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giovedì 19 febbraio 2015

Il tesoro nascosto

Le parabole di Gesù
(012)
Il tesoro nascosto (237.4)

Un uomo, andato per caso a prendere terriccio per portarlo al suo orticello, nello scavare faticosamente la terra dura trova, sotto qualche strato di terra, un filone di metallo prezioso. Che fa allora quell'uomo? Ricopre con la terra la scoperta fatta. Non gli importa di lavorare più ancora perchè la scoperta merita la fatica. E poi va a casa sua, ragranella tutte le sue ricchezze in denaro o in oggetti, e queste ultime le vende per avere molto denaro. Poi va dal padrone del campo e gli dice: "Mi piace il tuo campo. Quanto vuoi per vendermelo?"
"Ma io non lo vendo" dice l'altro. Ma l'uomo offre somme sempre più forti, sproporzionate al valore del campo, e finisce a sedurre il padrone di esso, il quale pensa: "Quest'uomo è un pazzo! Ma posto che lo è io me ne avvantaggio. Prendo la somma che mi offre. Non è uno strozzinaggio perchè è lui che me la vuole dare. Con essa mi comprerò almeno altri tre campi, e più belli" e fa la vendita convinto di avere fatto un splendido affare. Ma invece è l'altro che fa l'affare splendido perchè si priva di oggetti che possono essere asportati dal ladro o perduti o consumati, e si procura un tesoro che per essere vero, naturale, è inesauribile. Merita dunque di sacrificare quanto ha per questo acquisto, ma in realtà possedendo per sempre il tesoro celato in esso.

venerdì 4 ottobre 2013

Il tesoro nascosto


Le parabole di Gesù
(012)
Il tesoro nascosto (237.4)

Un uomo, andato per caso a prendere terriccio per portarlo al suo orticello, nello scavare faticosamente la terra dura trova, sotto qualche strato di terra, un filone di metallo prezioso. 

Che fa allora quell'uomo? Ricopre con la terra la scoperta fatta. Non gli importa di lavorare più ancora perchè la scoperta merita la fatica. E poi va a casa sua, ragranella tutte le sue ricchezze in denaro o in oggetti, e queste ultime le vende per avere molto denaro. Poi va dal padrone del campo e gli dice: "Mi piace il tuo campo. Quanto vuoi per vendermelo?"

"Ma io non lo vendo" dice l'altro. Ma l'uomo offre somme sempre più forti, sproporzionate al valore del campo, e finisce a sedurre il padrone di esso, il quale pensa: "Quest'uomo è un pazzo! Ma posto che lo è io me ne avvantaggio. Prendo la somma che mi offre. Non è uno strozzinaggio perchè è lui che me la vuole dare. Con essa mi comprerò almeno altri tre campi, e più belli" e fa la vendita convinto di avere fatto un splendido affare. 


Ma invece è l'altro che fa l'affare splendido perchè si priva di oggetti che possono essere asportati dal ladro o perduti o consumati, e si procura un tesoro che per essere vero, naturale, è inesauribile. Merita dunque di sacrificare quanto ha per questo acquisto, ma in realtà possedendo per sempre il tesoro celato in esso.

lunedì 30 settembre 2013

La parabola dei pescatori


Le parabole di Gesù
(013)

La parabola dei pescatori (239.5)

Gesù inizia a parlare:

"Dei pescatori uscirono al largo e gettarono nel mare la loro rete, e dopo il tempo dovuto la tirarono a bordo. Con molta fatica compivano così il lavoro per ordine di un padrone che li aveva incaricati di fornire di pesce prelibato la sua città, dicendo anche: <Però quei pesci che sono nocivi e scadenti non state neppure a trasportarli a terra. Ributtateli in mare. Altri pescatori li pescheranno, e poichè sono pescatori di un altro padrone li porteranno alla città dello stesso, perchè la si consuma ciò che è nocivo e che rende sempre più orrida la città del mio nemico. Nella mia: bella, luminosa, santa, non deve entrare nulla di malsano>.


Tirata perciò a bordo la rete i pescatori iniziarono il lavoro di cernita. I pesci erano molti, di diverso aspetto, grossezza e colore. 

Ve ne erano di bell'aspetto, ma con una carne piena di spine, dal cattivo sapore, dal grosso buzzo pieno di fanghiglia, di vermi, di erbe marce che aumentavano il sapore cattivo della carne del pesce. 
Altri invece erano di brutto aspetto, un muso che pareva il ceffo del delinquente o di un mostro da incubo; ma i pescatori sapevano che la loro carne è squisita. 
Altri, per essere insignificanti, passavano inavvertiti. 

I pescatori lavoravano, lavoravano. Le ceste erano colme di pesce squisito ormai, e nella rete erano i pesci insignificanti. <Ormai basta. Le ceste sono colme. Gettiamo tutto il resto a mare> dissero molti pescatori.

Ma uno, che poco aveva parlato, mentre gli altri avevano magnificato o deriso ogni pesce che capitava loro fra le mani, rimase a frugare nella rete e tra la minutaglia insignificante scoperse ancora due o tre pesci che mise al di sopra di tutti nelle ceste. <Che fai?> chiesero gli altri. <Le ceste sono complete, belle. Tu le sciupi mettendovi sopra per traverso quel povero pesce lì. Sembra che tu lo voglia celebrare come il più bello>.


<Lasciatemi fare. Io conosco questa razza di pesci e so che rendimento e che piacere danno>.


Questa è la parabola che finisce con la benedizione del padrone al pescatore paziente, esperto e silenzioso, che ha saputo discernere fra la massa i migliori pesci."

venerdì 27 settembre 2013

La dramma perduta


Le parabole di Gesù
(014)

La dramma perduta (241.7)

Gesù inizia a parlare:
"Una donna aveva dieci dramme nella sua borsa. Ma in un movimento la borsa cadde dal seno, aprendosi, e le monete ruzzolarono per terra. Ella le raccolse con l'aiuto delle vicine presenti e le contò. Erano nove. La decima era introvabile.
Dato che era prossima la sera e la luce mancava, la donna accese la lampada, la posò al suolo e presa una scopa si dette a scopare attentamente per vedere se era ruzzolata lontano dal luogo dove era caduta.
Ma la dramma non si trovava. Le amiche se ne andarono stanche di ricerche. La donna spostò allora il cassapanco, la scansia, il cofano pesante, smosse le anfore e gli orcioli posati nella nicchia del muro. Ma la dramma non si trovava.
Allora si pose carponi e cercò nel mucchio delle spazzature, messo contro la porta di casa, per vedere se la dramma era rotolata fuori di casa, mescolandosi agli avanzi delle verdure. E trovò infine la dramma tutta sporca, sepolta quasi dalle spazzature ricadute su di essa.
La donna giubilante la prese, la lavò, l'asciugò. Era più bella di prima, ora. E la mostrò alle vicine che ha chiamato di nuovo a gran voce, e che si erano ritirate dopo averla aiutata nelle prime ricerche dicendo: <Ecco! Vedete? Voi mi consigliavate di non faticare più. Ma io ho insistito e ho ritrovato la dramma perduta. Rallegratevi perciò con me che non ho avuto il dolore di perdere uno solo dei miei tesori>. Anche il Maestro vostro, e con Lui i suoi apostoli, fa come la donna della parabola..."


martedì 24 settembre 2013

PURIFICAMI, SIGNORE!


Le parabole di Gesù
(015)
La purificazione del lebbroso (245.5)

Un uomo per molti vizi diviene lebbroso. La società degli uomini lo allontana dal suo consorzio e l'uomo, in una solitudine atroce, medita sul suo stato e sul suo peccato che in quello stato lo ha ridotto. Passano lunghi anni così e quando meno se lo aspetta il lebbroso guarisce.

Il Signore gli ha usato misericordia per le sue molte preghiere e lacrime. Che fa allora l'uomo? Può ritornarsene a casa sua perchè Dio gli ha usato misericordia? 


No. Deve mostrarsi al sacerdote, il quale, dopo averlo attentamente osservato per qualche tempo, lo fa purificare dopo un primo sacrificio di due passeri. 

E dopo non una, ma due lavature di vesti, il guarito torna dal sacerdote con gli agnelli senza macchia e l'agnella e la farina e l'olio prescritti. Il sacerdote lo conduce allora alla porta del tabernacolo. Ecco allora che l'uomo viene religiosamente riammesso nel popolo di Israele....



mercoledì 18 settembre 2013

La parabola del re agnello


Le parabole di Gesù
(016)
La parabola del re agnello (246.7 - 246.8 - 246.9)





Gli animali pensarono a eleggersi un re. Ed essendo astuti pensarono di eleggersi uno che non desse timore di essere forte o feroce.

Scartarono dunque il leone e tutti i felini. Dissero di non volere le rostrate aquile nè nessun altro uccello di rapina. Diffidarono del cavallo che con rapidità poteva raggiungerli e vedere le loro azioni; e ancor più diffidarono dell'asino di cui sapevano la pazienza ma anche le subite furie e i potenti zoccoli. 

Inorridirono di avere per re la scimmia perchè troppo intelligente e vendicativa. Con la scusa che il serpente si era prestato a Satana per sedurre l'uomo, dissero di non volerlo a re nonostante i suoi vaghi colori e l'eleganza delle sue mosse. In realtà non lo vollero perchè ne conoscevano il silenzioso incedere, il forte potere dei suoi muscoli, il tremendo agire del suo veleno. Darsi a re un toro o un altro animale munito di aguzze corna? Ohibò! <Anche il diavolo le ha> dissero. Ma pensavano: <Se ci ribelliamo un giorno esso ci stermina con le sue corna>.


Scansa e scansa, videro un agneletto grasso e bianco saltabeccare allegro su un prato verde, dando musate alla tonda mammella materna. Non aveva corna , ma aveva occhi miti come il cielo d'aprile. Era mansueto e semplice. Di tutto era contento. E dell'acqua di un piccolo rio dove beveva tuffando il musetto rosato; e dei fioretti dai diversi sapori che appagavano l'occhio e il palato; e dell'erba folta in cui era bello giacere quando era sazio; e delle nuvole che parevano altri agnellini che scorrazzassero su quei prati azzurri, lassù, e lo invitassero a giocare correndo sul prato come esse nel cielo; e soprattutto delle carezze della mamma che ancora gli permetteva qualche tepida succhiata leccandogli intanto il vello bianco con la sua rosea lingua; e dell'ovile sicuro e riparato dai venti, della lettiera ben soffice e fragrante, nella quale era dolce dormire presso la madre.

"E' di facile accontentatura. E' senza armi nè veleno. E' ingenuo. Facciamolo re".
E tale lo fecero. E se ne gloriavano perchè era bello e buono, ammirato dai popoli vicini, amato dai sudditi per la sua paziente mansuetudine.

Passò del tempo e l'agnello divenne montone e disse: "Ora è tempo che io realmente governi. Ora ho il pieno possesso della cognizione della missione. Il volere di Dio, che ha permesso che io fossi eletto re, mi ha poi formato a questa missione, dandomi capacità di regnare. E' dunque giusto che io eserciti in modo perfetto, anche per non lasciar trascurare i doni di Dio.


E vedendo sudditi che facevano cose contrarie alla onestà dei costumi, o alla carità, alla dolcezza, alla lealtà, alla morigeratezza, all'ubbidienza, al rispetto, alla prudenza, e così via, alzò la voce per ammonire.

I sudditi si risero del suo belato saggio e dolce che non spauriva come il ruggito dei felini, nè come lo stridio degli avvoltoi quando si calano rapidi sulla preda, nè come il sibilo del serpente, e neppure come l'abbaiata del cane che incute timore.

L'agnello divenuto montone non si limitò più a belare. Ma andò dai colpevoli per ricondurli al loro dovere. Ma il serpente gli sgusciò tra le zampe. L'aquila si elevò a volo lasciandolo in asso. I felini con una zampata lo scansarono minacciando: "Vedi che cosa c'è nella zampa felpata che per ora ti scansa soltanto? Artigli". I cavalli, e tutti i corridori in genere, si dettero a giocare al galoppo intorno a lui, deridendolo. E i forti elefanti o altri pachidermi, con un urto del muso lo gettarono qua e là, mentre le scimmie, dall'alto degli alberi, lo bersagliarono di proiettili.

L'agnello divenuto montone si inquietò infine, e disse: "Non volevo usare nè le mie corna nè la mia forza. Perchè io pure ho una forza in questo collo, e sarà presa a modello per abbattere ostacoli di guerra. Non volevo usarla perchè preferisco usare amore e persuasione. Ma posto che non vi piegate con queste armi, ecco che userò la forza, perchè se voi mancate al vostro dovere verso me e Dio, io non voglio mancare al mio dovere verso Dio e voi. E qui voglio che Giustizia e Bene, ossia Ordine, regnino".
E punì con le corna, leggermente perchè era buono, un testardo botolo che continuava a molestare i vicini, e poi, col collo fortissimo, sfondò la porta della tana dove un ingordo ed egoista porco aveva accumulato cibarie a scapito degli altri, e pure abbattè un cespuglio di liane eletto da due lussuriosi scimmiotti per i loro illeciti amori.
"Questo re si è fatto troppo forte. Vuole realmente regnare lui. Vuole proprio che noi si viva da saggi. Ciò non ci va a genio. Bisogna detronizzarlo" decisero.

Ma un astuto scimmiotto consigliò: "Non facciamolo altro che con l'apparenza di un motivo giusto. Altrimenti faremo brutta figura presso i popoli e saremo invisi a Dio. Spiamo dunque ogni azione dell'agnello divenuto montone per poterlo accusare con una parvenza di giustizia".
"Ci penso io" disse il serpente".
"Ed io pure" disse la scimmia.
Uno strisciando fra le erbe, l'altro stando sull'alto delle piante, non persero mai di vista l'agnello divenuto montone, e ogni sera, quando lui si ritirava per meditare e riposare dalle fatiche della missione, e sulle misure da adottare e le parole da usare per domare la ribellione e vincere i peccati dei sudditi, questi, meno qualche raro onesto e fedele, si riunivano per ascoltare il rapporto delle due spie e dei due traditori. Perchè tali erano anche.

Il serpente diceva al suo re: "Ti seguo perchè ti amo e se vedessi che sei assalito voglio potere difenderti."
La scimmia diceva al suo re: "Come ti ammiro! Ti voglio aiutare. Guarda: di qua io vedo che oltre quel prato si sta peccando. Corri!" e poi diceva ai compagni: "Anche oggi ha preso parte al banchetto di alcuni peccatori. Ha finto di andare là per convertirli, ma poi, in realtà, è stato complice dei loro bagordi".
E il serpente riferiva: "E' andato fino fuori dal suo popolo, avvicinando farfalle, mosconi e viscidi lumaconi. E' un infedele. Commercia con stranieri immondi".

Così parlavano alle spalle dell'innocente, credendo che costui ignorasse.

Ma lo spirito del Signore, che lo aveva formato alla sua missione, lo illuminava anche sulle congiure dei sudditi. Avrebbe potuto fuggire, sdegnato, maledicendoli. Ma l'agnello era dolce ed umile di cuore. Amava. Aveva il torto di amare. E aveva anche quello anche più grande di perseverare, amando e perdonando, nella sua missione, a costo della morte, per compiere la volontà di Dio.
Oh! che torti questi presso gli uomini! Imperdonabili! E tanto lo erano che a lui procurarono condanna.
"Sia ucciso; per essere liberati dalla sua oppressione".
E il serpente si incaricò di ucciderlo perchè è sempre il serpente il traditore...
O Maria sanctissima, quae omnia potes apud Deum
impetra mihi hanc gratiam, ut in tentationibus
semper ad Deum et ad Te confugiam

lunedì 16 settembre 2013

Il minatore perseverante

San Giuseppe da Copertino
Il Santo dei voli. Il Patrono degli studenti.
L'innamorato di Gesù e Mamma Maria
*

Le parabole di Gesù
(017)
Il minatore perseverante (251.6)

Un gruppo di scavatori scesero in una miniera dove sapevano esservi dei tesori, molto nascosti nelle viscere del suolo però. E iniziarono lo scavo. 
Ma il terreno era duro e faticoso il lavoro. 

Molti si stancarono e gettarono i picconi andandosene. Altri si burlarono del capo squadra quasi trattandolo da stolto. 
Altri imprecarono alla loro sorte, al lavoro, alla terra, al metallo, e con ira percossero le viscere della terra spezzando il filone in briciole inutili, e poi, visto di avere fatto rovine e non guadagni, se ne andarono essi pure.

Rimase solo il più perseverante. Con dolcezza trattò gli strati di terra tenace per perforarla senza guastare, fece saggi, approfondì, scavò. Uno splendido filone prezioso è finalmente messo allo scoperto. 


La perseveranza del minatore è stata premiata e con il metallo purissimo che ha scoperto egli può ottenere molti lavori e acquistare molta gloria e molti clienti, perchè tutti vogliono di quel metallo che solo la perseveranza ha saputo trovare là dove altri infingardi o iracondi non avevano nulla ottenuto.

venerdì 13 settembre 2013

L'artefice non riesce a modellare la resina pregiata


Le parabole di Gesù
(026)
L'artefice non riesce a modellare la resina pregiata (337.3)

Ad un artefice venne portato da un ricco stolto un grosso blocco di una sostanza bionda come il miele del più fino, e gli venne ordinato di lavorarlo riducendolo ad ornata ampolla.
"Non è sostanza buona al lavoro, questa" disse l'artefice al riccone. "Vedi? E' molliccia, elastica. Come posso scolpirla e modellarla?"
"Come? Non è buona? E' una resina pregiata, e un mio amico ne ha una piccola anfora nella quale il suo vino acquista un prezioso sapore. L'ho pagata a peso d'oro, per avere un'anfora più grande, e mortificare così il mio amico che se ne vanta. Fammela. E subito. O dirò che sei un artefice incapace."

"Ma quella del tua amico sarà di biondo alabastro".
"No. E' di questa sostanza".
"Sarà d'ambra fina".
"No. E' di questa sostanza".
"Sarà, mettiamolo, di questa sostanza, ma resa compatta, dura da secoli di antichità o da mescolanze con altre sostanze solidificanti. Chiediglielo e torna a dirmi come fu fatta la sua."
"No. Me l'ha venduta lui stesso assicurandomi che va usata così."
"E allora ti ha truffato per punirti della tua invidia sulla sua bell'anfora."
"Guarda come parli! Lavora, o io ti punirò levandoti la bottega. Chè tanto non vale tutto quanto hai per quello che mi costa questa resina stupenda."


L'artefice, desolato, si mise all'opera. Impastava.... Ma la pasta gli si appiccicava alle mani. Cercava di solidificarne in briciolo con mastici e polveri.... Ma la resina perdeva la sua trasparenza d'oro. La portava presso il forno fusorio sperando che il calore la indurisse e con le mani nei capelli doveva levarla perchè si faceva liquida. Mandò sull'alto Ermon a prendere neve gelata e ve la immerse.... Induriva, era bella. Ma non si modellava più. <La modellerò con lo scalpello> disse. Al primo colpo di scalpello la resina andò in pezzi.

L'artefice, disperato del tutto, già convinto che nulla poteva rendere lavorabile quella sostanza, tentò un'ultima prova. Riunì i pezzi, li fece di nuovo fluidi nel calore del forno, li ricongelò, ma non troppo, con la neve, e nella massa, molliccia appena, provò a lavorare di scalpello e di spatola. Si modellava, oh! sì! Ma appena levato scalpello e spatola tornava alla forma di prima, quasi fosse la pasta del pane gonfiante nella madia.

L'uomo si dette per vinto. E per fuggire alle rappresaglie del ricco e alla rovina, nella notte caricò su un carro la moglie, i figli, le suppellettili e gli arnesi di lavoro, lasciando al centro della stanza da lavoro, vuota di ogni cosa, la massa bionda della resina con sopra un cartiglio e la parola: <Inlavorabile>, e fuggi oltre i confini....

mercoledì 11 settembre 2013

Parabola della vite e dell'olmo


Le parabole di Gesù
(018)
Parabola della vite e dell'olmo (252.7 - 252.8)

Un agricoltore aveva molti alberi nei suoi campi e viti che davano molto frutto, fra le quali una di qualità pregiata di cui era molto orgoglioso.
Un anno questa vite fece molte fronde e pochi grappoli. Un amico disse all'agricoltore: "E' perchè l'hai troppo poco potata".
L'anno di poi l'uomo la potò molto. La vite fece pochi tralci, ancor meno grappoli. Un altro amico disse:" E' perchè l'hai troppo potata." Il terzo anno l'uomo la lasciò stare. La vite non fece neppure un grappolo e mise ben poche foglie, magre, accartocciate e sparse di ruggine. Un terzo amico sentenziò. "Muore perchè il terreno non è buono. Bruciala". "Ma perchè, se è lo stesso terreno che hanno le altre e se la curo come le altre? Prima faceva bene!" L'amico si strinse nelle spalle e se ne andò.
Passò un ignoto viandante e si fermò ad osservare l'agricoltore tristemente appoggiato al tronco della vite.
"Che hai?" gli chiese "Morti in casa?"
"No. Ma mi muore questa vite che amavo tanto. Non ha più succo per fare frutto. Un anno poco, l'altro meno, questo niente. Ho fatto quanto mi hanno detto, ma non è giovato."
L'ignoto viandante entrò nel campo e si accostò alla vite. Toccò le foglie, prese in mano una zolla di terra, l'annusò, la sbriciolò fra le dita, alzò lo sguardo al tronco di un albero che sorreggeva la vite.
"Devi levare quel tronco. Questa è sterilita da quello."
"Ma se è il suo appoggio da anni?!"
"Rispondimi, uomo: quando tu mettesti questa vite a dimora come era essa, e come era esso?"
"Oh! essa era un bel magliolo di tre anni. L'avevo ricavato da un'altra mia pianta, e per portarlo qui avevo fatto una profonda buca, onde non offendere le radici nel levarlo dalla zolla natia. Anche qui avevo fatto una buca uguale, anzi ancor più vasta perchè fosse subito a suo agio, e prima avevo zappettato tutta la terra intorno perchè fosse morbida per le radici, che potessero espandersi subito, senza fatica. Con ogni cura l'ho sistemata, mettendo sul fondo alletante concime. Le radici, tu lo sai, si fanno forti se trovano subito ciò che le nutre. Meno mi occupai dell'olmo. Era un alberello destinato solo a sorreggere il magliolo. Perciò lo misi quasi superficialmente presso il magliolo, lo rincalzai e me ne andai. Attecchirono tutti e due, perchè la terra è buona. Ma la vite cresceva di anno in anno, amata, potata, sarchiata. L'olmo invece stentava. Ma per quello che valeva!... Poi si è fatto robusto. Lo vedi ora come è bello? Quando torno da lontano ne vedo la cima svettare alta come una torre, e mi pare l'insegna del mio piccolo regno. Prima la vite lo ricopriva, e non si vedeva la sua bella fronda. Ma ora guarda come è bella là in alto, nel sole! E che tronco! Diritto, forte. Poteva sorreggere questa vite per anni ed anni, anche fosse divenuta uguale a quelle prese sul Torrente del Grappolo dagli esploratori d'Israele. Invece..."
"Invece te l'ha uccisa. L'ha soverchiata. Tutto era buono per il suo vivere: il terreno, la posizione, la luce, il sole, le cure che le davi. Ma questo l'ha uccisa. E' divenuto troppo forte. Le ha legate le radici fino a strozzarle, le ha levato ogni succo del suolo, le ha messo un bavaglio al suo respiro, al suo bisogno di luce. Sega subito questa inutile e poderosa pianta, e la tua vite risorgerà. E meglio ancora risorgerà se tu, con pazienza scaverai il suolo per mettere a nudo le radici dell'olmo e per segarle, onde essere sicuro che non gettino polloni. Marciranno nel suolo colle loro ultime ramificazioni, e da morte diventeranno vita perchè diverranno concime, degno castigo al loro egoismo. Il tronco lo brucerai, e ti darà utile così. Non serve che al fuoco una pianta inutile e nociva, e va levata perchè ogni bene vada alla pianta buona e utile. Abbi fede in ciò che io ti dico e sarai contento".
"Ma tu chi sei? Dimmelo perchè io possa avere fede".
"Io sono il Sapiente. Chi crede in Me sarà sicuro" e se ne andò.
L'uomo stette un poco in forse. Poi si decise e mise mano alla sega. Anzi chiamò gli amici per esserne aiutato.
"Ma sei stolto?" "Perderai l'olmo oltre che la vite". "Io mi limiterei a potarne la cima per dare aria alla vite. Non di più".
"Dovrà pure avere un sostegno. Fai un lavoro inutile". "Chissà chi era! Forse uno che ti odia a tua insaputa". "Oppure un pazzo" e via e via.
"Io faccio ciò che mi ha detto. Ho fede in lui. "E segò l'olmo presso la radice, e, non contento, per un largo raggio mise a nudo le radici delle due piante, con pazienza segò quelle dell'olmo, badando di non ferire quelle della vite, ricoprì la gran buca e alla vite, rimasta senza sostegno, mise accosto un robusto paletto di ferro con la parola: <Fede> scritta sopra una tavola legata in cima al palo.
Gli altri se ne andarono crollando il capo. Passò l'autunno e l'inverno. Venne la primavera. I tralci attorcigliati alla penzana si ornarono di gemme e gemme, prima serrate come in un astuccio di velluto argentato e poi socchiuse sullo smeraldo delle nascenti fogliette, e poi aperte, e poi allunganti dal tronco nuovi tralci robusti, tutti un fiorettar di fioretti e poi tutto un legar di acinelli.
Più grappoli che foglie, e queste ampie, verdi, robuste al pari dei penzoli di due, tre e più grappoli ancora. E ogni grappolo un fitto di acini carnosi, succosi, splendidi.
"Ed ora che dite? Era o non era l'albero la ragione per cui la mia vite moriva? Aveva o non aveva detto bene il Sapiente? Ho avuto o non ho avuto ragione a scrivere su quella tavola la parola: <Fede>?" disse l'uomo agli amici increduli.
"Hai avuto ragione. Te beato che hai saputo aver fede ed essere capace di distruggere il passato e ciò che ti fu detto nocivo".

martedì 10 settembre 2013

Parabola sui figli


Le parabole di Gesù
(029)
Parabola sui figli (364.9)

Un tempo vi fu un uomo il quale per alcuni suoi impegni dovette assentarsi per lungo tempo da casa lasciando dei figli ancora poco più che fanciulli. Dal luogo in cui si trovava scriveva lettere ai suoi figli maggiori per tenerli sempre nel rispetto del padre lontano e per ricordare loro i suoi insegnamenti. L'ultimo, nato quando egli era partito, era ancora a balia presso una donna lontana di lì, dei paesi della moglie, che non era della sua razza.

La moglie venne a morire mentre questo figlio era ancora piccolo e lontano da casa. I fratelli dissero:
"Lasciamolo là dove è, presso i parenti di nostra madre. Forse il padre se ne scorderà e noi ne avremo utile, avendo a dividere con uno di meno, quando nostro padre verrà a morte". E così fecero.

In questa maniera il fanciullo lontano visse allevato dai parenti materni, ignorando gli insegnamenti del padre, ignorando di avere un padre e dei fratelli, o peggio conoscendo l'amarezza della riflessione: "Essi tutti mi hanno ripudiato come fossi un bastardo" , e giunse persino a crederlo di esserlo, tanto si sentiva reietto dal padre.

Il caso volle che fatto uomo, e messosi ad un impiego - perchè, inasprito come era dai pensieri sopraddetti, aveva preso in odio anche la famiglia di sua madre che riputava colpevole di adulterio - questo giovane andasse nella città dove era il padre suo. E senza sapere chi fosse lo avvicinò ed ebbe modo di sentirlo parlare. L'uomo era saggio. Non avendo soddisfazioni dai figli lontani - che ormai facevano da sè mantenendo solo rapporti convenzionali con il padre lontano, tanto da ricordargli che essi erano i "suoi" figli, e che perciò se ne ricordasse nel testamento - si occupava molto di dare retti consigli ai giovani che aveva modo di avvicinare nella terra dove era.

Il giovane fu attratto da quella rettezza che era paterna verso tanti giovani, e non solo si accostò a lui ma fece tesoro di ogni suo parola, facendo buono il suo animo inasprito.

L'uomo si ammalò, dovette decidersi a tornare in patria. E il giovane gli disse: "Signore, tu solo mi hai parlato con giustizia, elevando l'animo mio. Lascia che io ti segua come servo. Non voglio ricadere nel male di prima".
"Vieni con me. Starai al posto di un figlio di cui non ho più potuto avere notizia". E tornarono insieme alla casa paterna.

Nè il padre, nè i fratelli, nè lo stesso giovane, intuirono che il Signore aveva riuniti di nuovo quelli di un sangue sotto un unico tetto. Ma il padre ebbe molto a piangere per i figli a lui noti, perchè li trovò dimentichi dei suoi insegnamenti, avidi, duri di cuore, non più con la fede in Dio ma sibbene con molte idolatrie in cuore: superbia, avarizia e lussuria erano i loro dèi, e non volevano sentire di altro che utile umano fosse.

Lo straniero, invece, sempre più si accostava al Signore, si faceva giusto, buono, amoroso, ubbidiente. I fratelli lo odiavano perchè il padre amava quello straniero. Egli perdonava e amava perchè aveva capito che nell'amore è la pace.
Il padre, un giorno, disgustato dalla condotta dei figli disse: "Voi vi siete disinteressati dei parenti di vostra madre, e persino del fratello vostro. Mi ricordate la condotta dei figli di Giacobbe verso il loro fratello Giuseppe. Voglio andare a quelle terre per sapere di lui. Può darsi che lo ritrovi e che ne abbia conforto.

E si accomiatò tanto dai figli noti come dal giovane sconosciuto, dando a questo viatico di denaro perchè potesse tornare al luogo da dove era venuto e mettervi un piccolo commercio.
Giunto alle terre della moglie morta, i parenti di essa gli raccontarono che il figlio abbandonato, dal nome primitivo di Mosè era passato a quello di Manasse, perchè realmente egli col suo nascere aveva fatto dimenticare al padre di essere giusto avendolo abbandonato.

"Non fatemi torto! Mi era stato detto che del fanciullo si erano perdute le tracce, e neppure speravo di trovare più alcun di voi. Ma ditemi di lui. Come è? E' cresciuto forte? Assomiglia alla mia amata sposa che si esaurì nel darmelo? E' buono? Mi ama?"

"Forte, è forte, e bello è come la madre sua, solo che ha gli occhi di un nero schietto. Ma persino della madre ha preso la voglia di carruba sul fianco. Di te invece ha la pronuncia lievemente blesa. Andò da adulto via di qui, inasprito della sua sorte, avendo dubbi sull'onestà della madre, e per te avendo rancore.
Buono sarebbe stato se non avesse avuto questo rancore nell'anima. Andò oltre i monti e fiumi fino a Trapezius per...."

"A Trapezius dite? Nel Sinopio? Oh! dite! Io là ero e vidi un giovane che era lievemente bleso, solo e triste, e buono tanto sotto la sua crosta di durezza. E' lui? Dite?"

"Forse lui sarà. Ricercalo. Sul fianco destro ha la carruba rilevata e scura come l'aveva la moglie tua."

L'uomo partì a precipizio, sperando ritrovare ancora lo straniero alla sua casa. Era partito per tornare verso la colonia di Sinopio. E l'uomo dietro... Lo trovò. Lo fece venire per scoprirgli il fianco. Lo riconobbe. Cadde in ginocchio lodando Iddio per avergli reso il figlio, e buono più degli altri che sempre più imbestiavano mentre questo, nei mesi che erano intercorsi, si era sempre più fatto santo. E al figlio buono disse: "Tu avrai la parte dei fratelli perchè tu, senza amore da parte di alcuno, ti sei fatto giusto più di ogni altro."


martedì 27 agosto 2013

Lo scultore perfetto e le copie mal fatte // Le parabole di Gesù


Le parabole di Gesù
(034)

Lo scultore perfetto e le copie mal fatte (419.7)

Uno scultore sommo e perfetto fece un giorno la forma di una statua e ne fece un'opera tanto perfetta che se ne compiacque e disse: "Voglio che la terra sia piena di tale meraviglia". Ma da sè solo non poteva sopperire a tale lavoro. Chiamò allora in suo aiuto altre persone e disse loro: " Su questo modello fatemi mille e diecimila statue ugualmente perfette. Io poi darò loro l'ultimo tocco, infondendo espressione alle loro fisionomie".

Ma gli aiutanti non erano capaci di tanto anche perchè, oltre ad essere molto inferiori nella capacità del loro maestro, si erano resi un poco ebbri avendo gustato un frutto il cui succo crea deliri e nebbie. Allora lo scultore dette loro come delle forme e disse: "In esse modellate la materia; sarà opera giusta ed io la farò completa avvivandola dell'ultimo colpo". E gli aiutanti si misero all'opera.



Ma lo scultore aveva un grande nemico. Nemico suo personale e nemico dei suoi aiutanti, il quale cercava con ogni mezzo di far sfigurare lo scultore e di mettere dissapori fra lui e i suoi aiutanti.

Perciò costui nelle opere di essi mise la sua astuzia, là alterando la materia da colare nella forma, qua indebolendo il fuoco, più oltre osannando gli aiutanti.

Onde avvenne che il reggitore del mondo, per cercare di impedire il più possibile che l'opera uscisse in copie imperfette, mise sanzioni gravi contro quei modelli usciti in modo imperfetto. Ed una fu che tali modelli non potessero essere esposti nella Casa di Dio. Là tutto deve, o dovrebbe esser perfetto. Dico: dovrebbe, perchè non è così. Anche se l'apparenza è buona, buona non è la realtà. I presenti nella Casa di Dio paiono senza difetti, ma l'occhio di Dio scopre in essi i più gravi. Quelli che sono nel cuore.

martedì 20 agosto 2013

I due figli del padrone


 Le parabole di Gesù
(033)
I due figli del padrone (407.6)
Un uomo aveva due figli. Avvicinatosi al primo disse: "Figlio mio, vieni a lavorare oggi nella vigna del padre tuo".

Un grande segno d'onore era quello del padre! Egli giudicava il figlio capace di lavorare là dove fino allora il padre aveva lavorato. Segno che vedeva nel figlio buona volontà, costanza, capacità, esperienza, e amore per il padre. Ma il figlio, un poco distratto da cose del mondo, timoroso di apparire in veste di servo - Satana fa uso di questi miraggi per allontanare dal Bene - temendo beffe e forse anche rappresaglie da nemici del padre, che su di lui non osavano alzare la mano ma meno riguardi avrebbero avuto col figlio, rispose: "Non ci vado. Non ne ho voglia".

Il padre andò allora dall'altro figlio, dicendogli ciò che aveva detto al primo. E il secondo figlio rispose subito: "Sì, padre. Vado subito."
Però che avvenne? Che il primo figlio, essendo di animo retto, dopo un primo momento di debolezza nella tentazione, di ribellione, pentitosi di aver disgustato il padre, senza parlare se ne andò alla vigna, e lavorò tutto il giorno fino alla più tarda sera, tornando poi soddisfatto alla sua casa con la pace nel cuore per il dovere compiuto.

Il secondo invece, menzognero e debole, uscì di casa, è vero, ma poi si perse a vagabondare per il paese in inutili visite ad amici influenti dai quali sperava avere utili. E diceva in cuor suo: "Il padre è vecchio e non esce di casa. Dirò che gli ho ubbidito ed egli lo crederà."

Ma venuta la sera anche per lui, e tornato a casa, il suo aspetto stanco e di ozioso, le vesti senza sgualciture, e l'insicuro saluto dato al padre che l'osservava e lo confrontava col primo, tornato stanco, sporco, scarmigliato, ma gioviale e sincero nello sguardo umile, buono, che, senza volere vantarsi del dovere compiuto, voleva però dire al padre: "Ti amo. E con verità. Tanto che per farti contento ho vinto la tentazione", parlarono chiaramente all'intelletto del padre. Il quale, abbracciato il figlio stanco disse: "Te benedetto perchè hai compreso l'amore".

sabato 10 agosto 2013

Le due volontà


Le parabole di Gesù
(032)
Le due volontà (394.1)


Un padre perfetto aveva due figli. Amati ambedue di uguale e sapiente amore. Indirizzati ambedue su vie buone. Nessuna differenza nel modo di amare e di dirigere. Eppure sensibile differenza era nei due figli.
Uno, il primogenito, era umile, ubbidiente, senza discutere faceva la volontà paterna, sempre ilare e contento del suo lavoro. L'altro, benchè minore, era sovente malcontento, e aveva discussioni con il padre e col suo proprio io. Sempre meditava, e con molto umana meditazione, sui consigli e sugli ordini che riceveva.

E in luogo di eseguirli così come venivano dati, si permetteva di modificarli in tutto o in parte, come se chi lo comandava fosse uno stolto. Il maggiore gli diceva:

"Non fare così. Dài pena al padre!". Ma egli rispondeva: "Sei uno stolto. Grande e grosso come sei, e primogenito per giunta, adulto ormai, oh! io non vorrei rimanermene nel rango dove il padre ti ha messo. Ma vorrei fare di più. Impormi ai servi. Che capiscano che io sono il padrone. Sembri un servo tu pure, con la tua perpetua mansuetudine. Non vedi come in fondo passi inosservato con tutta la tua primogenitura? Qualcuno ti deride persino..."
Il secondogenito, tentato, più che tentato: allievo di Satana, di cui con attenzione metteva in pratica le insinuazioni, tentava il primogenito. Ma costui, fedele al Signore nel rispetto della Legge, si manteneva fedele anche verso il padre suo, che onorava con la sua condotta perfetta.


Passarono gli anni e il secondogenito, seccato di non poter regnare come sognava, dopo aver pregato il padre più volte: "Da' a me il comando di fare in tuo nome, per il tuo onore, in luogo di mantenerlo a quello stolto che è più mite di una pecorella", dopo aver tentato di spingere il fratello a fare più che il padre non comandasse per imporsi sui servi, sui concittadini e confinanti, disse a se stesso: "Oh! basta! Qui ci va di mezzo anche il nostro buon nome! Posto che nessuno vuol fare, farò io". E si mise a fare cose di sua testa, abbandonandosi alla superbia e alla menzogna e disubbidendo senza scrupoli.


Il padre gli diceva: "Figlio mio, sta' sotto al primogenito. Egli sa ciò che fa". Diceva: "Mi dicono che hai fatto questo. E' vero?" E il secondogenito diceva, scrollando le spalle, all'una e all'altra parola paterna: "Sa, sa! E' troppo timido, titubante. Perde le occasioni di trionfo." Diceva: "Io non l'ho fatto". Il padre diceva: "Non andare in cerca di aiuti di questo e di quello. Chi vuoi che ti aiuti meglio di noi a dare lustro al nome nostro? Sono falsi amici che ti aizzano per ridere poi alle tue spalle". E il secondogenito diceva: "Sei geloso che sia io quello che ho iniziativa? Del resto io so di fare bene".

Passò ancora del tempo. Sempre più il primo cresceva in giustizia e l'altro nutriva le male passioni. Infine il padre disse: " E' l'ora di finirla. O ti pieghi a ciò che è detto o perdi il mio amore." E il ribelle andò a dirlo ai falsi amici. "Te la prendi per questo? Ma no! C'è modo di porre il padre nell'impossibilità di preferire un figlio all'altro. Mettilo nelle nostre mani e noi ci penseremo. Tu sarai senza colpa materiale, e il possesso dei beni rifiorirà perchè, levato di mezzo il troppo buono, tu potrai dargli gran lustro. Non sai che è meglio un atto forte, anche se dà dolore, all'inerzia che è danno del possesso?" risposero loro.
E il secondogenito, ormai saturo di malavolontà, aderì all'indegno complotto.

(Spiegazione)
Ave Maria:
Rosa, Giglio, Ciclamino.

venerdì 9 agosto 2013

Parabola del buon coltivatore

 
Le parabole di Gesù
(027)
La parabola del buon coltivatore (il fico non fece frutti e fu tagliato) (338.6)


"Un ricco aveva una grande e bella vigna nella quale erano anche piante di fichi di diverse qualità. Alla vigna attendeva un suo servo, esperto vignaiolo e potatore di piante da frutto, che faceva il suo dovere con amore al padrone e alle piante. 

Tutti gli anni il ricco, nella stagione migliore, andava a più riprese alla sua vigna per vedere maturare le uve e i fichi e gustarne, cogliendoli con le sue mani dalle piante. Un giorno, dunque, si diresse ad un fico che era di qualità buonissima, l'unica pianta di quella qualità che fosse nella vigna. Ma anche quel giorno, come nei due anni precedenti, lo trovò tutto fogliame e niente frutta. Chiamò il vignaiolo e disse: "Sono tre anni che vengo a cercare frutta su questo fico e non trovo che foglie. Si capisce che la pianta ha finito di fruttificare. Tagliala dunque. E' inutile che sia qui ad occupare posto, e ad occupare il tuo tempo, per poi conchiudere niente. Segala, bruciala, ripulisci il terreno dalle sue radici e nel posto suo mettici una pianticina novella. Fra qualche anno darà frutto essa".

Il vignaiolo, che era paziente e amoroso, rispose: "Tu hai ragione. Ma lasciami fare ancora per un anno. Io non segherò la pianta. Ma anzi con ancor maggior cura la zapperò intorno il suolo, la concimerò, e la poterò. Chissà che non fruttifichi ancora. Se dopo quest'ultima prova non farà frutto ubbidirò al tuo desiderio e la taglierò.
Corozim è il fico che non dà frutti. Io sono il Buon Coltivatore. E il ricco impaziente siete voi. Lasciate fare al Buon Coltivatore."

"Va bene. Ma la tua parabola non conclude. Il fico, l'anno di poi, fece frutto?" chiede lo Zelote.

"Non fece frutto e fu reciso. Ma il coltivatore fu giustificato del recidere una pianta ancora giovane e fiorente perchè aveva fatto tutto il suo dovere.........."

AVE MARIA!

domenica 4 agosto 2013

I pellegrini in cerca di lavoro // Una parabola indimenticabile

Le parabole di Gesù
(031)
I pellegrini in cerca di lavoro (385.4 - 385.5 - 385.6)

Un gruppo di pellegrini, venuti da lontane regioni in cerca di lavoro, si trovò ai confini di uno stato. A questi confini erano dei procacciatori di lavoro mandati da diversi padroni. 

Vi era 
chi cercava uomini per le miniere e 
chi per campi e boschi, 
chi servi per un ricco infame e 
chi soldati per un re che stava in cima ad un monte, nel suo castello al quale si accedeva per una strada molto erta. Il re voleva milizie, ma esigeva che le stesse fossero non tanto milizie di violenza quanto di sapienza, per mandarle poi per le città a santificare i suoi sudditi. Per questo viveva lassù, come in un romitaggio, per formare i suoi servi senza che le distrazioni mondane li corrompessero rallentando o annullando la formazione dello spirito. Non prometteva alte mercedi. Non prometteva vita comoda. Ma dava assicurazione che dal suo servizio sarebbe scaturita santità e premio.


Così dicevano i suoi messi a quelli che giungevano alle frontiere. 
Invece i messi dei padroni delle miniere o dei campi dicevano: "Non sarà vita comoda, ma però sarete liberi e guadagnerete di che darvi un poco di sollazzo." E quelli che cercavano servi per un padrone infame promettevano addirittura cibo abbondante, ozio, godimenti e ricchezze: "Basta che acconsentiate ai duri capricci - oh! per nulla penosi! - e godrete come tanti satrapi".


I pellegrini si consultarono fra loro. Dividersi non volevano.... Chiesero: "Ma i campi e le miniere, il palazzo dell'uomo gaudente e quello del re, sono vicini?"
"Oh! no!" risposero i procacciatori. " venite a quel quadrivio e vi mostreremo le diverse strade."

Andarono.

"Ecco! Questa splendida via, ombrosa, fiorita, liscia, con fonti fresche, discende al palazzo del signore" dissero i procacciatori dei servi.

"Ecco! Questa è polverosa, fra campi sereni, conduce ai campi. C'è sole, ma vedete che è bella ancora" dissero quelli dei campi.

"Ecco! Questa così solcata da ruote pesanti e sparsa di chiazze scure segna la direzione delle miniere. Non è nè bella nè brutta..." dissero quelli delle miniere.

"Ecco, questo sentiero ripido, tagliato fra rocce che il sole accende, sparso di pruni e burroni che rallentano l'andare, ma in compenso fanno difesa facile contro gli assalti dei nemici, conduce a oriente, al castello severo, diremmo quasi sacro, dove gli spiriti si formano al bene" dissero quelli del re.

I pellegrini guardavano, guardavano. Calcolavano.... Tentati da molte cose delle quali solo una era totalmente buona. E lentamente si divisero. Erano dieci. Tre piegarono verso i campi... e due verso le miniere. 

I superstiti si guardarono e due dissero: "Venite con noi. Dal re. Non guadagneremo e non godremo sulla Terra, ma saremo santi in eterno."

"Quel sentiero lì? Fossimo matti! Non guadagnare? Non godere? Non valeva la pena lasciare tutto e venire in esilio per avere ancor meno di ciò che avevamo nella patria nostra. Noi vogliamo guadagnare e godere..."
"Ma perderete il bene eterno! Non avete sentito che è padrone infame?"
"Fole! Dopo un poco lo lasceremo, ma avremo goduto e saremo ricchi."
"Non ve ne libererete più. Male hanno fatto i primi seguendo l'avidità del denaro. Ma voi! Voi seguite l'avidità del piacere. Oh! non mutate per un'ora fuggente la sorte eterna!"
"Siete degli stolti e credete alle promesse ideali. Noi andiamo alla realtà. Addio!..." e di corsa presero la bella via ombrosa, fiorita, ricca d'acque, liscia, in fondo alla quale brillava al sole il magico palazzo del gaudente.

I due superstiti presero, piangendo e pregando, l'erto sentiero. E dopo pochi metri quasi si sconfortarono tanto era difficile. Ma perseverarono. E la carne parve sempre più lieve più essi procedevano, la fatica si faceva consolata da un giubilo strano. Giunsero anelanti, graffiati, in cima al monte e furono ammessi al cospetto del re, il quale disse loro tutto quanto esigeva per farne i suoi prodi, e terminò dicendo: "Pensateci per otto giorni e poi rispondete."

Ed essi molto pensarono e dure lotte sostennero col Tentatore che voleva sgomentarli, con la carne che diceva: "Voi mi sacrificate", col mondo i cui ricordi seducevano ancora. Ma vinsero. Rimasero. Divennero eroi del Bene. Venne la morte, ossia la glorificazione. 

Dall'alto dei Cieli videro nel profondo quelli che erano andati al padrone infame. Incatenati anche oltre la vita gemevano nel buio dell'Inferno. "E volevano essere liberi e godere!" dissero i due santi.
E i tre dannati li videro e, orridi, li maledissero e maledissero tutti, Dio per primo, dicendo: "Ci avete tutti ingannati!"
"No. Non lo potete dire. Vi era stato detto del pericolo. Avete voluto il vostro male" risposero i beati, sereni anche vedendo e udendo gli scherni osceni e le oscene bestemmie lanciate ad essi.

E videro quelli dei campi e delle miniere in diverse regioni purgative, e quelli li videro e dissero: "Non fummo nè buoni nè cattivi, ed ora espiamo la tiepidezza nostra. Pregate per noi!"
"Oh! lo faremo! Ma perchè mai non siete venuti con noi?"
"Perchè fummo non demoni, ma uomini... Ingenerosi fummo. Amammo il transitorio, anche se onesto, più dell'Eterno e Santo. Ora impariamo a conoscere e ad amare con giustizia".



Parabola sui figli



Le parabole di Gesù
(029)
Parabola sui figli (364.9)


Un tempo vi fu un uomo il quale per alcuni suoi impegni dovette assentarsi per lungo tempo da casa lasciando dei figli ancora poco più che fanciulli. Dal luogo in cui si trovava scriveva lettere ai suoi figli maggiori per tenerli sempre nel rispetto del padre lontano e per ricordare loro i suoi insegnamenti. L'ultimo, nato quando egli era partito, era ancora a balia presso una donna lontana di lì, dei paesi della moglie, che non era della sua razza.


La moglie venne a morire mentre questo figlio era ancora piccolo e lontano da casa. I fratelli dissero:
"Lasciamolo là dove è, presso i parenti di nostra madre. Forse il padre se ne scorderà e noi ne avremo utile, avendo a dividere con uno di meno, quando nostro padre verrà a morte". E così fecero.
In questa maniera il fanciullo lontano visse allevato dai parenti materni, ignorando gli insegnamenti del padre, ignorando di avere un padre e dei fratelli, o peggio conoscendo l'amarezza della riflessione: "Essi tutti mi hanno ripudiato come fossi un bastardo" , e giunse persino a crederlo di esserlo, tanto si sentiva reietto dal padre.


Il caso volle che fatto uomo, e messosi ad un impiego - perchè, inasprito come era dai pensieri sopraddetti, aveva preso in odio anche la famiglia di sua madre che riputava colpevole di adulterio - questo giovane andasse nella città dove era il padre suo. E senza sapere chi fosse lo avvicinò ed ebbe modo di sentirlo parlare. L'uomo era saggio. Non avendo soddisfazioni dai figli lontani - che ormai facevano da sè mantenendo solo rapporti convenzionali con il padre lontano, tanto da ricordargli che essi erano i "suoi" figli, e che perciò se ne ricordasse nel testamento - si occupava molto di dare retti consigli ai giovani che aveva modo di avvicinare nella terra dove era.

Il giovane fu attratto da quella rettezza che era paterna verso tanti giovani, e non solo si accostò a lui ma fece tesoro di ogni suo parola, facendo buono il suo animo inasprito.
L'uomo si ammalò, dovette decidersi a tornare in patria. E il giovane gli disse: "Signore, tu solo mi hai parlato con giustizia, elevando l'animo mio. Lascia che io ti segua come servo. Non voglio ricadere nel male di prima".
"Vieni con me. Starai al posto di un figlio di cui non ho più potuto avere notizia". E tornarono insieme alla casa paterna.

Nè il padre, nè i fratelli, nè lo stesso giovane, intuirono che il Signore aveva riuniti di nuovo quelli di un sangue sotto un unico tetto. Ma il padre ebbe molto a piangere per i figli a lui noti, perchè li trovò dimentichi dei suoi insegnamenti, avidi, duri di cuore, non più con la fede in Dio ma sibbene con molte idolatrie in cuore: superbia, avarizia e lussuria erano i loro dèi, e non volevano sentire di altro che utile umano fosse.
Lo straniero, invece, sempre più si accostava al Signore, si faceva giusto, buono, amoroso, ubbidiente. I fratelli lo odiavano perchè il padre amava quello straniero. Egli perdonava e amava perchè aveva capito che nell'amore è la pace.

Il padre, un giorno, disgustato dalla condotta dei figli disse: "Voi vi siete disinteressati dei parenti di vostra madre, e persino del fratello vostro. Mi ricordate la condotta dei figli di Giacobbe verso il loro fratello Giuseppe. Voglio andare a quelle terre per sapere di lui. Può darsi che lo ritrovi e che ne abbia conforto.
E si accomiatò tanto dai figli noti come dal giovane sconosciuto, dando a questo viatico di denaro perchè potesse tornare al luogo da dove era venuto e mettervi un piccolo commercio.

Giunto alle terre della moglie morta, i parenti di essa gli raccontarono che il figlio abbandonato, dal nome primitivo di Mosè era passato a quello di Manasse, perchè realmente egli col suo nascere aveva fatto dimenticare al padre di essere giusto avendolo abbandonato.
"Non fatemi torto! Mi era stato detto che del fanciullo si erano perdute le tracce, e neppure speravo di trovare più alcun di voi. Ma ditemi di lui. Come è? E' cresciuto forte? Assomiglia alla mia amata sposa che si esaurì nel darmelo? E' buono? Mi ama?"

"Forte, è forte, e bello è come la madre sua, solo che ha gli occhi di un nero schietto. Ma persino della madre ha preso la voglia di carruba sul fianco. Di te invece ha la pronuncia lievemente blesa. Andò da adulto via di qui, inasprito della sua sorte, avendo dubbi sull'onestà della madre, e per te avendo rancore.
Buono sarebbe stato se non avesse avuto questo rancore nell'anima. Andò oltre i monti e fiumi fino a Trapezius per...."
"A Trapezius dite? Nel Sinopio? Oh! dite! Io là ero e vidi un giovane che era lievemente bleso, solo e triste, e buono tanto sotto la sua crosta di durezza. E' lui? Dite?"
"Forse lui sarà. Ricercalo. Sul fianco destro ha la carruba rilevata e scura come l'aveva la moglie tua."

L'uomo partì a precipizio, sperando ritrovare ancora lo straniero alla sua casa. Era partito per tornare verso la colonia di Sinopio. E l'uomo dietro... Lo trovò. Lo fece venire per scoprirgli il fianco. Lo riconobbe. Cadde in ginocchio lodando Iddio per avergli reso il figlio, e buono più degli altri che sempre più imbestiavano mentre questo, nei mesi che erano intercorsi, si era sempre più fatto santo. E al figlio buono disse: "Tu avrai la parte dei fratelli perchè tu, senza amore da parte di alcuno, ti sei fatto giusto più di ogni altro."

Santa Maria, 
in Te ogni grazia di vita e di verità

lunedì 29 luglio 2013

Sta' attento! Difenditi!


Le parabole di Gesù
(030)
Parabola del fattore infedele (381.4 - 381.5)

C'era dunque un ricco il quale aveva un fattore. Alcuni nemici di questo perchè invidiosi del buon posto che aveva, oppure molti amici del ricco e perciò premurosi del suo benessere, accusarono il fattore al suo padrone. "Egli dissipa i tuoi beni. Se ne appropria. Oppure trascura di farli fruttare. Sta' attento! Difenditi!"

Il ricco, udite le ripetute accuse, comandò al fattore di comparirgli davanti. E gli disse: "Di te mi è stato detto questo e quello. Come mai hai agito in tal modo? Dammi rendiconto della tua amministrazione perchè non ti permetto più di tenerla. Non poso fidarmi di te e non posso dare un esempio di ingiustizia e di supinità che indurrebbe i conservi ad agire come tu hai agito. Va' e torna domani con tutte le scritture, che io le esamini per rendermi conto della posizione dei miei beni prima di darli ad un nuovo fattore."

E licenziò il fattore che se ne andò pensieroso dicendo fra sè: "E ora? Come farò ora che il padrone mi leva la fattoria? Economie non ne ho perchè, persuaso come ero di farla franca, tanto usurpavo tanto godevo. Mettermi come contadino, e sottoposto, non mi va perchè sono disusato al lavoro e appesantito dai bagordi. Chiedere l'elemosina mi va meno ancora. Troppo avvilimento! E che faro?"

Pensa e pensa trovò modo di uscire dalla penosa situazione. Disse: "Ho trovato! Con lo stesso mezzo come mi sono assicurato un bel vivere fino ad ora, d'ora in poi mi assicurerò amici che mi ospiteranno per riconoscenza quando non avrò più la fattoria. Chi benefica ha sempre amici. Andiamo dunque a beneficare per essere benificato e andiamoci subito, prima che la notizia si sparga e sia troppo tardi."

E andato dai diversi debitori del suo padrone disse al primo: "Quanto devi tu al mio padrone per la somma che ti prestò alla primavera di tre anni fa?"
E l'interrogato rispose: "Cento barili d'olio per la somma e gli interessi":
"Oh! poverino! Tu, così carico di prole, tu afflitto da malattie nei figli, dover dare tanto?! Ma non ti dette per un valore di trenta barili!"
"Sì. Ma avevo bisogno subito e lui mi disse: <Te lo dò. Ma a patto che tu mi dia quanto la somma ti frutta in tre anni>. Mi ha fruttato per un valore di cento barili. E li devo dare."
"Ma è usura! No. No. Lui è ricco, e tu sei appena fuori della fame. Lui è con poca famiglia, e tu con tanta. Scrivi che ti ha fruttato per cinquanta barili e non ci pensare più. Io giurerò che ciò è vero. E tu avrai benessere".
"Ma non mi tradirai? Se lo viene a sapere?"
"Ti pare? Io sono il fattore, e ciò che giuro è sacro. Fa' come ti dico e sii felice."
L'uomo scrisse, consegnò, e disse: "Te benedetto! Mio amico e salvatore! Come compensarti?"
"Ma in nessun modo! Vuol dire che se per te avessi a soffrire ed essere cacciato tu mi accoglierai per riconoscenza."
"Ma certo! Certo! Contaci pure."

Il fattore andò da un altro debitore, tenendo su per giù lo stesso discorso. Costui doveva rendere cento staia di grano perchè per tre anni la secca aveva distrutto le sue biade, e aveva dovuto chiederne al ricco per sfamare la famiglia.
"Ma non ci pensare a raddoppiare ciò che ti ha dato! Negare il grano! Esigerne il doppio da uno che ha fame e figli, mentre il suo tarla nei granai perchè ce ne è in esuberanza! Scrivi ottanta staia".
Ma se si ricorda che me ne ha date venti, e venti e poi dieci?"
"Ma che vuoi che si ricordi? Io te li ho dati e io non voglio ricordare. Fa', fa' così e mettiti a posto. Giustizia ci vuole fra i poveri e ricchi! Io già, se ero io il padrone, volevo solo le cinquanta staia, e forse condonavo anche quelle."
"Tu sei buono. Fossero tutti come te! Ricordati che la mia casa ti è amica."

Il fattore andò da altri, tenendo lo stesso metodo, professandosi pronto a soffrire per rimettere le cose a posto con giustizia. E offerte di aiuti e benedizioni piovvero su di lui. Rassicurato sul domani, andò tranquillo dal padrone, il quale, a sua volta, aveva pedinato il fattore e scoperto il suo gioco. Pure lo lodò dicendo: "La tua azione non è buona, e per essa non ti lodo. Ma lodarti devo per la tua accortezza. In verità, in verità i figli del secolo sono più avveduti dei figli della Luce."

 AMDG et B.V.M.