)
Parabola che paragona la malattia al peccato (523.5)
A che paragonerò Io coloro che, dopo essere stati peccatori, poi si convertono? Li paragonerò a malati che guariscono.

A che paragonerò gli altri che non hanno pubblicamente peccato, o che, rari più di perle nere, non hanno fatto mai, neppur nel segreto, colpe gravi? Li paragonerò a delle persone sane.

Il mondo è composto di queste due categorie. Sia nello spirito che nella carne e sangue. Ma se uguali sono i paragoni, diverso è il modo del mondo di usare coi malati guariti, che erano malati nella carne, da quello che esso usa coi peccatori convertiti, ossia coi malati dello spirito che tornano in salute.

Noi vediamo che quando anche un lebbroso, che è il malato più pericoloso e più isolato perchè pericoloso, ottiene la grazia di guarigione, dopo essere stato osservato dal sacerdote e purificato, viene riammesso nel consorzio delle genti, e anzi quelli della sua città lo festeggiano perchè guarito, perchè resuscitato alla vita, alla famiglia, agli affari. Gran festa in famiglia e in città quando uno che era lebbroso riesce ad ottenere grazia e a guarire! E' una gara fra famigliari e i cittadini a portargli questo e quello, e se è solo e senza casa o mobili, a offrirgli letto o mobilia, e tutti dicono: "E' uno prediletto da Dio. Il suo dito lo ha sanato. Facciamogli dunque onore, e onoreremo Colui che lo ha creato e ricreato". 

E' giusto fare così. E quando, sventuratamente invece, uno ha i primi segni di lebbra, con che amore angoscioso parenti e amici lo colmano di tenerezze, finchè è possibile ancora farlo, quasi per dargli, tutto in una volta, il tesoro di affetti che gli avrebbero dato in molti anni, perchè se lo porti seco nel suo sepolcro di vivo.

Ma perchè allora per gli altri malati non si fa così? Un uomo comincia a peccare, e famigliari e soprattutto concittadini lo vedono? Perchè allora non cercano con amore di strapparlo al peccare? Una madre, un padre, una sposa, una sorella ancora lo fanno.

Ma è già difficile che lo facciano i fratelli, e non dico poi che lo facciano i figli del fratello del padre o della madre.

I concittadini infine, non sanno che criticare, schernire, insolentire, scandalizzarsi, esagerare i peccati del peccatore, segnalarselo a dito, tenerlo discosto come un lebbroso quelli che sono più giusti, farsi suoi complici, per godere alle sue spalle, quelli che giusti non sono.

Ma non c'è che ben raramente una bocca, e soprattutto un cuore, che vada dall'infelice con pietà e fermezza, con pazienza e amore soprannaturale, e si affanni a frenarne la discesa nel peccato.

E come? Non è forse più grave, veramente grave e mortale la malattia dello spirito? Non priva essa, e per sempre, del Regno di Dio? La prima delle carità verso Dio e verso il prossimo non deve essere questo lavoro di sanare un peccatore per il bene della sua anima e la gloria di Dio?

E quando un peccatore si converte, perchè quell'ostinatezza di giudizio su di lui, quel quasi rammaricarsi che egli sia tornato alla salute spirituale? Vedete smentiti i vostri pronostici di certa dannazione di un vostro concittadino? Ma dovreste esserne felici, perchè Colui che vi smentisce è il misericordioso Iddio, che vi dà una misura della sua bontà a rincuorarvi nelle vostre colpe più o meno gravi.


E perchè quel persistere a voler vedere sporco, spregevole, degno di stare nell'isolamento, ciò che Dio e la buona volontà di un cuore hanno fatto netto, ammirevole, degno della stima dei fratelli, anzi della loro ammirazione?
Ma ben giubilate anche se un vostro bue, un vostro asino o cammello, o la pecora del gregge o il colombo preferito guariscono da una malattia! Ben giubilate se un estraneo, che appena ricordate a nome per averne sentito parlare al tempo in cui fu isolato perchè lebbroso, torna guarito! E perchè allora non giubilate per queste guarigioni di spirito, per queste vittorie di Dio? Il Cielo giubila quando un peccatore si converte. Il Cielo: Dio, gli angeli purissimi, quelli che non sanno cosa è peccare. E voi, voi uomini, volete essere più intransigenti di Dio?......."

L'Apostola... degli Apostoli

giovedì 30 maggio 2013

*Vangelo della Fede. Santa Petronilla e Santa Felicola.


4 marzo 1944.

Il martirio di S. Petronilla e S. Felicola.

Vedo due giovani donne in preghiera. Una preghiera ardentissima che deve proprio
penetrare nei cieli. Una è più matura. Pare quasi sui trent’anni; l’altra deve da poco aver passato i venti. Sembrano in perfetta salute tutte e due. 
Poi si alzano e preparano un piccolo altare su cui dispongono lini preziosi e fiori.
Entra un uomo vestito come i romani dell’epoca, che le due giovani salutano con la massima venerazione. Egli si leva dal petto una borsa dalla quale trae tutto quanto occorre per celebrare una Messa. Poi si riveste delle vesti sacerdotali e
inizia il Sacrificio.
Non comprendo benissimo il Vangelo, ma mi pare sia quello di Marco: “E gli presentarono dei bambini... chi non riceverà il regno di Dio come un fanciullo non c’entrerà”  Marco 10, 15; Luca 18, 17.
 Le due giovani, inginocchiate presso l’altare, pregano sempre più fervorosamente.

Il Sacerdote consacra le Specie e poi si volge a comunicare le due fedeli, cominciando dalla più anziana, il cui volto è serafico di ardore. 
Poi comunica l’altra. Esse, ricevute le Specie, si prostrano al suolo in profonda preghiera e
sembra restino così per pura devozione.
Ma quando il Sacerdote si volge a benedire e scende dall’altare collocato su una
pedana di legno - dopo la celebrazione del rito, che è uguale a quella di Paolo nel Tullianum . Solo qui il celebrante parla più piano, date le due sole fedeli; ecco perché capisco meno il Vangelo  - una soltanto delle giovani si
muove. L’altra rimane prostrata come prima. La compagna la chiama e la scuote.
Si china anche il Sacerdote. La sollevano. Già il pallore della morte è su quel viso, l’occhio semispento naufraga sotto le palpebre, la bocca respira a fatica.
Ma che beatitudine in quel viso!
La adagiano su una specie di lungo sedile che è presso una finestra aperta su un cortile, in cui canta una fontana. E cercano soccorrerla. Ma, radunando le forze, ella alza una mano e accenna al cielo e non dice che due parole:
“Grazia... Gesù” e senza spasimi spira.

Tutto ciò non mi spiega che c’entra la giovane legata alla colonna che ho visto
questa notte e che, per quanto molto più pallida e smagrita, spettinata, torturata, mi pare assomigli tanto alla superstite che ora piange presso la
morta. E resto così, nella mia incertezza, per qualche ora.

Soltanto ora che è sera ritrovo la giovane piangente prima, ora ritta presso la
fontana del severo cortile nel quale sono coltivate solo delle piccole aiuole di gigli e sui muri salgono dei rosai tutti in fiore.

La giovane parla con un giovane romano: “È inutile che tu insista, o Flacco. Io ti sono grata del tuo rispetto e del ricordo che hai per la mia amica morta. 
Ma non posso consolare il tuo cuore. Se Petronilla è morta, segno era che non
doveva essere tua sposa. Ma io neppure. Tante sono le fanciulle di Roma che sarebbero felici di diventare le signore della tua casa. Non io. Non per te. Ma perché ho deciso di non contrarre nozze”.
“Tu pure sei presa dalla frenesia stolta di tante seguaci di un pugno d’ebrei?”.
“Io ho deciso, e credo non esser folle, di non contrarre nozze”.
“E se io ti volessi?”.
“Non credo che tu, se è vero che mi ami e rispetti, vorrai forzare la mia libertà di cittadina romana. Ma mi lascerai  seguire il mio desiderio avendo
per me la buona amicizia che io ho per te”.
“Ah, no! Già una m’è sfuggita. Tu non mi sfuggirai”.
“Ella è morta, Flacco. La morte è forza a noi superiore, non è fuga di uno ad un
destino. Ella non s’è uccisa. È morta...”.
“Per i vostri sortilegi. Lo so che siete cristiane e avrei dovuto denunciarvi al Tribunale di Roma. Ma ho preferito pensare a voi come a mie spose. Ora per l’ultima volta ti dico: vuoi esser moglie del nobile Flacco? Io te lo giuro che è meglio per te entrare signora nella mia casa e lasciare il culto demoniaco del tuo povero dio, anziché conoscere il rigore di Roma che non permette siano insultati i suoi dèi. Sii la sposa mia e sarai felice. Altrimenti...”.
“Non posso esser tua sposa. A Dio sono consacrata. Al mio Dio. Non posso adorare
gli idoli, io che adoro il vero Dio. Fa’ di me quello che vuoi. Tutto puoi fare del corpo mio. Ma la mia anima è di Dio ed io non la vendo per le gioie della tua casa”.
“È la tua ultima parola?”.
“L’ultima”.

 “Sai che il mio amore può mutarsi in odio?”
“Dio te ne perdoni. Per mio conto ti amerò sempre come fratello e pregherò per il tuo bene”.
“Ed io farò il tuo male. Ti denuncerò. Sarai torturata. Allora mi invocherai. Allora comprenderai che è meglio la casa di Flacco alle dottrine stolte di cui ti nutri”.
“Comprenderò che il mondo, per non avere più dei Flacchi, ha bisogno di queste
dottrine. E farò il tuo bene pregando per te dal Regno del mio Dio”.
“Maledetta cristiana! Alle carceri! Alla fame! Ti sazi il tuo Cristo se lo può”.

Ho l’impressione che le carceri siano abbastanza prossime alla casa della vergine perché la strada è poca, e che il nobile Flacco sia né più né meno che
un segugio del Questore di Roma perché, quando la visione, mutando aspetto, mi riporta la sala già vista con la giovane legata alla colonna, vedo che è un tribunale come quello in cui fu giudicata Agnese. Ben poche sono le differenze e che, anche qui, vi è un brutto ceffo che giudica e condanna, e che Flacco gli fa da aiutante e aizzatore.

Felicola, estratta dalla muda dove era, viene portata in mezzo alla sala. Appare
sfinita di forze ma ancor tanto dignitosa. Per quanto la luce l’abbacini, debole
come è e abituata ormai al buio carcere, si tiene eretta e sorride. Le solite
domande e le solite offerte seguite dalle solite risposte: “Sono cristiana. Non sacrifico ad altro Dio che non sia il mio Signore Gesù Cristo”.

Viene condannata alla colonna.
Le strappano le vesti e nuda, alla presenza del popolo, la legano con le mani e i piedi dietro ad una delle colonne del Tribunale. Per fare ciò le slogano le anche e le slogano le braccia. La tortura deve essere atroce. E non basta, ma
torcono le funi ai polsi e alle caviglie, la percuotono sul petto e sul ventre
nudo con verghe e flagelli, le torcono le carni con tenaglie e altri così atroci supplizi che non sto a ridire.
Ogni tanto le chiedono se vuol sacrificare agli dèi. Felicola, con voce sempre più debole, risponde: “No. Al Cristo. A Lui solo. Or che lo comincio a vedere, ed ogni tortura me lo rende più vicino, volete che io lo perda? Compite la vostra opera. Che io abbia il mio amore compiuto. Dolci nozze di cui Cristo è sposo ed io sposa sua! Sogno di tutta la mia vita!”.

Quando la slegano dalla colonna, ella cade come morta per terra. Le membra slogate, forse anche spezzate, non la reggono più, non rispondono a nessun comando della mente. Le povere mani, segate ai polsi dalla fune che ha fatto due
braccialetti di sangue vivo, pendono come morte. I piedi, pure lacerati ai malleoli sino a mostrare i nervi e i tendini, appaiono chiaramente spezzati dal modo come stanno ripiegati in modo innaturale. Ma il volto è pieno di una felicità d’angelo.

Scendono le lacrime sulle gote esangui, ma l’occhio ride assorto in una visione
che l’estasia.
I carcerieri, meglio i boia, la colpiscono di calci, e a calci la spingono, come fosse un sacco tanto immondo da non poter esser toccato, verso la predella del Questore.
“Ancor viva sei?”.
“Sì, per volontà del mio Signore”.
“Ancora insisti? Vuoi proprio la morte?”
“Voglio la Vita. Oh! mio Gesù, aprimi il Cielo! Vieni, Amore eterno!”.
“Gettatela nel Tevere! L’acqua calmerà i suoi ardori”.
I boia la sollevano con mal garbo. La tortura delle membra spezzate deve essere
atroce. Ma ella sorride. La avvolgono nelle sue vesti, non per pudicizia ma per
impedirle di reggersi in acqua. Inutile cura! Con degli arti in quello stato, non si nuota. Solo la testa emerge dal viluppo delle vesti. Il suo povero corpo, gettato sulle spalle di un carnefice, pende come fosse già morta. Ma ella sorride alla luce delle fiaccole, perché ormai è sera.
Giunti al Tevere, come fosse un animale da sopprimersi, la prendono e dall’alto del ponte la precipitano nelle acque scure, sulle quali ella riaffiora due volte e poi si inabissa senza un grido.


Dice Gesù:

«Ti ho voluto far conoscere la mia martire Felicola per dare a te ed a tutti qualche insegnamento.
Tu hai visto il potere della preghiera nella morte di Petronilla, compagna e maestra di Felicola di cui era molto più anziana, e il frutto di una santa
amicizia.

Petronilla, figlia spirituale di Pietro, aveva assorbito dalla viva parola del
mio Apostolo lo spirito di Fede. Petronilla. La gioia, la perla romana di Pietro. Sua prima conquista romana. Quella che, per la sua rispettosa e amorosa devozione all’Apostolo, lo consolò di tutti i dolori della sua evangelizzazione
romana.

Pietro per amore mio aveva lasciato casa e famiglia. Ma Colui che non mente gli
aveva fatto trovare in questa fanciulla - e in maniera sovrabbondante, colma,
premuta, secondo le mie promesse Luca 6, 38. - conforto, cure, dolcezze femminili. Come Io
a Betania, egli in casa di Petronilla trovava aiuti, ospitalità e soprattutto amore. La donna è uguale, nel suo bene e nel suo male, sotto tutti i cieli e in
tutte le epoche. Petronilla fu la Maria (Maria di Magdala, sorella di Lazzaro e Marta di Betania) di Pietro, con in più la sua purezza di fanciulla che il Battesimo, ricevuto mentre ancora l’innocenza non aveva conosciuto oltraggio, aveva portato a perfezione angelica.


Maria, ascolta.
Petronilla, volendo amare il Maestro con tutta se stessa senza che la sua avvenenza e il mondo potessero turbare questo amore, aveva pregato il
suo Dio di fare di lei una crocifissa. E Dio la esaudì. La paralisi crocifisse le sue angeliche membra. Nella lunga infermità sul terreno bagnato dal dolore fiorirono più belle le virtù e specie l’amore per la Madre mia.
Ascolta ancora, Maria. Quando fu necessario, la sua malattia conobbe una sosta.
Per mostrare che Dio è padrone del miracolo. E poi, finito il momento, tornò a crocifiggerla.

Non conosci nessun’altra, Maria, alla quale il suo Maestro, come Pietro a Petronilla, non dica, quando gli occorre: “Sorgi, scrivi, sii forte” e cessato il bisogno del Maestro non torni una povera inferma in perpetua agonia?
Morto l’Apostolo e guarita Petronilla, ella trovò che la sua vita non era più sua. Ma del Cristo. Non era di quelle che, ottenuto il miracolo, se ne servono per offendere Dio. Ma la salute la usò per l’interesse di Dio.

La vita vostra è sempre mia. Io ve la do. Ve lo dovreste ricordare. Ve la do come vita animale facendovi nascere e conservandovi vivi. Ve la do come vita spirituale con la Grazia e i Sacramenti. Dovreste ricordarvelo sempre e farne buon uso. Quando poi vi rendo la salute, vi faccio rinascere quasi dopo malattia mortale, dovreste ancor più ricordarvi che quella vita, rifiorita quando già la
carne sapeva di tomba, è mia. E per riconoscenza usarla nel Bene.
Petronilla lo seppe fare. Non si è assorbita  inutilmente la mia Dottrina. Essa
è come sale che preserva dal male, dalla
corruzione, è fiamma che scalda e
illumina, è cibo che nutre e fortifica, è fede che fa sicuri.
Viene la prova, l’assalto della tentazione, la minaccia del mondo. Petronilla prega. Chiama Dio.
Vuol essere di Dio. Il mondo la vuole? Dio la difenda dal mondo.
Il Cristo l’ha detto: “Se avete tanta fede quanto un granello di senape, potrete dire ad un monte: ‘Levati a va’ più in là’ ” (Matteo 17, 20; Marco 11, 23; Luca 17, 6).
 Pietro glie l’ha detto tante volte. Ella non chiede al monte di muoversi.
Chiede a Dio di levarla dal mondo prima che una prova superiore alle sue forze la schiacci. E Dio l’ascolta. La fa morire in un’estasi. In un’estasi, Maria, prima che la prova la schiacci.
Ricordala questa cosa, piccola discepola mia 


(Maria Valtorta, della cui vita viene fatto qui un parallelo con quella di Petronilla, morì dopo un lungo periodo di smemorato isolamento, che per molti è rimasto misterioso).

Felicola era amica, più che amica figlia o sorella, data la poca differenza d’età di una diecina d’anni circa. Non si convive senza santificarsi con chi è
santo. Come ci si guasta convivendo con chi è guasto. Se il mondo se la ricordasse questa verità! Ma il mondo invece trascura i santi o li sevizia, e
segue i satana divenendo sempre più satana.

La fermezza e la dolcezza di Felicola l’hai vista. Che è la fame per chi ha Cristo a suo cibo? Che è la tortura per chi ama il Martire del Calvario? Che è la morte per chi sa che la morte apre la porta alla Vita?
È sconosciuta dai cristiani d’ora la mia martire Felicola. Ma essa è ben conosciuta dagli angeli di Dio che la vedono ilare in Cielo dietro l’Agnello
divino. Ho voluto renderla nota a te per poterti parlare anche della sua maestra di spirito e per incuorarti al patire.

Ripeti con lei: “Ora sì che fra questi dolori comincio a vedere il mio sposo Gesù, nel quale ho posto tutto il mio amore”, e pensa che anche per te ho suscitato un Nicomede 
(È il nome del presbìtero che recuperò il corpo della santa martire Felicola, le cui notizie storiche sembrano corrispondere al racconto sulla martire Felicola, qui presentato. Il “Nicomede” della scrittrice, suscitato per il suo recupero spirituale, è Padre Migliorini),
per salvare dalle acque delle passioni il tuo io che
volevo per Me, e per raccogliere quanto di te merita d’esser conservato, ciò che è mio, ciò che può operare del bene all’anima dei fratelli.»



Felicola, santa, martire di Roma, la passio di Nereo e Achilleo la vuole sorella di latte di S. Petronilla. Sepolta al VII miglio della via Ardeatina, nel 1112 venne scoperta dal presbitero Benedetto e traslata a S. Lorenzo in Lucina. Il suo corpo qui ritrovato nel 1605 è conservato presso l’altare maggiore. Il primo rinvenimento dei resti avvenne, secondo la lapide del 1112, insieme alle spoglie del martire Gordiano.

[ Tratto dall'opera «Reliquie Insigni e "Corpi Santi" a Roma» di Giovanni Sicari ]
Antico Martirologio Romano, 13 giugno - A Roma, sulla via Ardeatina, il natale di santa Felicola, Vergine e Martire. Non volendo maritarsi a Flacco, ne sacrificare agli idoli, fu data in mano ad un Giudice, il quale, perseverando essa nella confessione di Cristo, dopo tenebroso carcere e lunga fame, tanto tempo la fece tormentare nell'eculeo, finchè essa non rese lo spirito, e così finalmente la fece deporre e gettare in una cloaca. Il suo corpo, estratto da san Nicomede Prete, fu sepolto sulla medesima via.

Martirologio Romano, 13 giugno: A Roma al settimo miglio della via Ardeatina, santa Felícola, martire