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mercoledì 13 giugno 2018

La virtù del Santo ... come il piombino


13. La virtù dei santi è come il piombino del muratore che controlla la perpendicolarità dei muri... 

Quando si celebrano le feste dei santi, viene teso questo piombino sulla vita dei peccatori; e quindi celebriamo le loro feste per avere dalla loro vita una norma per la nostra. 

È ridicolo perciò nelle solennità dei santi, volerli onorare con i cibi (con grandi pranzi), quando sappiamo che essi hanno conquistato il cielo con i digiuni.

Prezioso:
http://www.ac-immacolata.it/testi_sussidi/files/sant_antonio_da_padova.pdf

https://www.monasterovirtuale.it/servizi/download/dottori-della-chiesa/457-s-antonio-di-padova-i-sermoni-1/file.html



lunedì 4 giugno 2018

Sant'Antonio

Sant’Antonio è nato in Portogallo, a Lisbona, nel 1195. Una tradizione molto tardiva indica la data del 15 agosto. Figlio di genitori nobili, sappiamo che venne battezzato con il nome di Fernando.
Trascorre i primi anni di formazione sotto la guida dei canonici del Duomo. Saranno anni preziosi per la sua formazione e discernimento.
E’ nel 1220 che Fernando viene a contatto con i frati minori, religiosi animati da Francesco d’Assisi nella lontana Italia. Infatti le reliquie di cinque missionari francescani torturati e uccisi in Marocco vengono portate a Coimbra, nella chiesa di Santa Croce, proprio dove si trovava Fernando
E’ di questo periodo il probabile contatto più approfondito con i primi francescani giunti in Portogallo.
L’incontro si rivelerà fondamentale nel percorso di fede del giovane religioso: con grande sorpresa di tutti, nel settembre 1220 decide di lasciare i Canonici agostiniani per entrare a far parte dei seguaci di Francesco d’Assisi. Per l’occasione, abbandona il vecchio nome di battesimo per assumere quello di Antonio.
Antonio matura una forte vocazione alla missione e, in particolare, al martirio: e con questo ideale parte alla volta del Marocco.

Giunto in Marocco però Antonio contrae una grave e non ben precisata malattia: è costretto al riposo forzato e non può predicare. Dopo qualche tempo - non guarendo - non gli resta che arrendersi alla volontà di Dio e rimpatriare. Ma la nave su cui si era imbarcato per il ritorno viene spinta da venti contrari fino alla Sicilia, con un rovinoso naufragio.
Da qui, dopo una convalescenza di un paio di mesi, si reca ad Assisi: è l’occasione propizia per incontrare Francesco d’Assisi che nella Pentecoste del 1221 aveva convocato tutti i frati. Sarà un incontro semplice ma capace di confermare la scelta di Antonio nella sequela di Cristo per mezzo della fraternità e minorità francescane.
Antonio è invitato a recarsi in Romagna, all’eremo di Montepaolo, vicino a Forlì, per dedicarsi alla preghiera, alla mediazione e all’umile servizio ai confratelli.

Nel settembre 1222 si celebrano a Forlì le ordinazioni sacerdotali. Secondo la leggenda viene meno il predicatore invitato per l’occasione: Antonio - religioso e sacerdote - viene invitato a sostituirlo: è la rivelazione del suo talento come predicatore. Nonostante sia straniero, dalle sue parole emergono la sua profonda cultura biblica la semplicità d’espressione.
Da quel giorno Antonio viene inviato sulle strade del nord Italia e del sud della Francia per animare con la sua predicazione del Vangelo genti e paesi spesso confusi dai dilaganti movimenti ereticali del tempo. Avrà anche parole di correzione per la decadenza morale di alcuni esponenti della Chiesa.
Sul finire del 1223 ad Antonio viene proposto anche di insegnare teologia a Bologna, compito che svolge per due anni, all’età di 28-30 anni. Sant’Antonio è dunque tra i primi religiosi dediti all’insegnamento della teologia nella fraternità minoritica, ricevendo per questo l’approvazione di san Francesco in persona attraverso una lettera a noi giunta.
Sappiamo che nel 1226 Antonio è a Limoges, in Francia; non abbiamo notizie chiare sul tempo del ritorno in Italia. Le agiografie indicano però la sua presenza ad Assisinel Capitolo generale dei Frati minori, tenuto in Assisi per la Pentecoste il 30 maggio 1227.

Antonio, per i talenti che dimostra di saper mettere a servizio del Regno di Dio, riceve anche l’incarico di Ministro provinciale (ossia guida delle fraternità francescane) del nord Italia, con molta probabilità nel triennio 1227-1230. L'incarico comporta la visita di numerosi conventi dell'Italia settentrionale. Antonio dimostrerà poi di prediligere la città di Padova e la piccola comunità francescana presso la semplice chiesa di Santa Maria Mater Domini.
In questa città Antonio farà un paio di soggiorni ravvicinati relativamente brevi: il primo, fra il 1229 e il 1230; il secondo, fra il 1230 e il 1231, durante il quale muore precocemente. Nonostante il periodo sia così relativamente breve, con questa città Antonio instaura un fortissimo legame.
L’Assidua, prima biografia di sant'Antonio, afferma che scrisse i suoi Sermones per le domeniche durante un suo soggiorno a Padova. Nonostante la notizia non sia del tutto fondata, è certo che questo voluminoso testo (rivolto in modo particolare ai confratelli per formarli alla predicazione) esprime bene la grande scienza teologica del religioso che - dopo la canonizzazione - riceverà anche il titolo di Dottore della Chiesa.

L’impegno profuso da parte di Antonio nella predicazione e nel sacramento della riconciliazione durante la Quaresima del 1231 può essere considerato il suo grande testamento spirituale.
Tutto questo unito a una grande attenzione ai poveri e ai mali della città: grazie ai suoi interventi e insegnamenti sappiamo che in uno statuto cittadino relativo ai debitori insolventi, datato 17 marzo 1231, il podestà di Padova Stefano Badoer stabilisce che il debitore insolvente senza colpa, una volta ceduti in contropartita i propri beni, non deve più essere imprigionato.

Le fatiche della quaresima logorano un fisico già provato. Dopo Pasqua accetta di ritirarsi con altri confratelli a Camposampiero (paese a pochi chilometri da Padova) presso l’ospitalità del Conte Tiso. Chiede però che gli venga adattato un semplice rifugio sopra un grande albero di noce, dove trascorre le giornate in contemplazione con Dio e in dialogo che le genti umili del borgo di campagna. E’ durante questo soggiorno che Gesù, nell’aspetto di bambino, lo visita e dialoga con lui, come il conte Tiso potrà testimoniare.
Un venerdì – è il 13 giugno 1231 – viene colto da malore. Deposto su  un carro trainato da buoi, viene trasportato a Padova, dove lui stesso chiede di poter morire. Giunto però all'Arcella, un borgo alle porte della città, mormorando le parole "Vedo il mio Signore", spira all’età di circa 36 anni.
Dopo qualche giorno, con solenni funerali, Antonio viene sepolto a Padova, presso la chiesetta di Santa Maria Mater Domini, il suo rifugio spirituale nei periodi di intensa attività apostolica.
Un anno dopo la morte, la devozione dei padovani e la fama dei tanti prodigi compiuti convincono papa Gregorio IX a ratificare rapidamente la canonizzazione e a proclamarlo Santo il 30 maggio 1232, a soli 11 mesi dalla morte. 
La Chiesa poi nel 1946 proclama sant’Antonio di Padova "dottore della chiesa universale", col titolo di Doctor evangelicus.

Sant'Antonio venne sepolto a Padova, nella chiesetta di Santa Maria Mater Domini, rifugio spirituale del Santo nei periodi di intensa attività apostolica, martedì 17 giugno 1231. Probabilmente il corpo non venne interrato, ma fatto rimanere un po’ sopraelevato in un’urna marmorea, in maniera che i devoti, sempre più frequenti e numerosi, potessero vederne e toccarne l’arca-tomba.
Nel corso dei secoli, per motivi diversi, la tomba è stata aperta e le sue reliquie spostate in tre occasioni:

Ricognizione e traslazione del 1263

La più importante ricognizione e traslazione avvenne l’8 aprile 1263, quando il corpo venne trasferito nella chiesa, la Basilica appunto, che era stata costruita in suo onore. Bonaventura da Bagnoregio, allora ministro generale dei francescani, poi anche lui santo, presiedette la cerimonia.
Nell’esaminare i resti mortali, prima di riporli in una nuova cassa di legno, si accorse che la lingua del Santo era rimasta incorrotta. A tale scoperta Bonaventura esclamò: "O lingua benedetta, che sempre hai benedetto il Signore e l’hai fatto benedire dagli altri, ora si manifestano a tutti i grandi meriti che hai acquistato presso Dio".

Traslazione del 1310

Un’altra traslazione sicura avvenne il 14 giugno 1310, quando le sacre spoglie furono solennemente trasportate nella nuova cappella dedicata al Santo, all’estremità sinistra del transetto.
Il 14 febbraio 1350 il cardinale Guido de Boulogne venne a Padova per sciogliere un voto al Santo (era stato guarito dalla peste nera) e per donare un prezioso reliquiario in cui fu posta la mandibola del santo.

Ricognizione ed esposizione del 1981

Un’importante indagine sui resti del Santo fu iniziata il 6 gennaio 1981, in occasione del 750° anniversario della morte di sant’Antonio. Una commissione religiosa e una commissione tecnico-scientifica, entrambe nominate dalla Santa Sede, curarono l’apertura della tomba ed esaminarono quanto vi rinvennero. Rimossa una lastra laterale di marmo verde, si trovò una grande cassa di legno d’abete, avvolta in preziosi drappi.
Essa conteneva un’altra cassa più piccola in legno, dentro cui in diversi involti, sistemati in tre comparti, avvolti in drappi preziosi e con scritte indicative, c’erano:
- lo scheletro, ad eccezione del mento, dell’avambraccio sinistro e di altre parti minori (da secoli conservate in altri reliquiari particolari),
- la tonaca,
- la "massa corporis", cioè le ceneri: qui sono state individuate le fragili parti dell’apparato vocale del Santo, quasi a riconfermare il prodigio della lingua incorrotta.
I resti di sant'Antonio furono poi ricomposti in un’urna di cristallo ed espostidalla sera del 31 gennaio alla sera della domenica 1° marzo 1981 (per un totale di 29 giorni) alla venerazione dei devoti, che accorsero a folle impressionanti: oltre 650.000 persone.
Al termine dell’ostensione l’urna di cristallo venne rinchiusa in una cassa di rovere e riposta nella secolare tomba-altare della cappella dedicata a sant’Antonio.
Alcuni reperti, in particolare la tonaca e le reliquie dell’apparato vocale di sant'Antonio, sono tuttora esposti nella Cappella delle Reliquie.

Ostensione del 2010

Infine nel febbraio del 2010 per sei giorni i fedeli hanno potuto venerare le Spoglie mortali di S. Antonio esposte nella Cappella delle Reliquie della Basilica del Santo,
prima del loro ritorno alla Cappella dell'Arca  una volta terminato il restauro iniziato nel 2008.
Risultato: circa 200.000 pellegrini giunti in Basilica e 150.000 preghiere lasciate sulla tomba, a confermare ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, l’amore della gente per il nostro caro Santo.

Per le Litanie del Santo:

lunedì 5 marzo 2018

La sintesi di tutte le cose che sono state scritte... per tener viva la Speranza



18. La sintesi di tutte le cose che sono state scritte per nostro ammaestramento consiste soprattutto in tre cose: 

nella creazione, 

nella redenzione e 

nel giudizio dell'ultimo giorno. 

La creazione e la redenzione ci insegnano ad amare Dio, 

l'ultimo giudizio a temerlo, 

"affinché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture, teniamo viva la nostra speranza" 
(Rm 15,4).

Sant'Antonio di Padova

AMDG et DVM

domenica 6 agosto 2017

Prendiamo con noi Pietro Giacomo e Giovanni e gioiamo per il PROSSIMO destino

II. La Trasfigurazione di Gesù Cristo

6. “E fu trasfigurato davanti a loro” (Mt 17,2) [come da liturgia del 6.agosto.'17]. Imprimi te stesso come molle cera su questa figura, per poter ricevere la figura di Gesù Cristo. Ecco come fu: “Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la neve” (Mt 17,2). In questa espressione si devono osservare quattro particolari: il volto, il sole, le vesti e la neve. 
Vedremo quale sia il loro significato morale.

Nella parte frontale della testa, che è il volto dell’uomo, ci sono tre sensi, la vista, l’odorato e il gusto, ordinati e disposti in modo mirabile. 

L’olfatto è posto tra la vista e il gusto, quasi come una bilancia. Analogamente nel volto della nostra anima ci sono tre sensi spirituali, disposti in ordine perfetto dalla sapienza del sommo artefice: la visione della fede, l’olfatto (il fiuto) della discrezione e il gusto della contemplazione.

7. Riguardo alla visione della fede, si legge nell’Esodo che “Mosè e Aronne, Nadab e Abiu e settanta anziani videro il Signore di Israele; sotto i suoi piedi vi era come un’opera di pietra di zaffiro, simile al cielo quando è sereno” (Es 24,9-10).

In questa citazione sono descritti tutti coloro che vedono con l’occhio della fede, e che cosa debbano vedere, cioè credere. 

Mosè s’interpreta “acquatico”, e raffigura tutti i religiosi che devono impregnarsi dell’acqua delle lacrime; a tale scopo infatti sono stati tolti dal fiume dell’Egitto, affinché in questa orribile solitudine [del mondo] seminino nelle lacrime e poi raccolgano in giubilo nella terra promessa. 
Aronne, sommo pontefice, che s’interpreta “monta­no" – [Dio lo mandò a incontrare Mosè sul monte (cf. Es 4,27)] –, raffigura tutti gli alti prelati della chiesa, che sono costituiti sul monte della dignità e dell’autorità. 
Nadab, che s’interpreta “spontaneo”, rappresenta tutti i sudditi, i quali devono obbedire spontaneamente, volentieri, e non per costrizione. Abiu, che s’interpreta “padre di essi”, raffigura tutti coloro che sono uniti in matrimonio secondo la forma della chiesa, affinché siano genitori di figli. Infine i settanta anziani d’Israele rappresentano tutti i battezzati, che nel sacramento hanno ricevuto lo Spirito Santo, il quale infonde i sette doni della grazia. Tutti costoro vedono, cioè credono, e devono vedere e credere nel Dio d’Israele.

“E sotto i suoi piedi c’era come un’opera di pietra di zaffiro”. Ecco che cosa devono credere. 
Le parole “Signore d’Israele” indicano la divini­tà, le parole “ sotto i suoi piedi” indicano l’umanità di Gesù Cristo, che dobbiamo credere vero Dio e vero uomo. 
Di questi piedi dice Mosè: “Quelli che si avvicinano ai suoi piedi riceveranno la sua dottrina” (Dt 33,3). Perciò è detto che Maria [di Màgdala] sedeva ai piedi del Signore e ascoltava la sua parola (cf. Lc 10,39). Sotto i piedi del Signore, vale a dire dopo l’in­car­nazione di Gesù Cristo, apparve l’opera del Signore, come di pietra di zaffiro e simile al cielo quando è sereno. Lo zaffiro e il cielo sereno sono dello stesso colore.

E osserva che lo zaffiro ha quattro proprietà: 
mostra in se stesso una stella, 
fa scomparire il carbonchio [dell’uomo], 
è simile al cielo sereno e 
ferma il sangue. 

Lo zaffiro raffigura la santa chiesa, che ebbe inizio dopo l’incarnazione di Cristo e durerà sino alla fine del tempo. Essa si articola in quattro ordini, cioè gli apostoli, i martiri, i confessori della fede e le vergini, che possiamo giustamen­te paragonare alle quattro proprietà dello zaffiro

Lo zaffiro mostra in se stesso una stella: questo fatto è figura degli apostoli, che per primi hanno mostrato la stella mattutina della fede a coloro che sedevano nelle tenebre e nell’ombra della morte (cf. Lc 1,79). 

Lo zaffiro con il contatto fa scomparire il carbonchio, che è una malattia mortale: e questo è figura dei martiri, che con il loro martirio hanno sconfitto la malattia mortale dell’idolatria. 

Lo zaffiro, che ha il colore del cielo, raffigura i confessori della fede, i quali, reputando sudiciume tutte le cose temporali, si sono innalzati con la fune dell’amore divino alla contemplazione della beatitudine celeste, dicendo con l’Apostolo: “La nostra patria è nei cieli” (Fil 3,20). 

Infine lo zaffiro ferma il sangue: e questo raffigura le vergini, che per amore dello sposo celeste hanno fermato totalmente in se stesse il sangue della concupiscenza carnale. E questa è l’opera meravigliosa di pietra di zaffiro, che apparve sotto i piedi del Signore.

È chiaro dunque che cosa la tua anima debba vedere e che cosa tu debba credere con l’occhio della fede.

8. Sull’olfatto (fiuto) della discrezione, leggiamo nel Cantico dell’amore (Cantico dei Cantici): “Il tuo naso è come la torre del Libano che guarda contro Damasco” (Ct 7,4). In questa citazione ci sono quattro parole molto importanti: naso, torre, Libano e Damasco

Nel naso è indicata la discrezione; 
nella torre l’umil­tà; 
nel Libano, che s’interpreta “bianchezza”, la castità; 
in Damasco, che s’interpreta “chi beve sangue”, la perfidia del diavolo.

Il naso dell’anima dunque è la virtù della discrezione, per mezzo della quale essa, come con un naso, deve saper distinguere il profumo dal fetore, il vizio dalla virtù, e avvertire anche cose poste lontano, cioè le tentazioni del diavolo che stanno per arrivare. 
Dice appunto Giobbe del vero giusto: “Sente da lontano l’odore della battaglia, gli incitamenti dei condottieri e le urla degli eserciti” (Gb 39,25). 

L’anima fedele con l’olfatto, cioè con la virtù della discrezione, prevede la guerra della carne, e i comandi dei condottieri, cioè le suggestioni della vana ragione raffigurate nei condottieri, e questo per non cadere nella fossa dell’iniquità sotto l’apparenza della santità; sente gli urli dell’esercito, cioè le tentazioni dei demoni che ululano come bestie feroci: l’ululato è proprio delle bestie feroci.

Questo “naso” della sposa dev’essere come la torre del Libano: la virtù della discrezione consiste soprattutto nell’umiltà del cuore e nella castità del corpo. 
E giusta­mente l’umiltà è detta “torre di castità” perché, come la torre difende l’accampamento, così l’umiltà del cuore difende la castità del corpo dai dardi della fornicazione. 

Se tale sarà l’olfatto della sposa, potrà agevolmente guardare contro Damasco, cioè contro il diavolo, che brama succhiare il sangue delle nostre anime, smascherando così la sua sottile perfidia.

9. Del gusto della contemplazione, dice il Profeta: “Gustate e vedete quanto è buono il Signore!” (Sal 33,9). 

Gustate, cioè con la gola della vostra mente spremete, e spremendo rievocate la beatitudine di quella celeste Gerusalemme, che è la glorificazione delle anime sante, l’ineffabile gloria delle schiere angeliche, la perenne dolcezza del Dio uno e trino; e pensate anche a quanto grande sarà la gloria di partecipare ai cori degli angeli, insieme ad essi lodare Dio con voce instancabile, contemplare di presenza il volto di Dio, ammirare la manna della divinità nell’urna d’oro dell’umanità. 

Se gusterete a fondo queste cose, in verità, in verità constaterete quanto è soave il Signore. Beata quell’anima, il cui volto è dotato e ornato di tali sensi!

Osserva ancora che l’olfatto è posto, quasi come l’ago della bilancia, tra la vista della fede e il gusto della contemplazione. 

Nella fede infatti è necessaria la discrezio­ne, affinché non ci azzardiamo ad avvicinarci a vedere il roveto ardente (cf. Es 3,3), a sciogliere i legacci dei sandali (cf. Lc 3,16), cioè a voler investigare il mistero dell’incar­nazione del Signore. Credi soltanto, e questo è sufficiente. Non è in tuo potere sciogliere i legami. Dice Salomone: “ Chi ha la pretesa di scrutare la maestà di Dio, sarà oppresso dalla gloria” (Pro 25,27). Crediamo dunque con fermezza, e profes­siamo la nostra fede con semplicità.

Anche nella contemplazione è necessaria la discrezione, per non pretendere di assaporare delle cose celesti più di quanto sia conveniente (cf. Rm 12,3). 
Dice infatti Salomone: “Figlio, hai trovato il miele?”, cioè la dolcezza della contemplazione? “Mangiane solo quanto ti basta, per non vomitarlo se ne mangi troppo” (Pro 25,16). Vomita il miele colui che, non conten­to della grazia che gli è data senza suo merito, vuole esplorare con la ragione umana la dolcezza della contempla­zione, trascurando ciò che è detto nella Genesi, che alla nascita di Beniamino, Rachele morì (cf. Gn 35,17-19).

In Beniamino è raffigurata la grazia della contemplazione, in Rachele l’umana ragione. 
Alla nascita di Beniamino muore Rachele, perché quando la mente, pretendendo di elevarsi al di sopra delle sue forze, intravede qualcosa della luce della divinità, ogni umana ragione viene meno. La morte di Rachele raffigura il venir meno della ragione. Perciò ha detto qualcuno: “Nessuno con l’umana ragione può giungere fin dove è stato rapito Paolo” (Riccardo di San Vittore).

Pertanto l’olfatto della discrezione sia come una bilancia posta tra la visione della fede e il gusto della contem­plazione, affinché il volto dell’anima nostra risplenda come il sole.

10. Osserva ancora che nel sole ci sono tre prerogative: lo splendore, la bianchezza e il calore. E vedi come queste tre proprietà del sole si accordino perfettamente con i tre sopraddetti sensi dell’anima.

Lo splendore del sole si accorda con la visione della fede, che con la chiarezza della sua luce vede e crede alle cose invisibili. 
La bianchezza, cioè la nitidezza e la purezza, si confà alla discrezione dell’olfatto; e giustamen­te, perché come ci turiamo il naso e ci voltiamo dall’altra parte davanti a una cosa puzzolente, così per la virtù del­la discrezione dobbiamo allontanarci dall’immondezza del peccato. 

E anche il calore del sole conviene al gusto della contemplazione, perché in questa c’è veramente il calore dell’amore. Dice infatti il beato Bernardo: “È assolutamente impossibile che il sommo Bene possa essere contemplato senza essere amato”: Dio infatti è l’amore stesso.

Fate dunque attenzione, o carissimi, e vedete quanto sia utile, quanto salutare prendere con sé quei tre compagni e salire sul monte della luce, perché lì c’è veramente la trasfigurazione dall’apparenza di questo mondo, che svanisce (cf. 1Cor 7,31), alla figura di Dio, che resta nei secoli dei secoli, e della quale è detto: “Il suo volto rifulse come il sole”. 

Risplenda come il sole anche il volto della nostra anima, affinché ciò che vediamo con la fede brilli nelle opere; e il bene che ben comprendiamo all’interno si traduca nella testimonianza delle opere all’esterno, per la virtù della discrezione; e ciò che gustiamo nella contem­plazione di Dio si accenda di calore nell’amore del prossi­mo. Solo così il nostro volto risplenderà come il sole.

11. “Le sue vesti divennero bianche come la neve” (Mt 17,2), “quali nessun lavandaio sulla terra riuscirebbe a fare” (Mc 9,2).

Le vesti dell’anima nostra sono le membra di questo nostro corpo: esse devono essere candide. Dice Salomone: “In ogni tempo siano candide le tue vesti!” (Eccle 9,8). 
Di quale candore? 
“Come la neve”, dice il vangelo. Il Signore, per bocca di Isaia, promette ai peccatori che si convertono: “Se i vostri peccati saranno come lo scarlatto, saranno resi bianchi come la neve (Is 1,18).

Osserva qui due cose: lo scarlatto e la neve. 
Lo scar­latto è una stoffa che ha il colore del fuoco e del sangue. 
La neve è fredda e bianca. 
Nel fuoco è raffigurato l’ardore del peccato, 
nel sangue la sua immondezza; 
nella freddezza della neve è simboleggiata la grazia dello Spirito Santo, 
nella bianchezza la purezza della mente. 

Dice dunque il Signore: “Se i vostri peccati fossero come lo scarlatto”, ecc. È come se dicesse: Se ritornerete a me, io infonderò in voi la grazia dello Spirito Santo che estinguerà l’ardore del peccato e laverà la sua immondezza. 

Egli stesso dice ancora per bocca di Ezechiele: “Verserò su di voi acqua pura e sarete purificati da tutte le vostre sozzure” (Ez 36,25).
Perciò le vesti, vale a dire le membra del nostro corpo, siano bianche come la neve, affinché la freddezza della neve, cioè la compunzione della mente, estingua l’ardore del peccato, e la purezza di una vita santa deterga ogni immondezza.

Le vesti raffigurano anche le virtù della nostra anima, che, di esse rivestita, appare gloriosa al cospetto del Signore. 

Di queste vesti, nel racconto biblico di questa domenica, è detto che Rebecca rivestì Giacobbe di vesti molto belle, che teneva presso di sé (cf. Gn 27,15). 
Rebecca, cioè la sapienza di Dio Padre, rivestì Giacobbe, vale a dire il giusto, di virtù, vesti molto belle perché intessute con la mano e l’arte della sua Sapienza: vesti che tiene presso di sé, riposte nel tesoro della sua gloria; e le ha veramente, perché è Signore e padrone di tutto e le dà a chi vuole, quando vuole e come vuole.
Queste vesti sono dette candide per l’effetto che producono, perché rendono l’uo­mo candido, non dico solo come la neve, ma molto più di essa. E tali vesti nessun lavandaio, cioè nessun predicatore sopra la terra, può renderle così candide con il lavaggio della sua predicazione.

III. l’apparizione di mosè e di elia

12. “Apparvero Mosè ed Elia, che discutevano con lui” (Mt 17,3).
Al giusto così trasfigurato, così illuminato, così rivestito, appaiono Mosè ed Elia. 

In Mosè, che era il più mansueto di tutti gli uomini che abitavano sulla terra (cf. Nm 12,3), i cui occhi non si erano appannati, né smossi i denti (Dt 34,7), è simboleggiata la mansuetudine della misericordia e della pazienza.

“Mansueto” è come dire “abituato alla mano” (manui assuetus). Questi è come un figlio, come un animale addomesticato, abituato alla mano (all’azione) della grazia divina: il suo occhio, cioè la ragione, non si annebbia con la fuliggine dell’odio, né si offusca con la nuvola del rancore; i suoi denti non si muovono contro alcuno con la mormorazione, né mordono con la detrazione.

In Elia, del quale si narra nel terzo libro dei Re che uccise i profeti di Baal sulle rive del torrente Cison (cf. 3Re 18,40), è simboleggiato lo zelo per la giustizia

“Baal” s’interpreta “che sta in alto”, o “divoratore”, e “Cison” “la loro durezza”. 
Perciò colui che veramente arde di zelo per la giustizia, 

uccide con la spada della predi­cazione, della minaccia e della scomunica i profeti e i servi della superbia, che tendono sempre verso l’alto; 

uccide i servi della gola e della lussuria, che tutto divorano: li uccide perché muoiano al vizio e vivano per Iddio (cf. Gal 2,19). E compie quest’opera nel torrente Cison, cioè per l’eccessiva durezza del loro cuore, per la quale accumulano su di sé la collera per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio (cf. Rm 2,5).
E dice in proposito il Signore per bocca di Ezechiele: “Sono figli di dura cervice e di cuore indomabile, quelli ai quali io ti mando” (Ez 2,4); “davvero tutta la casa d’Israele è di fronte impudente e di cervice ostinata” (Ez 3,7). 
Ha la fronte impudente colui che, quando viene rimproverato, non solo disprezza la correzione, ma neppure arrossisce del suo peccato. A costui rinfaccia Geremia: “Ti sei fatta una faccia da meretrice: non hai voluto arrossire” (Ger 3,3).

Mosè ed Elia, cioè la mansuetudine della misericordia e lo zelo per la giustizia, devono apparire col giusto, già trasfigurato sul monte della santa vita, affinché, come il Samaritano, sia in grado di versare sulle piaghe del ferito il vino e l’olio, affinché il vigore del vino supplisca alla delicatezza dell’olio, e la delicatezza dell’olio attenui la forza del vino.

Dell’angelo che apparve nella Risurrezione di Cristo, è detto in Matteo che il suo aspetto era come la folgore e le sue vesti come la neve (cf. Mt 28,3). 

Nella folgore è indicata la severità del giudizio, nel candore della neve la grazia della misericordia. 

L’an­gelo, cioè il prelato, deve avere l’aspetto della folgore, affinché le donne, cioè le menti effeminate, inorridiscano di sé alla vista della sua santità. Come fece Ester, della quale è detto: “Quando Assuero alzò il viso e mostrò dallo sfavillio degli occhi la collera del suo animo, la regina si sentì venir meno, mutò il suo colore in pallore e abbandonò la testa sulla spalla dell’ancella che l’accompagnava” (Est 15,10). 
Ma il prelato, come fece Assuero, deve porgere lo scettro d’oro della benevolenza (cf. Est 15,15), e indossare le vesti della neve, affinché quelli che la severità paterna ha rimproverato, li consoli la pietosa benevolenza della madre. 

Per questo è detto: Pur usando la sferza del padre, abbi anche le mammelle della madre.

Il prelato dev’essere come il pellicano, che – come si racconta – uccide i suoi nati, ma poi estrae dal proprio corpo del sangue e lo versa sopra di essi, e così li richiama in vita. 

Così deve fare il prelato: i suoi figli, i suoi sudditi, che ha stimmatizzato con il flagello della disciplina e ucciso con la spada dell’aspra invettiva, deve poi con il suo sangue, cioè con la compunzione della mente e l’effusione delle lacrime – che Agostino definisce “sangue dell’anima” –, richiamarli alla penitenza, nella quale appunto sta la vita dell’ani­ma.

IV. la dichiarazione della voce del padre:
“questo è il mio figlio amatissimo”

13. E se in te si effettueranno prima queste tre eventi, cioè la salita sul monte, la trasfigurazione e l’apparizione di Mosè ed Elia, il quarto seguirà necessariamente, come continua il vangelo: “Ed ecco che una nube luminosa li avvolse” (Mt 17,5). 

Un’espressione simile la troviamo alla fine dell’Esodo, dove è detto: “Dopo che tutte le cose furono compiute, una nube coprì la tenda della testimonianza, e la gloria del Signore la riempì” (Es 40,31-32).
Rammenta che nella tenda della testimonianza c’erano quattro oggetti:
 il candelabro a sette lumi, la mensa della proposizione, l’arca del testamento e l’altare d’oro (cf. Es 25,31-36). 

La tenda della testimonianza raffigura il giusto: tenda, perché “la sua vita sulla terra è un combattimento” (Gb 7,1): infatti è dalla tenda che i soldati armati sono soliti uscire per affrontare i nemici, quando sono da essi attaccati; così fa pure il giusto quando intraprende il combattimento, e viene lui stesso attaccato; per questo si dice: “Il nemico che combatte valorosamente, fa combattere valorosamente anche te” (Ovidio); tenda della testimonianza, che ha non solo da quelli che sono fuori (cf. 1Tm 3,7) e che talvolta non corrisponde al vero, ma da se stesso, perché sua gloria è la testimonianza della sua coscienza (cf. 2Cor 1,12), e non della lingua altrui.

In questa tenda della testimonianza, il candelabro d’oro, battuto a mano, con sette lumi, raffigura la compunzione del cuore d’oro del giusto, che è percosso da molteplici sospiri come da tanti martelli. 
I sette lumi di questo candelabro sono i tre capretti, le tre forme di pane e l’anfora di vino, portati dai tre suddetti compagni del giusto. E nella tenda del giusto c’è anche la mensa della proposizione, nella quale è raffigurata la perfezione della vita santa, sulla quale devono essere posti i pani della proposizione, cioè il nutrimento della predicazione, che a tutti deve essere offerto. Dice infatti l’Apo­stolo: “Sono in debito sia verso i greci che verso i barbari” (Rm 1,14).

E ancora lì nella tenda c’è l’arca dell’alleanza, con dentro la manna e la verga di Aronne. 
Nell’arca, cioè nella mente del giusto, ci dev’essere la manna della mansuetudine, per essere come Mosè, e la verga della correzione, per essere come Elia. 
E infine c’è l’altare d’oro, simbolo del fermo proposito della perseveranza finale. In questo altare viene offerto ogni giorno l’incenso della devota compunzione e da esso salgono gli aromi della profumata orazione.

14. Giustamente quindi è detto: “Dopo che tutte le cose furono compiute, una nube coprì la tenda della testimonian­za”. Tale tenda, nella quale è compiuto tutto ciò che riguarda la perfezione, è coperta dalla nube ed è riempita dalla gloria del Signore, come è detto nel vangelo di oggi: “E una nube luminosa li avvolse”. 

Infatti la grazia del Signore ripara il giusto trasfigurato sul monte della luce, cioè della santa vita: lo ripara dagli ardori della prosperità di questo mondo, dalla pioggia della concupiscenza carnale, dalla tempesta della persecuzione diabolica; e così merita di sentire lo spirare di un’aura leggera (cf. 3Re 19,12), la tenerezza di Dio Padre che dice: “Questo è il figlio mio amatissimo, ascoltatelo!” (Mt 17,5).

È veramente degno di essere chiamato figlio di Dio, colui che ha preso con sé i tre sopraddetti compagni, che è salito sul monte, che ha trasfigurato se stesso dalla figura di questo mondo nella figura di Dio, che ha avuto come compagni Mosè ed Elia e ha meritato di essere avvolto dalla nube luminosa.

Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, che dalla valle della miseria tu ci faccia salire al monte della vita santa, affinché segnati dall’impronta della tua passione e fondati sulla mansuetudine della misericordia e lo zelo della giustizia, meritiamo nel giorno del giudizio di essere avvolti dalla nube luminosa e di sentire la voce della gioia, della letizia e dell’esultanza: “Venite, benedetti del Padre mio”, che vi ha benedetti sul monte Tabor, “rice­vete il regno che è stato preparato per voi fin dall’origine del mondo” (Mt 25,34).
A questo regno si degni di condurci colui al quale è onore e gloria, lode e dominio, maestà ed eternità nei secoli dei secoli. E ogni spirito risponda: Amen!

AMEN

martedì 14 giugno 2016

LE DIVINE PAROLE DEL SANTO


14. Giuseppe e Maria sono figura della speranza e del timore, che sono come i "genitori" del giusto. 

La speranza è l'attesa dei beni futuri, che genera un sentimento di umiltà e una pronta disponibilità di servizio. 

La speranza è detta in latino spes, quasi pes, piede, passo di avanzamento: ecco l'aumento, l'accrescimento. 

Al contrario si dice disperazione, quando non c'è nessuna possibilità di andare avanti, poiché quando uno ama il peccato non spera certo nella gloria futura. 

E perché la speranza non degeneri in presunzione, dev'essere unita al timore, che è principio della saggezza (Sal 110,10; Eccli 1,16), al cui possesso nessuno può giungere se prima non ha assaporato l'amarezza del timore. 
Per questo è detto nell'Esodo che i figli d'Israele, prima di arrivare alla dolcezza della manna, trovarono l'amarezza dell'acqua di Mara (cf. Es 15,23). Bevendo una medicina amara si arriva alla gioia della guarigione.

SANT'ANTONIO PREGA PER NOI

lunedì 13 giugno 2016

SANT'ANTONIO DA PADOVA


Breve profilo biografico di
Sant' Antonio di Padova
Sacerdote e dottore della Chiesa

Fernando di Buglione nasce a Lisbona da nobile famiglia portoghese discendente dal crociato Goffredo di Buglione.

A quindici anni è novizio nel monastero di San Vincenzo a Lisbona tra gli agostiniani, poi si trasferisce nel monastero di Santa Croce di Coimbra, il maggior centro culturale del Portogallo appartenente all'Ordine dei Canonici regolari di Sant'Agostino, dove studia scienze e teologia con ottimi maestri, preparandosi all'ordinazione sacerdotale che riceverà nel 1219, quando ha ventiquattro anni. Quando sembrava dover percorrere la carriera del teologo e del filosofo,decide di lasciare l'ordine agostiniano. Fernando, infatti, non sopporta i maneggi politici tra i canonici agostiniani e re Alfonso II, in cuor suo anela ad una vita religiosamente più severa. Il suo desiderio si realizza allorché, nel 1220, giungono a Coimbra i corpi di cinque frati francescani decapitati in Marocco,dove si erano recati a predicare per ordine di Francesco d'Assisi.

Quando i frati del convento di monte Olivares arrivano per accogliere le spoglie dei martiri, Fernando confida loro la sua aspirazione di vivere nello spirito del Vangelo. Ottenuto il permesso dal provinciale francescano di Spagna e dal priore agostiniano, Fernando entra nel romitorio dei Minori e fa subito professione religiosa, mutando il nome in Antonio in onore dell'abate, eremita egiziano. Anelando al martirio, subito chiede ed ottiene di partire missionario in Marocco.
È verso la fine del 1220 che s'imbarca su un veliero diretto in Africa, ma durante il viaggio è colpito da febbre malarica e costretto a letto. La malattia si protrae e in primavera i compagni lo convincono a rientrare in patria per curarsi.
Secondo altre versioni, Antonio non si fermò mai in Marocco: ammalatosi appena partito da Lisbona, la nave fu spinta da una tempesta direttamente a Messina, in Sicilia. Curato dai francescani della città, in due mesi guarisce.
A Pentecoste è invitato al Capitolo generale di Assisi, arriva con altri francescani a Santa Maria degli Angeli dove ha modo di ascoltare Francesco, ma non di conoscerlo personalmente. Il ministro provinciale dell'ordine per l'Italia settentrionale gli propone di trasferirsi a Montepaolo, presso Forlì, dove serve un sacerdote che dica la messa per i sei frati residenti nell'eremo composto da una chiesolina, qualche cella e un orto. Per circa un anno e mezzo vive in contemplazione e penitenza, svolgendo per desiderio personale le mansioni più umili, finché deve scendere con i confratelli in città, per assistere nella chiesa di San Mercuriale all'ordinazione di nuovi sacerdoti dell'ordine e dove predica alla presenza di una vasta platea composta anche dai notabili.
Ad Antonio è assegnato il ruolo di predicatore e insegnante dallo stesso Francesco, che gli scrive una lettera raccomandandogli, però, di non perdere lo spirito della santa orazione e della devozione. Comincia a predicare nella Romagna, prosegue nell'Italia settentrionale, usa la sua parola per combattere l'eresia (è chiamato anche il martello degli eretici), catara in Italia e albigese in Francia, dove arriverà nel 1225. Tra il 1223 e quest'ultima data pone le basi della scuola teologica francescana, insegnando nel convento bolognese di Santa Maria della Pugliola.
Quando è in Francia, tra il 1225 e il 1227, assume un incarico di governo come custode di Limoges. Mentre si trova in visita ad Arles, si racconta gli sia apparso Francesco che aveva appena ricevuto le stigmate.
Come custode partecipa nel 1227 al Capitolo generale di Assisi dove il nuovo ministro dell'Ordine, Francesco nel frattempo è morto, è Giovanni Parenti, quel provinciale di Spagna che lo accolse anni prima fra i Minori e che lo nomina provinciale dell'Italia settentrionale. Antonio apre nuove case, visita i conventi per conoscere personalmente tutti i frati, controlla le Clarisse e il Terz'ordine, va a Firenze, finché fissa la residenza a Padova e in due mesi scrive i Sermoni domenicali.
A Padova ottiene la riforma del Codice statutario repubblicano grazie alla quale un debitore insolvente ma senza colpa, dopo aver ceduto tutti i beni non può essere anche incarcerato. Non solo, tiene testa ad Ezzelino da Romano, che era soprannominato il Feroce e che in un solo giorno fece massacrare undicimila padovani che gli erano ostili, perché liberi i capi guelfi incarcerati.
Intanto scrive i Sermoni per le feste dei Santi, i suoi temi preferiti sono i precetti della fede, della morale e della virtù, l'amore di Dio e la pietà verso i poveri, la preghiera e l'umiltà, la mortificazione e si scaglia contro l'orgoglio e la lussuria, l'avarizia e l'usura di cui è acerrimo nemico.
E' mariologo, convinto assertore dell'assunzione della Vergine, su richiesta di papa Gregorio IX nel 1228 tiene le prediche della settimana di Quaresima e da questo papa è definito "arca del Testamento". Si racconta che le prediche furono tenute davanti ad una folla cosmopolita e che ognuno lo sentì parlare nella propria lingua.
Per tre anni viaggia senza risparmio, è stanco, soffre d'asma ed è gonfio per l'idropisia, torna a Padova e memorabili sono le sue prediche per la quaresima del 1231. Per riposarsi si ritira a Camposampiero, vicino Padova, dove il conte Tiso, che aveva regalato un eremo ai frati, gli fa allestire una stanzetta tra i rami di un grande albero di noce. Da qui Antonio predica, ma scende anche a confessare e la sera torna alla sua cella arborea. Una notte che si era recato a controllare come stesse Antonio, il conte Tiso è attirato da una grande luce che esce dal suo rifugio e assiste alla visita che Gesù Bambino fa al Santo.

A mezzogiorno del 13 giugno, era un venerdì, Antonio si sente mancare e prega i confratelli di portarlo a Padova, dove vuole morire. Caricato su un carro trainato da buoi, alla periferia della città le sue condizioni si aggravano al punto che si decide di ricoverarlo nel vicino convento dell'Arcella dove muore in serata.
Si racconta che mentre stava per spirare ebbe la visione del Signore e che al momento della sua morte, nella città di Padova frotte di bambini presero a correre e a gridare che il Santo era morto.
Nei giorni seguenti la sua morte, si scatenano "guerre intestine" tra il convento dove era morto che voleva conservarne le spoglie e quello di Santa Maria Mater Domini, il suo convento, dove avrebbe voluto morire. Durante la disputa si verificano persino disordini popolari, infine il padre provinciale decide che la salma sia portata a Mater Domini. Non appena il corpo giunge a destinazione iniziano i miracoli, alcuni documentati da testimoni.
Anche in vita Antonio aveva operato miracoli quali esorcismi, profezie, guarigioni, compreso il riattaccare una gamba, o un piede, recisa, fece ritrovare il cuore di un avaro in uno scrigno, ad una donna riattaccò i capelli che il marito geloso le aveva strappato, rese innocui cibi avvelenati, predicò ai pesci, costrinse una mula ad inginocchiarsi davanti all'Ostia, fu visto in più luoghi contemporaneamente, da qualcuno anche con Gesù Bambino in braccio. Poiché un marito accusava la moglie di adulterio, fece parlare il neonato "frutto del peccato" secondo l'uomo per testimoniare l'innocenza della donna.
I suoi miracoli in vita e dopo la morte hanno ispirato molti artisti fra cui Tiziano e Donatello.
Antonio fu canonizzato l'anno seguente la sua morte dal papa Gregorio IX.

La grande Basilica a lui dedicata sorge vicino al convento di Santa Maria Mater Domini.
Trentadue anni dopo la sua morte, durante la traslazione delle sue spoglie, San Bonaventura da Bagnoregio trovò la lingua di Antonio incorrotta, ed è conservata nella cappella del Tesoro presso la basilica della città patavina di cui è patrono.
Nel 1946 Pio XII lo ha proclamato Dottore della Chiesa.